GIOVANNI BOCCACCIO
EPISTOLA CONSOLATORIA
A MESSER PINO DE' ROSSI
Io estimo, messer
Pino, che sia non solamente utile, ma necessario l'aspettare tempo debito ad ogni cosa.
Chi è sì fuori di sè che non conosca in vano darsi conforti alla misera madre, mentre
ch'ella davanti da sè il corpo vede del morto figliuolo e quello medico essere poco savio
che, innanzi che il malore sia maturo, si affatica di porvi la medicina che 'l purghi; e
vie meno quegli che nelle biade cerca di prendere frutto allora che la materia a producere
i fiori è disposta? Le quali cose mentrechè meco medesimo ho ragguardate, insino a
questo dì, siccome da cosa ancora non fruttuosa di scrivervi mi sono astenuto, avvisando
nella novità del vostro infortunio, non che a' miei conforti, ma a quelli di qualunque
altro voi avere chiusi gli orecchi dello intelletto. Ora, costringendovi la forza della
necessità, chinati gli omeri, disposto, credo, vi siate a sostenere e a ricevere ogni
consiglio ed ogni conforto che sostegno vi possa dare alla fatica; perchè, siccome in
materia disposta a prendere l'aiuto del mendicante, parmi che più da stare non sia senza
scrivervi; il che non lascerò di fare, quantunque la bassezza del mio stato e la depressa
mia condizione tolgano molto di fede e di autoritade alle mie parole. Perciò se alcuno
frutto farà lo mio scrivere, sommo piacere mi fia; e dove no 'l facesse, tanto sono uso
di perdere delle mie fatiche, che l'avere perduto questa mi sarà leggieri.
Soglionsi adunque, siccome ai più savj
pare, nelle novità degli accidenti eziandio le menti degli uomini più forti commuovere,
e quantunque voi e forte e savio siate, in sì grande èmpito della fortuna (come quello
che quasi in un momento vi giunse addosso) odo che fieramente e doluto e turbato vi siate.
In verità io non me ne maraviglio, pensando primieramente che convenuto vi sia lasciare
la propria patria, nella quale nato, allevato e cresciuto vi siete, la quale amavate ed
amate sopra ogni altra cosa e per la quale i vostri maggiori e voi, acciocchè salva
fusse, non solamente l'avere, ma ancora la persone avete poste. Ma così vi voglio dire;
quantunque questo strale, ch'è il primo che l'esilio saetta, sia (e spezialmente
improvviso) di gravissirna pena e noja a sostenere, o a ricevere che dire vogliamo,
nondimeno si conviene all'uomo discreto, dopo il piegamento dato, da quello risurgere e
rilevarsi, acciocchè, standosi in terra, non divenga lieta la nimica fortuna d'intera
vittoria. Ed acciocchè questo rilevamento si possa fare, e possa il rilevato consistere,
è di necessità di avere gli occhi della mente rivolti alle vere ragioni ed agli esempli,
e non alle false opinioni della moltitudine indiscreta nè al luogo donde e nel quale il
misero è caduto.
Vogliono ragionevolmente gli antichi
filosofi, il mondo generalmente a chiunque ci nasce essere una città, perchè in
qualunque parte di quello si truova il discreto, nella sua città si ritrova; nè altra
variazione è dal partirsi, o dall'essere cacciato da una terra e andare a stare in
un'altra, se non quella ch'è in quelle medesime città che noi, da sciocca opinione
tratti, nostre diciamo, di una casa partirsi ed andare ad abitare in un'altra. E come i
popoli hanno nelle loro particolari città, al bene essere di quelle, singulari leggi
date, così la natura a tutto il mondo le ha date universali. In qualunque parte noi
andremo, troveremo l'anno distinto in quattro parti; il sole la mattina levarsi e
occultarsi la sera; le stelle egualmente lucere in ogni luogo; ed in quella maniera gli
uomini e gli altri animali generarsi e nascere in levante come nel ponente si generano e
nascono. Nè è alcuna parte ove il fuoco sia freddo e l'acqua di secca complessione, o
l'aere grave e la terra leggiere; e quelle medesime forze hanno in India le arti e
gl'ingegni che in Ispagna, ed in quel medesimo pregio sono i laudevoli costumi in Austro
che in Aquilone. Adunque, poichè in ogni parte dove che noi ci siamo con eguali leggi
siamo dalla natura trattati, e in ogni parte il cielo, il sole e le stelle possiamo
vedere, e 'l beneficio della varietà de' tempi e degli elementi usare, e adoperare le
arti e gl'ingegni, siccome nelle case dove nascemmo possiamo, che varietà porremo noi tra
questo e quelle dove ci permutiamo? certo niuna. Adunque non giustamente esilio, ma
permutazione chiamare dobbiamo quella che, o costretti o volontarj, d'una terra in
un'altra facciamo; nè fuori della città nella quale nascemmo riputar ci dobbiamo in
alcun modo se non quando per morte, lasciata quella, alla eterna ne andiamo.
Se forse si dicesse, altre usanze essere
ne' luoghi dove l'uomo si permuta che nelli lasciati, queste non si debbono tra le
gravezze annoverare conciosiacosachè le novità sempre siano piaciute a' mortali, e
inconveniente cosa sarebbe a concedere che più di valore avesse ne' piccioli fanciulli,
l'usanza che il senno negli attempati. Possono i piccioli fanciulli, tolti d'un luogo e
trasportati in un altro, quello per la usanza far suo e mettere il naturale in oblio; il
che molto maggiormente l'uomo dee saper fare col senno, in tanto quanto il senno dee avere
più di vigore, ed ha, che non ha l'usanza quantunque ella sia seconda natura chiamata.
Questo mostrarono già molti, e tutto dì lo dimostrano i Fenicj, partiti di Siria,
n'andarono nell'altra parte del mondo, cioè nell'isola di Gade, ad abitare; i
Marsigliesi, lasciata la loro nobile città in Grecia, ne vennono tra le alpestre montagne
di Gallia e tra li fieri popoli a dimorare; la famiglia Porzia, lasciato Tusculano, ne
venne a divenire romana. Chi potrebbe dire quanti già a diletto lasciarono le proprie
sedie e allogaronsi nelle altrui? E se questo può fare il senno per sè medesimo, quanto
maggiormente il dee fare chi dalla opportunità è ajutato o sospinto ? Per che estimo non
di picciolo giovamento, poichè così piace alla fortuna, che voi a voi medesimo facciate
credere non costretto, ma volontario l'esservi d'un luogo permutato in un altro, e che
quest'altro sia il vostro, e quello che lasciato avete fosse l'altrui: questo vi
agevolerà la noja, dove l'altro l'aggraverebbe.
Direbbesi forse per alcuni, non essere in
queste cose quelle qualità che io dimostro, e massimamente in questo, che voi nella
vostra città eravate potente ed in grandissimo pregio appo li cittadini, che non sarete
così nell'altrui. Il che io non concederò di leggieri; perciocchè chi è dappoco, se
perde lo stato, non ha di che dolersi, quello perdendo che non avea meritato; e colui che
è da molto dee essere certo che in ogni parte è in grandissimo pregio la virtù.
Coriolano fu più caro sbandito ai Volsci, che ai Romani cittadino; Alcibiade, dagli
Ateniesi cacciato, divenne principe de' navali eserciti di Lacedemonia; e Annibale fu
troppo più accetto ad Antioco re, che a' suoi Cartaginesi stato non era: ed assai nostri
cittadini sono gíà di troppo più splendida fama stati appo la nazioni strane, che appo
noi. E se io, quanto credo, ben compresi del vostro ingegno, non dubito punto che in
qualunque parte dimorerete, non siate in quel pregio che in Firenze eravate, o in
maggiore. E se pure vogliamo il vostro accidente non permutazione, ma esilio chiamare, vi
dovete ricordare non essere nè primo nè solo e l'avere nelle miserie compagni suole
essere grande alleggiamento di quelle; e 'l vedere o 'l ricordarsi delle maggiori
avversità in altrui, suole o dimenticanza o alleggiamento recare alle sue. E però,
acciocchè solo non crediate nello esilio essere dalla fortuna ingiuriato, ed abbiate in
cui ficcare gli occhi quando la noja dello esilio vi pugne, estimo non senza frutto
ricordarvene alquanti molto maggiori stati ne' loro reami che voi nella vostra città, ai
quali, se alle loro miserie guardate, non cambiereste la vostre.
Cadmo, re di Tebe, di quella medesima
città ch'egli aveva edificata cacciato vecchio, morì sbandito appo gl'Illirii; Sarca, re
de' Molossi, cacciato da Filippo re di Macedonia, in esilio finì la misera sua
vecchiezza; Dionisio tiranno, di Siracusa cacciato, in Corinto divenne maestro d'insegnare
leggere a fanciulli; Siface, grandissimo re di Numidia, dalla sua più somma altezza vide
il suo grande esercito sconfitto, tagliato e discacciato, e da' nimici il suo regno
occupato e le città prese; e Sofonisba sua moglie, da lui sopra ogni altra cosa amata,
nelle braccia vide di Massinissa suo capitale nimico; e oltre a ciò sè prigione de'
Romani e carico di catene, non solamente onorare della sua miseria il trionfo di Scipione,
ma rallegrare generalmente tutt'i Romani; e ultimamente in picciola prigione rinchiuso,
sotto lo 'mperio del crudele prigioniero menare il rimanente della sua vita; Perseo, re di
Macedonia, primieramente sconfitto e poi privato del regno e dalla fuga insieme co' suoi
figliuoli ritratto e dato nelle mani di Paolo Emilio, similmente le catene trionfali e la
strettezza della priggione e la rigidezza del prigioniero, infino alla morte ontosa
provò; Vitellio Cesare sentì la ribellione de' suoi eserciti, e in sè vide rivolto il
romano popolo, nè gli valse l'essersi inebbriato per fuggire senza sentimento le 'ngiurie
della commossa moltitudine, ch'egli non conoscesse sè prendere e spogliare, e ficcarsi
sotto il mento uno uncino, e ignudo vituperosamente per lo loto convolgersi e tirarsi alle
scale gemoniane, dove, morendo a stento, fu lungamente obbrobrioso spettacolo di coloro
che de' suoi mali prendevano piacere. Io potrei, oltre a questi, mettere innanzi le catene
d'oro di Dario, la prigione di Olimpiade, la fuga di Nerone, lo stento di Marco Attilio e
molti altri, la quantità de' quali sarebbe tanta e tale che a scriverla niuna forte mano
basterebbe; ma senza dirne di più, solamente ragguardando a' contati, non dubito punto,
che alle loro maestà, alle loro corone e regni le loro miserie aggiugnendo, voi non
accambiereste a quelle che per lo vostro esilio ricevute avete. Perchè, accorgendovi che
la fortuna non v'abbia fatto il peggio che ella puote, e che molti dei maggiori uomini che
voi non foste mai, stanno troppo peggio che voi non istate, parmi che voi abbiate a
ringraziare Iddio, e con pazienza quello sostenere che gli è piaciuto di darvi.
Senzachè, se niuno luogo a spirito punto
schifo fu nojoso a vedere o ad abitarvi, la nostra città mi pare uno di quelli, se a
coloro ragguarderemo ed a' loro costumi, nelle mani dei quali (per la sciocchezza o
malvagità di coloro che avuto l'hanno a fare) le redini del governo della nostra
repubblica date sono. Io non biasimerò l'essere a ciò venuti chi da Capalle, e quale da
Cilicciavole, e quale da Sugame o da Viminiccio, tolti dalla cazzuola o dallo aratro, e
sublimati al nostro magistrato maggiore, perciocchè Serano, dal seminare menato al
Consolato di Roma, ottimamente colle mani use a rompere le dure zolle della terra sostenne
la verga eburnea: Lucio Quinzio Cincinnato esercitò il magnifico ufficio della dittatura;
e Cajo Mario, col padre cresciuto dietro agli eserciti facendo i piuoli a' quali si legano
le tende, soggiogata l'Africa, catenato ne menò a Roma Giugurta. Ed acciocchè io più di
questi non conti (perciocchè non me ne maraviglio, pensando che non simili alle fortune
piovano da Dio gli animi de' mortali), nè eziandio a quali noi vogliamo più originali
cittadini divegnendo, quelli o per avere d'insaziabile avaritia gli animi occupati, o di
superbia intollerabile enfiati, o d'ira non convenevole accesi o d'invidia, non l'aver
pubblico ma il proprio procurando, hanno in miseria tirata, e tirano in servitudine la
città, la quale ora diciamo nostra, e della quale, se modo non si muta, ancora ci dorrà
esser chiamati. E oltre a ciò vi veggiamo, acciocch'io taccia per meno vergogna di noi li
ghiottoni, i tavernieri, i puttanieri e gli altri di simile lordura disonesti uomini
assai, i quali, quale con gravissima continenza, quale con non dire mai parola, e chi con
l'andar grattando, i piedi alle dipinture, e molti collo anfanare e mostrarsi tenerissimi
padri e protettori del comun bene (i quali tutti, ricercando, non si troverebbe che
sappiano annoverare quante dita abbiano nelle mani, comeché del rubare quando fatto lor
venga, e del barattare sieno maestri sovrani), essendo buoni uomini riputati
dagl'ignoranti, al timone di sì gran legno in tanta tempesta faticante sono posti.
Le parole, le opere, i modi e le
spiacevolezze di questi cotali quante e quali elle sieno e come stomachevoli, e udite e
vedute e provate le avete; e però lascerò di narrarle, dolendomi se, tante violenze,
tante ingiurie, tante disonestà, tanto fastidio veduto, vi dolete di essere stato
cacciato. Certo, se voi avete quell'animo che già è gran pezza avete voluto che io
creda, voi vi doverreste vergognare e dolere di non esservi di quella già è gran tempo
spontaneamente fuggito. Oh, felice la cechita di Democrito, il quale, non volendo gli
studj ateniesi lasciare, piuttosto elesse in quelli vivere senza occhi, che vedere insieme
i sacri ammaestramenti della filosofia e gli stomachevoli costumi de' suoi cittadini; li
quali per non vedere e 'l primo Africano e 'l Nasica Scipione, l'uno a Linterno e l'altro
a Pergamo in Asia, preso volontario esilio, sè medesimi relegarono! E se 'l mio picciolo
e depresso nome meritasse di essere tra gli eccellenti uomini detti di sopra, e tra molti
altri che feciono il simigliante, nomato, io direi per quello medesimo avere Fiorenza
lasciata e dimorare a Certaldo; aggiugnendovi, che, dove la mia povertà il patisse, tanto
lontano me n'anderei, che, come la loro iniquità, non veggio, così udirla non potessi
giammai. Ma tempo è omai da procedere alquanto più oltre.
Diranno alcuni che, perchè in ogni luogo
della terra si levi il sole, non in ogni parte i cari amici, i parenti, i vicini, co'
quali rallegrarsi nelle prosperità e nelle avversità condolersi gli uomini sogliono,
trovarsi. Dico che degli amici è difficil cosa, e degli altri è fanciullesca cosa il
curarsi: ma perciocchè molto sono più rade le amistà che molti non credono, non è da
avere discaro avere almeno in tutta la vita dell'uomo uno accidente per lo quale li veri
da' fittizj si conoscano. Se quel furore che in Oreste venne non fosse venuto, nè egli
nè altri per solo suo amico Pilade avria conosciuto; e se la guerra de' Lapiti non fosse
surta a Peritoo, sempre avrebbe estimato di avere molti amici, dove in quella solo Teseo
si trovò senza più: Eurialo, caduto nella insidie de' cavalieri di Turno, innanzi alla
sua morte si accorse quello essergli Niso che nelle prosperità dimostrava. Adunque, come
il paragone l'oro, così l'avversità dimostra chi è amico. Havvi adunque la fortuna in
parte posto che discernere potete quello che ancora non poteste giammai vedere, chi è
amico di voi e chi era del vostro stato; il perchè vi dee essere molto più caro che
discaro l'essere da loro separato, considerando che, se alcuno trovate al presente che
vostro amico sia, sapete nel cui seno i vostri consigli e la vostra anima fidare possiate;
e dove non ne trovaste, potrete discernere in quanto pericolo per lo passato vivuto siate,
in coloro voi medesimo rimettendo che quello che non erano, dimostravano.
E se forse diceste: Io ne trovai alcuno,
e da quello mi duole essere diviso, dico, questa non essere giusta cagione di dolersi,
perciocchè il frutto e 'l bene della verace amistade non dimora nella corporale
congiunzione; anzi nell'anima, nella quale l'arbitrio fu di prendere o di lasciare
l'amistà. E quantunque il corpo sia dall'amico lontano o sostenuto o imprigionato, a
costei è sempre lecito di stare e di andare dove le piace. Questa dinanzi da sè di
qualunque parte del mondo può convenire chi le aggrada. Chi adunque s'interporrà che voi
coll'anima non possiate a' vostri amici andare e stare con loro e ragionare e rallegrarvi
e dolervi, o fargli dinanzi da voi menare alla vostra mente, e quivi dire ed udire,
dimandare e rispondere, consigliare prendere consiglio? Le quali cose senza dubbio vi
fiano tanto più graziose in questa forma che se presenti col corpo fossero, e tanto essi
udiranno quanto a voi piacerà di parlare senza interrompere le parole giammai: essi
quelle ragioni che voi approverete approveranno, e quello risponderanno che voi vorrete:
niuno cruccio, niuna oziosa parola potrà essere tra voi e loro: tutti presti, tutti
pronti a ogni vostro piacere verranno, nè più staranno che a voi aggradi. Oh, dolce e
dilettevole compagnia, e molto più che la corporea da volere! E massimamente pensando,
che, come voi con loro, così essi con voi continuamente dimorranno, e dolendosi de'
vostri casi, con ragioni più utili che forse le mie non sono vi conforteranno; ed oltre a
ciò quello assenti adoperranno che per avventura voi presente non potreste adoperare.
Senzachè, se pure alquanto più evidentemente questa presenza addimandate, la natura con
onesta arte ci ha dato modo di visitarci, cioè con lettere: le quali in poco inchiostro
dimostrano la profondità dei nostri animi, e la qualità delle cose emergenti ed
opportune ne fanno chiara. Perchè, se coi vostri piedi là dove i vostri amici sono
andare non potete, fate che le dita vi portino, ed in luogo della lingua menate la penna,
ed essi a voi il simigliante faranno; e tanto più grate a' vostri occhi saranno le loro
lettere che non sarebbono le parole agli orecchi, quanto le parole una sola volta
udireste, e le lettere molte potrete rileggere, e così non diviso dagli amici, ma sempre
sarete accompagnato.
Sarà, non dubito punto, chi dirà: Forse
è possibile a soffrire le gravezze sopraddette, ma l'avere i boni paterni e gli
acquistati perduti, de' quali e a mantenere il cavalleresco onore e ad allevare la
surgente famiglia si convenìa, e 'l vedersi già vicino alla vecchiezza, corpulento e
grave, intorniato da moltitudine di figliuoli e di moglie, sono cose da non potere con
pazienza portare. Oh, quanto stolta cosa è l'opinione di molti mortali, la quale,
postergata la ragione, solo al desiderio del concupiscibile appetito va dietro! Utili cose
sono le bene adoperate ricchezze, ma molto più la onesta povertà è portabile,
perciocchè ad essa ogni picciola cosa è molto; e alla mal disposta ricchezza niuna,
quantunque grande cosa sia, è assai. La povertà è libera ed espedita, ed eziandio senza
paura nelle solitudini le è lecito di abitare; la ricchezza piena di ben mille
sollecitudini e da altrettanto catene occupata, nelle fortissime rôcche teme le insidie:
e dove quella con poche cose soddisfà alla natura, questa colla moltitudine la corrompe.
La povertà è esercitatrice delle virtù sensitive e destatrice de' nostri ingegni,
laddove la ricchezza e quelle e questi addormenta, ed in tenebre riduce la ricchezza dello
intelletto. Chi dubita che la natura, ottima provveditrice di tutte le cose; non avesse
con assai picciola sua fatica provveduto a fare con gli uomini nascere le ricchezze, se a
loro conosciuto le avesse utili, com'ella tutti ignudi ci produce nel mondo, conoscendo la
povertà bastevole? L'ambizione degli animi non temperati trovò le ricchezze e recolle a
luce, avendole siccome superflue nelle profondissime interiora della terra la natura
nascose. Oh inestimabil male! Queste sono quelle per le quali i miseri mortali più che
loro non bisogna si affaticano! Per queste si azzuffano, per queste combattono, per questo
la loro fama in eterno vituperano, per queste de' nostri Priori nuovamente sono cominciati
a farsi vescovi; nè dubito che, se bene nel passato si fosse guardato, non n'avesse molti
più mitrati la nostra corte. Queste, oltre a tutto questo, sono quelle che, o perchè
perdute, o in parte diminuite sieno, è intollerabile la nostra sciagura tenuta, quasi
senz'esse nè servare l'onore mondano, nè allevare le famiglie si possano. Ingannato è
chi così crede. Ampliò la povertà la maestà di Scipione in Linterno, dove il limitare
della sua casa povera, come di un sagro tempio, da' ladroni, visitantilo, fu riverito e
adorato. E similmente la picciola quantità de' servi menati da Catone in Ispagna,
conoscendo il suo valore, il fece maggiore che lo imperio.
Io aggiugnerò a queste, cosa colla quale
io con agro morso trafiggerò l'abominevole avarizia de' Fiorentini, la quale in molti
secoli, tra sì grande moltitudine di popolo, ha tanto adoperato, che magnificamente di
onesta povertà più che di un solo cittadino non si possa parlare. La volontaria povertà
di Aldobrandino d'Ottobuono gl'impetrò e onore pubblico e imperiale sepoltura alla morte.
Adunque non i grandi palagi, non le ampie possessioni, non le porpore, non l'oro, non li
vaj fanno l'uomo onorare - ma l'animo di virtù splendido fa eziandio a' poveri
gl'imperadori reverenti. E chi sarà colui sì trascurato che di essere povero si
vergogni, ragguardando il romano imperio avere la povertà avuta per fondamento? recandosi
a memoria Quinzio Cincinnato avere lavorata la terra, Marco Curio dagli ambasciadori di
Pirro essere stato trovato sopra una rustica panchetta sedere al fuoco e mangiare in
iscodella di legno, e dette parole convenienti alla grandezza dell'animo suo aver indietro
mandati i tesori di Pirro? e Fabricio Licinio i doni de' Sanniti? E con questo guardando
quanti e quali cittadini questi fossero in Roma tenuti, e in quante e in quali cose essi
esaltassero il detto imperio, il quale tanto tempo continuamente s'è dilatato quanto,
siccome carissimo patrimonio, fu da' cittadini avuta ed osservata la povertà. E così
come le ricchezze colle loro morbidezze per le private case cominciarono ad entrare, a
diminuire cominciò: e come l'avarizia venne crescendo, così quello di male in peggio
venendo, nella ruina venne che al presente veggiamo; ch'è in nome alcuna cosa, ma in
esistenza niuna. Che adunque a sostentamento dello onore adoperano le ricchezze che la
povertà non faccia molto più innanzi? Quelle niente, questa molto. Le ricchezze
dipingono l'uomo e colli loro colori cuoprono e nascondono, non solamente i difetti del
corpo, ma ancora quelli dell'anima, ch'è molto peggio: la povertà nuda e discoperta
cacciata la ipocrisia, sè medesima manifesta, e fa che dagl'intendenti sia la virtù
onorata e non gli ornamenti. E perciò, se quello sête che già è buon tempo riputato vi
ho, molto maggiore onore vi fia per l'avvenire una grossa cottardita e povera, che li cari
drappi e vaj non hanno fatto per lo passato.
Conceduto questo, si dirà: L'onore non
nutricare la famiglia, non maritare le figliuole, non sostentare delle cose opportuno la
moglie. - Rigida risposta agli odierni, ma vera e utile cade a cotale opposizione. Ne'
primi secoli, quando ancora la innocenza abitava nel mondo, le ghiande cacciavano la fame,
li fiumi la sete degli uomini da' quali discesi noi siamo; le quali cose, comechè oggi
del tutto si schifino, non cessa che elle non possano chiarissima dimostrazione fare, che
di piccolissime e, di pochissime cose sia la natura contenta. Li romani eserciti sotto le
armi e per sole e per piova di dì e di notte combattendo o camminando o i loro campi
affossando, niuno altro guernimento per soddisfacimento della natura portavano, che un
poco di farina per uno con alquanto lardo, non dubitando di trovare dell'acqua in ogni
luogo. Quanto adunque più leggiermente si deono potere pascere coloro che nello città
disarmati e in quiete dimorano? Tolga Iddio che voi in sì fatta estremità venuto siate,
che quello che coloro facevano colla vostra famiglia si convenga di fare; ma, se già
quello ch'io dico si fece ed é possibile di fare, molto maggiormente è, secondo la
facultà rimasa, non secondo le mense di Sardanapalo, ma ad esempio di Senocrate la vostra
famiglia ordinare: e colui il quale le fiere nelle selve e gli uccelli nell'aria nutrica,
prestandovi della sua grazia, eziandio nelle solitudini di Egitto, non che tra gli amici e
parenti, vi parerà modo innanzi di nudricarla. Egli non venne mai meno ad alcuno che in
lui sperasse; e chi non crede alla speranza di lui più che del padre o di niuno altro,
per certo nè lui, nè sè, nè gli uomini del mondo conosce.
E voi dovete essere contento di avere
piuttosto stretta e scarsa fortuna in allevare i vostri figliuoli, che molto larga;
perciocchè, come le delizie ammolliscono co' corpi gli animi de' giovani, così li grossi
cibi, i duri letti e i vestimenti rusticani gli animi naturalmente gentili fanno ad ogni
fatica pazienti; raffrenano l'arroganza, e di piacere e di sapere con tutti vivere
accendono loro il disio. E se bene si guarderà tra la moltitudine de' nostri passati,
troppi più si troveranno coloro che dagli aspri e rozzi nutrimenti sono in gloriosa fama
venuti, che quelli che nelle morbidezze sono stati allevati; infra' quali per certo, se
gran forza di naturale disposizione non gli ha sospinti, mai altro che cattivi, pigri,
superbi e stizzosi non si troveranno essere stati. E chi ciò non crede, riguardi alli re
assiri, alli re egiziaci tra le delicatezze e gli odori arabici effeminati, e appetto loro
si ponga David, il quale nella pastura degli armenti la sua puerizia esercitò, e
Mitridate, il quale nella sua giovinezza non altrove che ne' boschi e tra le fiere abitò.
Quelli viziosamente vivendo ed in sè stessi rivolgendo le guerre, come allevati erano
così effeminatamente morirono; questi altri, l'uno vincendo le genti vicine si levò in
maravigliosa grandezza ed ampliò il suo regno, e l'altro di ventidue nazioni divenuto
signore, oltre a quarant'anni con gravissima guerra faticò i Romani. Di questi esempli è
pieno il mondo, e però più porne sarebbe soperchio. Vivete adunque e, concedendolo
Iddio, con meno grassa fortuna in maggior fortezza trarrete la vostra famiglia.
Ora non so io so voi siete nel numero di
coloro che si dolgano più nella vecchiezza alcuna traversia avvenirgli che se nella
giovinezza avvenisse; ma perché già intra il limitare di quella vi veggio entrato,
possibile è che quella, siccome male aggiugnente allo esilio, o, lo esilio a quella,
reputiate più grave; il che, se così fosse, povero consiglio sarebbe. Chi non sa che la
lunghezza e la certezza del tempo allunga e raccorcia la noja? Niuna tribulazione può
nella vecchiezza essere lunga, conciossiacosachè la vecchiezza medesima lunga non sia:
ella è pure estremo ed ultimo termine, ed a quella è vicina la morte, la quale ogni
mortale gravezza decide e porta via. Oltre a ciò, come il sangue a raffreddare si
comincia, così le concupiscenze tutte a mitigare si cominciano, e temperato l'ardore
delle alte cose, senza dubbio dispiacciono meno le minori, le quali suole lo esilio ad
altrui recare. Universale regola è agli consueti non fare passione gli accidenti; e niuno
vecchio è (salvo se Quinto Metello non eccettuassi) il quale per varie avversità non
abbia già molte volte pianto, molte dolutosi, molte la morte desiderata: nelle quali cose
essendo indurato e callo avendo fatto, con molto meno di fatica le cose traverse vegnenti
riceve e porta che i giovani non farieno, a' quali ogni picciola cosa, siccome nuova,
dispiace ed è gravosa. Adunque, poichè venir doveva questa turbazione, pietosamente ha
con voi la fortuna operato, essendosi nella vostra vecchiezza indugiata. E perciocchè, la
vecchiezza per gli consigli è reverenda, ne' quali ella vale più che alcun'altra età,
la corpulenza ad essa congiunta le aggiugne quella gravità che forse l'etade ancora non
arebbe recata. Voi non avete a correre: sedendovi e riposandovi vedete colla mente le cose
lontane, e con acuta intelligenza di quelle secondo l'ordine della ragione disponete. E
l'avere moltitudine di figliuoli in ogni stato è lieta e graziosa cosa; i quali Cornelia,
madre de' Gracchi, per sua somma ricchezza mostrò alla sua oste carovana. Chi dubita che,
risurgendo ancora in loro nella debita età lo spirito de' loro passati, essi, vivendo
voi, non vi sieno ancora di grandissima consolazione cagione; e, morendo, di futura
speranza? La natura ancora nelle mani de' figliuoli pose il coltello vendicatore delle
onte fatte a' padri e alla gloria degli avoli loro; il perchè in luogo di ricreazione e
non di peso in tanto affanno li dovete avere.
Ma che diremo dell'aver moglie, non
solamente vostro rammarichio, ma quasi universale di ciascheduno? Affermerò, comechè io
provato non l'abbia, che, dove buona e valorosa donna non sia, essere molto più grave
nelle felicità che nelle miserie a tollerare; perciocchè, siccome la malvagia pianta nel
terreno grasso subitamente in maravigliosa grandezza si leva, dove più umile nella più
magra dimora, così la mal disposta anima le superbe corna che fuor caccia nella
prosperità, dentro ritira nella miseria. Ma, so ad essere buona e pudica e valorosa si
ritruova, niuna consolazione credo che essere possa maggiore allo 'nfelice. Ma, che l'uno
e l'altro con alcuno esempio apparisca mi piace. L'abbondanza de' beni temporali trasse
Elena figliuola di Tindaro in tanta lascivia che, con Paris fuggendosi, messe Menelao suo
marito e i fratelli e i parenti e tutta Grecia ed Asia in importabile fatica e quasi in
eterna destruzione. Questa medesima abbondanza in tanta superbia elevò Cleopatra moglie
di Setor re di Egitto, che, cacciato il maggior figliuolo del regno, inimichevolmente con
armata mano perseguitollo; e l'altro che per la crudeltà di lei si era fuggito,
rivocatolo, parandogli insidie, il provocò ad uccidersi. E Cleopatra, che fu l'ultima
reina di Egitto, da questa medesima lusingata in tanta cupidità di più amplo regno
lasciatasi menare, dopo mille adulterj divenuta moglie di Marco Antonio e del romano
imperio invaghita, non requiò mai infinattantochè lui ebbe sospinto a muovere guerra ad
Ottaviano; per la quale non solamente non acquistarono quello che desideravano, ma perduto
quello che possedevano, a volontaria morte darsi, assediati e presi, divennero. Io
lascerò stare la rabbia di Jezabel, il furore di Tullia Servilia, la lussuria di
Messalina, e gl'importabíli costumi di mille altre nel grande stato; e così la
intemperata arroganza di Cassandra figliuola di Priamo, di Olimpia madre del grande
Alessandro, di Agrippina moglie di Claudio imperadore, e di molto altro, per venire a
quella parte che più vi può consolazione recare.
E siccome già dissi, niuna consolazione
credo che sia maggiore che la buona moglie allo 'nfelice, Ipsicratea con chiarissima fede
ne testimonia. Costei, sommamente Mitridate re di Ponto amando, e lui veggendo in continue
guerre, posta giù la femminil morbidezza e a' cavalli ed all'arme ausatasi, tondutasi i
capelli e sprezzata la sua bellezza, in abito di uomo sempre il seguitò, da niuno affanno
vinta, e massimamente quando egli, da Pompeo superato, fu costretto di fuggire tra barbare
e varie nazioni; nella quale avversità troppo più di consolazione porse ella al marito,
che non porsero di speranza la molte genti che a lui ancora erano suggette. E Sulpizia,
quantunque molto guardata fosse da Giulia sua madre, di nascoso avendo seguito Lentulo
Truscellione suo marito in Sicilia proscritto da' Triumviri, si dee credere con quello
amore e fede avergli pôrto non meno piacere che noja la proscrizione ricevuta. Io potrei
aggiugnere a questi esempli la forte e pietosa opera delle mogli Menie, li carboni di
Porzia, la sventurata morte di Giulia di Pompeo, con altri molti simiglianti: ma,
perciocchè lo credo, ove il bisogno il richiedesse, la vostra monna Giovanna essere
un'altra Ipsicratea, o quale altra delle predette volete, senza dirne mi pare di poter
passare al presente, volendo venire a quella parte la quale, al mio giudicio, per quello
che io abbia udito, più che niun'altra nel presente esilio vi cuoce.
Erami adunque per alcuno amico stato
detto, che ogni gravezza che la presenta avversità avesse potuto porgere, o porgesse, vi
sarebbe leggieri a comportare, dove i nostri cittadini (li quali in non avere voluto
alcuna vostra scusa, quantunque vera e legittima stata sia, ricevere, ingrati reputate)
non vi avessino, considerandolo, con titolo così abbominevole cacciato, come fatto hanno.
Certo io non negherò e l'una e l'altra delle dette cose essere sopra ad ogni altra
gravissima a comportare. La prima, perciocchè quantunque ciascuno buono cittadino non
solamente le sue cose, ma ancora il suo sangue e la vita per lo comune bene e per la
esaltazione della sua città disponga, ha ancora rispetto, che, dove in alcuna cosa gli
venisse fallito (perciocchè eziandio i più virtuosi spesse volte peccano), egli per lo
suo bene adoperare passato, debba trovare alcuna misericordia e remissione innanzi agli
altri; la quale non trovando, gli è molto più grave la pena che se meritato il beneficio
non avesse. E so alcuni cittadini nella nostra città sono che per sua opera, o de' suoi
passati, grazia meritassero, voi estimo che siate di quelli, perchè, non trovandola, come
veggio che trovata non l'avete, meno mi maraviglio se vi dolete. Ma dove si vegga solo ai
notabili uomini essere invidia portata, e per quella, avere la ingratitudine quanto di
male ha potuto, adoperato, estimo che qualunque colui si sia a cui questo inconveniente
avvenga, conoscendo quello che avanti credere non arebbe potuto, come sgannato e
certificato del vero, sè al numero de' valenti uomini aggiugnendo, siccome ogni altra
noja, così questa ancora, dalle fatiche de' passati ajutato, dea sostenere.
E però quante volte questa spina vi
trafiggesse, priego vi riduciate alla mente che Teseo (le cui opere furono maravigliose e
degne di perpetua laude) da quelli medesimi Ateniesi li quali egli, in qua e in là per la
Grecia dispersi, aveva nella loro città rivocati e con utilissime leggi in cittadinesca
vita ordinato, fu di Atene cacciato, e quanto in loro fa (se 'l generoso animo di lui
l'avesse patito) di morire in misera vecchiezza costretto; nè si trovò chi per
conoscenza de' ricevuti meriti le ossa di lui, che contro loro più non potevano alcuna
cosa, di Tiro, piccioletta isola, dove isbandito aveva i suoi giorni finiti, facesse
ritornare in Atene, Questi medesimi, Solone, il quale con santissime constituzioni gli
aveva ammaestrati, e le cui leggi ancora gran parte del mondo ragionevolmente governano,
costrinsono già vecchio di andare in Cipri sbandito e là morirsi. Questi medesimi,
Milziade, il quale loro dalle catene de' Persi, infinita moltitudine di quelli
maravigliosamente vincendo a Maratona, aveva tolti, nelle loro catene in oscura prigione
feciono morire; nè prima il suo corpo renderono a seppellire, che Cimone in quelle
medesime catene, che trarre si dovevano al morto corpo del padre, si facesse legare. I
Lacedemoni, a niun altro uomo essendo tanto tenuti, più volte Licurgo, giustissimo uomo,
colle pietre assalirono, e ultimamente di quella città, la quale egli aveva con
santissimo leggi regolata, il cacciarono. E i Romani soffersono che 'l liberatore
d'Italia, cioè il primo Africano, poveramente morisse in Linterno; e allo Asiatico, che
de' tesori di Antioco aveva riempiuto l'erario loro, patirono che fossero messe le catene,
e tanto in prigione tenuto che tutto il suo patrimonio venduto e pubblicato fosse. E 'l
secondo Africano, avendo Cartagine e Numanzia, superbissime cittadi il romano giogo
sprezzanti, abbattuto, trovò in Roma ucciditore e non vendicatore. Perchè m'affatico io
in raccontare di tanti? Tutte le scritture de' passati sono piene di questi mali. La
ingratitudine è antichissimo peccato de' popoli, ed è sì radicata in quelli che non,
siccome le altre cose, invecchia, ma ogni dì più verde germoglia, e dopo i fiori conduce
in grandissima copia i frutti suoi; e però, siccome altra volta ho detto, quello che a
molti si vede essere avvenuto ed avvenite, si dee con molto minor noja patire.
Appresso a questo affermo, la seconda
cosa avere più di veleno (e massimamente negli anni ne' quali alto sentimento genera più
disdegno); la qual cosa credo che da questo avvenga, cioè, perchè tutti naturalmente con
fama desideriamo prolungare il nome nostro e massimamente coloro i quali dirittamente
sentono della vita presente; e chi di acquistar fama, o guardare l'acquistata è
negligente, più tosto bruto animale e servidore del suo ventre si può chiamare, che
razionale; e così questa vita trapassano come se dal parto della madre fossero portati al
sepolcro. E perciocchè la fama è servatrice delle antiche virtù e predicatrice de'
vizj, senza restare sommamente si guardano i savj di non contaminarla o di fama
trasmutarla in infamia, e con ragione sommamente si turbano se è da altri in alcuna
maniera contaminata; e quinci già molti a gran pericolo si sono messi per volerla
purgare, se forse alcuna nebula in quella fosse da invidia o da falsa opinione stata
gittata. Perciocchè, se di ciò vi turbate e vi dolete, che d'alto animo siete, non me ne
maraviglio, nè riprendere ve ne saprei, ma tuttavia e a questa, come alle altre passioni,
ha la ragione delle cose modo e termine posto.
Fatto avete, secondochè intendo, di ciò
che opposto è alla vostra lealtà, e di che il nobile vulgo vi fa nocente, ogni scusa,
che a voi è possibile. Scritto avete, non una volta ma molte, e a private persone e a'
nostri magistrati, e con quella gravità che per voi s'è potuta la maggiore, ingegnato vi
siete di mostrare la vostra innocenza; ed oltre a ciò avete la vostra testa offerta, dove
del fallo appostovi dinanzi a giusto giudice, non ad impetuoso, siate convenuto; nè
dubito, se aveste avuto a fare con uomini ragionevoli, come si tengono i Fiorentini, non
fussino state le vostre scuse bastevoli ad ogni debita purgazione; perchè in questo credo
si possa sentire, i giudici essere ostinati e l'accusato innocente. Direte forse: Questo
non basta a me: le nazioni circonvicine in un medesimo errore coi cittadini sono, e la
generale opinione, quantunque falsa sia, in luogo di verità è avuta; e così avviene che
io senza colpa, oltre al danno, ho la vergogna: il che non so se io me lo consenta, ma
cotanto in questo di dire mi piace.
Niuno meglio di voi sa il vero di quello
che si dice, e se innocente, vi conoscete, assai basta alla vostra quiete; nè più fa a
voi quello che altri di voi si creda, che faccia ad altrui quello che voi meno che
giustamente ne crediate. In niuna parte per l'altrui credere si turba la quiete del savio.
Assai avete in questo, se con pura coscienza a chiunque ve l'appone potete negare ciò
essere il vero; e dovete molto più essere contento che in così fatta parte piuttosto
falsamente di voi si stimi, che se fosse ragionevolmento creduto. Perciocchè per
niun'altra cagione Socrate, dell'umana sapienza certissimo tempio, bevendo il veleno
riprese le lagrime di Santippa sua moglie, se non perchè essa in quelle si doleva, lui a
torto bere il mortale beveraggio, quasi volesse, se a ragione bevuto l'avesse, lei dovere
dolersene; e per contrario, bevendolo a torto, non doversi dolere. Il perchè, passato
questo primo impeto, da rivocare è la prima smarrita virtù, e nel suo luogo con più
utile consiglio rimenare la partita quiete, e colle opere per lo innanzi far sì che
ciascuno che meno che giustamente ha creduto o crede, sè medesimo facendo mentitore, se
ne penta.
E dove le ragioni predette non vi
paressero bastevoli, recatevi almeno a questo, che quello che molti migliori di voi già
soffersono non sia vergogna a voi di sofferire. Scipione Africano, del quale quanto più
si parla più resta in sua laude da parlare, e del quale non credo che più giusto
nascesse in fra i Gentili, nè più di onore e meno di pecunia cupido, acquistata la
gloria della recuperata Spagna, e Italia fatta libera, e soggiogata Africa, trovò in Roma
chi l'accusò di baratteria; nè furono così alti i meriti di tanta potenza che in quella
medesima non fosse chi ricevesse l'accusa, e chi lo chiamasse in giudicio, e ancora chi di
quella condannare il volesse. Giulio Cesare, le cui opere non solamente l'estremità della
terra, ma colla fama toccano il cielo, in quella medesima infamia incorso, nella quale voi
d'essere incorso ora vi gravate. E perciocchè già disse, se per alcuna cosa si dovesse
romper la pubblica fede, per lo regno era da rompere, ancora sono di quelli che 'l suo
splendore s'ingegnano di offuscare; ma comechè gl'invidiosi all'altrui gloria si dicano,
diremo noi o crederemo Scipione barattiere o Giulio disleale, veggendo quanto e all'uno e
all'altro, Iddio, vero conoscitore degli atti umani, di speziale grazia concedesse? Certo
no. E nella nostra età sappiamo noi quanti e quali nella nostra città e altrove, non
solamente col pensiero, ma con aperta dimostrazione e in rivolgimento degli stati comuni
abbiano adoperato; e nondimeno o che 'l continuo uso di così fatte opere, o l'universale
desiderio di ciascheduno di vedere mutamenti, o la forza di pochi anni roditori di ogni
-cosa che fatto se l'abbia, cittadini abbiamo poi veduti, e con aperta fronte, tra gli
altri non solamente procedere, ma tenere il principato. E se questo che gli uomini hanno
sofferto e sofferano, sofferire non volete, quello che Cristo, il quale fu Iddio e uomo,
sofferse, non vi doverrà in questa parte parere duro a sofferire. E manifestissima cosa
è, che lui, maestro veracissimo, alcuni chiamarono seduttore, ed altri, essendo egli
figliuolo di Dio, ministro del diavolo; e molti furono che lui dissero essere mago, la sua
deità negando del tutto. E se di costui, che era ed è luce che illumina ciascuno uomo
che nel mondo vive, tanti conviziatori si trovarono, non si dee alcuno uomo, quantunque
giustamente e santamente viva, maravigliare nè impazientemente portare, se truova chi la
sua fama e le sue opere con ignominioso soprannome s'ingegna di violare o di macchiare.
Séguitino, come già dissi, le opere vostre contrarie al cognome, e sforzinsi i
maldicenti quanto vogliono, egli non solamente non procederà, ma quello ch'è proceduto,
come se stato non fosse, in niente si risolverà di leggieri.
Ed acciocchè ad alcuna conclusione
vengano le mie parole gli argomenti e li conforti, dico, che persuadere vi dovete, voi
essere in casa vostra, poichè universale città di tutti è tutto il mondo: e quante
volte le cose opportune alla natura aver vi trovate, non povero, ma secondo natura ricco
vi stimiate; e la vecchiezza, come sperimentata negli affanni e piena d'utili consigli,
abbiate più che la strabocchevole giovanezza cara, e massimamente in questo case, senza
rammaricarvi della corpulenza, aggiugnitrice a quella di gravità veneranda. E così li
figliuoli apparecchiatevi per bastone, dove forze mancassero alla vecchiezza; e come
comune compagno di tutto le fatiche, la moglie, non superflua o nojosa, ma utile
giudichiate: contento che l'infortunio v'abbia parimente fatti conoscere i falsi amici dai
veri, e quanta sia la ingratitudine dei vostri cittadini, nella quale, non conoscendola, e
forse troppo sperando, potreste per l'avvenire essere caduto in più abbominevole pericolo
che questo; e senza curarvi di ciò che curandovi altro che vergogna non vi può
accrescere, cioè del titolo della vostra cacciata, avviso che leggiermente lo spegnerete.
Io potea per avventura assai onestamente
fare qui fine alle parole, ma l'affezione mi sospigne a dovere ancora con alcuno altro
puntello l'animo vostro agramente dicrollato armare al suo sostegno; e questo sarà la
Buona Speranza, le cui forze sono tante e tali, che non solamente nelle fatiche sostengono
i mortali, ma ad esse volontariamente sottentrare ne gli fanno, siccome noi manifestamente
veggiamo. Chi dopo molte fatiche farebbe a' poveri lavoratori gittare il grano nelle
terre, se questa non fosse? Chi farebbe a' mercatanti lasciare i cari amici, i figliuoli e
le proprie case, e sopra le navi, e per l'alte montagne e per le folte selve, non sicure
da' ladroni andare, se questa non fosse? Chi farebbe a' re votare i loro tesori, producere
ne' campi sotto l'arme i loro popoli, e mettere in forse la loro maestà, se questa non
fosse? Costei la uberifera ricolta, gli ampi guadagni e le gloriose vittorie promette, ed
ancora debitamente presa concede. Sperare adunque ne' grandissimi affanni si vuole, ma non
negli uomini ch'egli è maledetto quell'uomo che nell'uomo ha speranza: in Dio è da
sperare; la sua misericordia è infinita, e alle sue grazie non è numero, e la sua
potenza è incomparabile, nè si può la sua liberalità comprendere per intelletto: in
lui adunque l'animo e la speranza vostra fermate. Sue opere furono, e non senza ragione,
comechè noi le appogniamo alla fortuna, che Camillo, essendo in esilio appo gli Ardeati,
non solamente ribandito fosse, ma da quelli medesimi che cacciato lo aveano, fatto
dittatore, in Roma trionfando tornasse: e che Alcibiade, lungo trastullo della fortuna
stato, non fosse con tante esecrazioni da Atene cacciato, ch'egli in quella poi con troppe
più benedizioni e chiamato e ricevuto non fosse: anzi, non bastando al giudizio di coloro
che cacciato lo avevano il fargli pienamente nella sua tornata gli umani onori, insieme
con quelli gli feciono ancora i divini. Esso larghissimo donatore, similmente permise che
Massinissa, cacciato e a quel punto condotto che rinchiuso nelle segrete spilonche de'
monti, delle radici d'erbe procacciategli da due servi che rimasi gli erano di molti
eserciti, non essendo ardito di apparire in parte alcuna, sostentasse la vita sua; nè
molto poi con picciola mano di armati venuti a Scipione, e preso e vinto il suo nimico,
non solamente lo stato pristino ed il suo reame ricuperasse, ma gran parte di quello del
nimico suo aggiuntovi, tra gli altri grandissimi re del mondo, splendidissimo e in lieta
felicità lungamente, ed amicissimo de' Romani , dei quali nella sua giovinezza era stato
nimico, vivesse.
Io lascerò stare la Divina Benignità
negli antichi, contento di mostrare quella che egli usò in un nostro piccolo cittadino
ne' nostri tempi, il quale, se io delle mie lettere degno estimassi, io il nominerei, ma
è sì recente la cosa, che leggiermente senza nome il conoscerete. Ricordare adunque vi
potete, essere stato chi in non più lungo spazio di undici mesi, essendo con acerbissimo
bando della nostra città discacciato, e di men possente fatto poi grande (il che in
disgrazia, sì siamo ritrosi, ci reputiamo), ed oltre a ciò con quelle maledizioni che
possono in alcuno le nostre leggi gittare, essere aggravato; ed allora ch'egli più
lontano si credea essere a dover provare l'umanità de' suoi cittadini, di mercatante, non
uomo di arme solamente, ma duca divenuto di armati, con troppo maggior vista che opera,
meritò di ricevere la cittadinanza, e di nobile plebeo ritornare, ed eziandio al nostro
maggior magistrato salire. Che adunque diremo, se non che alcuno, quantunque oppresso sia,
mai della grazia di Dio non si dee disperare, ma bene operando sempre a buona speranza
appoggiarsi? Niuno è si discreto e perspicace che conoscere possa gli segreti consigli
della fortuna, de' quali quanto colui ch'è nel colmo della sua ruota puote, o dee temere,
tanto coloro che nello infimo sono, deono e possono meritamente sperare. Infinita è la
divina bontà, e la nostra città, più che altra, è piena di mutamenti in tanto che per
esperienza tutto il dì veggiamo verificarsi il verso del nostro Poeta:
. . . . . . . . . che a mezzo novembre Non giugne quel che tu d'ottobre fili. |
E però reggete con virile forza
l'animo dalla fortuna contraria sospinto ed abbattuto, e cacciate via il dolore e le
lagrime, le quali più tosto tolgono agli afflitti consiglio ch'elle non danno ajuto; e
quella fortuna che Iddio vi apparecchia, sperando migliore, pazientemente sofferite; nè
crediate che egli stringa più le mani della sua grazia a voi, che abbia fatto a quelli
che di sopra ho nominati, o a molti altri; nè voglio che voi diciate il nostro
cittadinesco proverbio: Che a confortatore non duole il capo. Bene so io che
dal confortare all'operare è gran differenza, e dove l'uno è molto agevole , l'altro è
malagevole sommamente; ma chi dà quello ch'egli ha non è tenuto a più. Se io vi potessi
in opera ajutare come in conforti, forse da rifiutare sarieno, se io nol facessi; e io non
mi posso nascondere a voi: voi sapete ciò che io posso; in quello adunque vi sovvengo che
conceduto mi è: e dovete ancora sapere che, se de' conforti non si dessero, molti per
cattività d'animo nella miseria verriano meno.
E perciocchè molte parole ho speso
intorno a quello che io credo che vi bisogni secondo il vostro presento stato; anzi ch'io
faccia fine, a mostrarvi quale sia il mio, alquanto ne intendo di scrivere. Io, secondo il
mio proponimento, del quale vi ragionai, sono tornato a Certaldo, e qui ho cominciato, con
troppa meno difficultà ch'io non estimava, di potere, a confortare la mia vita; e
comincianmi già i grossi panni a piacere e le contadine vivande; e il non vedere le
ambizioni e le spiacevolezze e i fastidj de' nostri cittadini mi è di tanta consolazione
nell'animo, che se io potessi fare senza udirne alcuna cosa, credo che 'l mio riposo
crescerebbe assai. In iscambio dei solleciti avvolgimenti e continui de' cittadini, veggio
campi, colli, arbori di verdi fronde e di varj fiori rivestiti, cose semplicemente dalla
natura prodotte, dove ne' cittadini sono tutti atti fittizj. Odo cantare gli usignuoli e
gli altri uccelli, non con minore diletto che fosse già la noja di udire tutto il dì
gl'inganni e le dislealtà de' cittadini nostri. Co' miei libricciuoli, quante volte
voglia me ne viene, senza alcuno impaccio posso liberamente ragionare; ed acciocchè io in
poche parole conchiuda la qualità della mente mia, vi dico, che lo mi crederei qui,
mortale come io sono, gustare e sentire della eterna felicità, se Dio m'avesse dato
fratello, o non me lo avesse dato.
Credettimi, quand'io presi la penna,
dovervi scrivere una convenevole lettera, ed egli mi è venuto scritto pressochè un
libro; ma tolga via Iddio che io di tanta lunghezza mi scusi, sperando che se altro
adoperare non potrà la mia scrittura, almeno questo farà, che quanto tempo in leggerla
metterete, tanto a' vostri sospiri ne torrò. A Luca e ad Andrea, i quali intendo che
costà sono, quella compassione porto che ad infortunio di amico si dee portare; e so io
avessi che offerire in mitigazione de' loro mali, faréilo volentieri: nondimeno, quando
vi paja, quelli conforti che a voi do, quelli medesimi, e massimamente in quelle parti in
che a loro appartengono, intendo che dati sieno. E senza più dire, priego Iddio che
consoli voi e loro.
© 2000 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento:12 luglio 2000