Giuseppe Bonghi
Biografia
di
Vittorio Alfieri
Vittorio Alfieri è
nato ad Asti nel Palazzo Alfieri (oggi sede del Centro Nazionale di studi alfieriani) il
16 gennaio 1749 dal Conte Antonio e da Monica Maillard de Tournon, famiglia originaria
della Savoia, tanto che il nostro ebbe a definirsi un "barbaro Allobrogo", in
quanto gli Allobrogi (letteralmente: abitanti in paese straniero) erano gli antichi
abitatori della Savoia, dove avevano come città principale Ginevra, ed erano stati
acerrimi nemici dei Romani dai quali furono assoggettati per mezzo di Quinto Fabio Massimo
nel 121 a.C. Autore di Tragedie e Rime, Satire ed Epigrammi, è non solo il primo vero
grande scrittore di Tragedie della Letteratura italiana, ma sicuramente uno dei più
grandi nostri autori tra Illuminismo e Preromanticismo e precursore del nostro
Risorgimento. Alfieri fu amato da tanti personaggi della cultura e da tanti patrioti per
il suo fortissimo amore per la patria e per la libertà, per la lotta per
lindipendenza e per la polemica antitirannica, che si traducono spesso in un
titanismo individuale ed eroico, dalle forme talvolta un po esasperate, che
compaiono per la prima volta nel panorama culturale italiano, e giustificabili perché
quella forza avrebbe potuto smuovere le coscienze assopite da troppi secoli, spingendo gli
uomini, alla lotta per la libertà della Patria dallo straniero e per l'Unità del
territorio.
Alfieri, la cui vita copre tutta la
seconda metà del Settecento, ebbe unesistenza agitata e inquieta, che raccontò lui
stesso in una autobiografia che fu, da Giannone a Vico, dai Mémoires di Goldoni
alle Memorie del Casanova, un costume del secolo XVIII, un modo per affermare la
propria personalità e per lasciare unorma indelebile di sé agli altri e al tempo.
La Vita scritta da esso rappresenta per i lettori un ideale ritratto della sua
opera, svelando con una narrazione sincera, anche se qua e là la memoria si inganna, come
è venuta maturando e il retroterra culturale nel quale è nata. Importantissimo è quindi
leggere la Vita, unopera sicuramente sincera, anche se certi elementi sono un
po romanzati e tendono a creare una figura eroica che comunque ha lottato,
innanzitutto per sé e quasi nulla per gli altri, che mai ha preso parte attiva alla lotta
politica e culturale del tempo, vivendo come un esule e uno "sradicato" per non
sottomettersi mai a nessun principe e a nessun re. Proprio questo vivere sradicato gli
impedisce a volte di capire la realtà nella quale si trova a vivere vicende anche
importanti, come la Rivoluzione francese, che larga e importante conseguenza hanno avuto
sui tempi a venire, fino ai giorni nostri.
Comincia a scrivere la sua autobiografia
a Parigi, il Sabato Santo 3 aprile 1790, terminando un primo getto il 27 maggio 1790, 54
giorni dopo. Decide quindi di soprassedere, e il manoscritto resta sigillato fino al marzo
1798: Alfieri si limita a ricopiare la prima stesura, ritoccandola (manoscritto 24) e solo
il 4 maggio 1803 ricomincia a scrivere (manoscritto 13), gettando sulla carta in dieci
giorni la Parte II della Vita, cioè i capitoli XX-XXXI dellEpoca Quarta. Egli
stesso divide la sua Vita scritta da esso, da intendere più come storia interiore
che come racconto degli avvenimenti che gli erano accaduti, in più "epoche",
accentuando gli aspetti negativi delle prime e presentando la sua vita come una vicenda
eroica, in cui lo vediamo lottare strenuamente, come un antico cavaliere, contro un
destino e una società ostili, e affermare vittoriosamente se stesso.
A quasi un anno dalla nascita rimane
orfano di padre. La madre aveva sposato in prime nozze il Marchese di Cacherano, dal quale
aveva avuto due figli: Angela Maria Eleonora e Vittorio Antonio che morirà giovanissimo
nel 1758; in seconde nozze appunto Antonio Alfieri, dal quale avrà i figli Giulia e
Vittorio, ed infine in terze nozze sposerà il cavaliere Giacinto Alfieri di Magliano, di
un ramo collaterale della famiglia Alfieri, dal quale avrà due figlie (Anna Maria
Giuseppina Barbara e Giuseppina Francesca) e tre figli (Pietro Lodovico Antonio, Giuseppe
Francesco Agostino e Francesco Maria Giovanni).
Vittorio Trascorre i primi anni della sua
vita accanto alla madre; ma abbastanza presto, quando convola a terze nozze, affida il
bambino, per ricevere i fondamenti della buona educazione e perché impari i primi
rudimenti della cultura, alle cure del "buon prete" ma "ignorantello"
don Ivaldi, che lo inizia allo studio del latino, con la lettura soprattutto di Cornelio
Nepote e Fedro. Raggiunta letà di nove anni, anche per interessamento dello zio
Pellegrino Alfieri, uno dei più alti dignitari della corte piemontese (sarà perfino
vicerè in Sardegna) nel luglio 1758 viene mandato alla Reale Accademia di Torino, dove
rimane fino al 1766. La partenza e il distacco dalla madre fu doloroso perché coincideva
con la morte del fratellastro Vittorio Antonio, che la madre aveva avuto dal primo marito.
Il viaggio da Asti a Torino viene raccontato da Alfieri nella sua Vita come un
evento memorabile: il volare del calesse, che il cocchiere faceva correre velocemente dopo
aver ricevuto una lauta mancia dal piccolo viaggiatore, e la visione del paesaggio gli
provocano un piacere senza eguali; per questo il primo viaggio resta anche lemblema
della vita alfieriana: in corsa capelli al vento e pensieri allaria, indomito e
indomabile ribelle, che rifugge tutte quelle regole che lo obbligano a un comportamento
servile e ubbidiente.
Il bambino viene ospitato dallo zio
Pellegrino; ma è troppo vivace, per cui si decide di anticiparne da ottobre al primo
agosto lentrata allAccademia; questo lo fa sentire abbandonato fra estranei,
in un luogo in cui, come scriverà nella Vita, "nessuna massima di morale e
nessun ammaestramento di vita" veniva mai dato, anche perché "gli educatori
stessi non conoscevano il mondo né per teoria né per pratica". I primi nove anni
sono denominati dallo stesso Alfieri la prima epoca della sua vita, definiti
come "nove anni di vegetazione", ricchi di fatterelli infantili, apparentemente
puerili e privi di conseguenze, ma pure significativi e rivelatori già di un carattere
dai contorni precisi e volitivi.
Gli anni trascorsi allAccademia militare di
Torino, dove si sarebbe sentito sempre "ingabbiato" e dalla quale uscirà
nellottobre del 1766 col grado di porta-insegna nel reggimento provinciale di Asti,
rappresentano la seconda epoca e sono definiti come "otto anni di
ineducazione", durante i quali segue studi "pedanteschi" e
"malfatti" che poi definirà "non studi", in particolare le letture
dellAriosto, del Metastasio, del Goldoni e dellEneide nella traduzione
di Annibal Caro, perché poco confacenti alla sua indole e alle sue aspirazioni, nelle
quali si sente "asino, fra asini, e sotto un asino". Impara anche che vivere con
gli altri significa a volte subirne la violenza o essere capaci di imporla per evitare
guai peggiori, e soprattutto, afferma nella Vita, "imparai sin da allora, che
la vicendevole paura era quella che governava il mondo".
Alfieri cresce tra
piccole e continue infermità e piuttosto debole di complessione, tanto che nel 1762 viene
afflitto da una strana malattia al cuoio capelluto, che lo costringe a tagliarsi a zero i
capelli e a mettersi una parrucca che per qualche settimana lo fa diventare lo zimbello
dell'Accademia, fin quando da sé si "sparrucca", palleggiando
"linfelice parrucca in aria", prevenendo in tal modo i lazzi dei
"petulantissimi" compagni: dopo qualche giorno lo scherno finalmente termina. È
un po la prova generale del suo carattere: quando si trova in difficoltà cerca di
anticipare i tempi e le mosse degli avversari, evitando talvolta anche tragiche
conseguenze, come la fuga da Parigi del 1792 che narreremo più avanti. Quella malattia fu
una lezione di vita, per lAlfieri: "Allora imparai, che bisognava sempre parere
di dare spontaneamente, quello che non si potea impedire d'esserti tolto."
È durante questo periodo, nel 1762, che,
per merito di una bugia dello zio, il grande Architetto Benedetto Alfieri, assiste al
teatro Carignano di Torino per la prima volta a una rappresentazione teatrale (si trattava
dellopera buffa Il Mercato di Malmantile, cantato dai migliori attori comici
del momento, come il Carratoli e il Baglioni e le loro figlie) che gli lascerà, per il
suo brio e per la sua varietà, "un solco di armonia negli orecchi e
nellimmaginativa" ed lo agiterà, come scrive nella Vita "a tal
segno che per più settimane io rimasi immerso in una malinconia straordinaria ma non
dispiacevole; dalla quale mi ridondava una totale svogliatezza e nausea per quei miei
soliti studi, ma nel tempo stesso un singolarissimo bollore d'idee fantastiche, dietro
alle quali avrei potuto far dei versi se avessi saputo farli, ed esprimere dei vivissimi
affetti, se non fossi stato ignoto a me stesso ed a chi dicea di educarmi."
Dopo quello da Asti a Torino,
nellagosto 1762 compie il suo secondo viaggio, questa volta da Torino a Cuneo, dove
va a trascorrere una quindicina di giorni presso lo zio Pellegrino Alfieri. È un viaggio
di piacere, anche se molto noioso, che comunque gli fa molto bene al fisico, che in quei
pochi giorni sembra rifiorire. Alla fine dellanno ottiene di poter disporre una
piccola mensilità: è il primo passo verso quel senso di libertà e di rifiuto di
assoggettamento a chiunque che caratterizzerà sempre la sua vita.. Nel 1763, il
compimento del quattordicesimo anno, che per la legge piemontese significava la
liberazione da ogni tutela legale, coincide con la morte dello zio di Cuneo, che in quel
periodo si trovava a Cagliari come vicerè in Sardegna. La vita comincia a scorrere
velocemente: per le sue condizioni di salute ottiene di poter andare "alla
Cavallerizza", dove impara a cavalcare e dove comincia a scatenarsi quella passione
per i cavalli che in lui sarà sempre viva; proprio il cavalcare, lesercizio
allaria aperta, lo fortificherà nel corpo e gli farà perdere quellaria da
"tisicuzzo" che aveva assunto negli anni dellAccademia. Nel contempo
diventa un po ribelle e restio a rispettare le regole dellAccademia; esce da
solo e senza il regolare permesso dallAccademia e viene punito, e ripetendo la
mancanza viene segregato in camera, dove vive come recluso, non solo perché non avendo
dato prova di ravvedimento, la punizione diventava esecutiva con la sanzione più grave,
ma anche perché aveva addirittura promesso che, alla prima occasione, sarebbe ancora
uscito da solo di sera contro le norme come coloro che abitavano "il Primo
Appartamento", cioè i più grandi.
Da questa specie di prigione lo libera il
matrimonio della sorella Giulia col Conte Giacinto di Cumiana, celebrato il primo maggio
1764; proprio lintervento del cognato lo fa inserire di diritto e definitivamente
fra coloro che abitano il "Primo Appartamento". Nello stesso tempo il curatore
legale allarga un po i cordoni della borsa e il giovane Alfieri si trova ad avere
fra le mani una maggiore disponibilità di denaro. Uneco profonda gli lascerà
nellanimo lacquisto del primo cavallo, che porterà con sé a Cumiana, e
lanno successivo (1765) laccendersi della prima fiamma amorosa, per la moglie
del fratello maggiore di due suoi compagni di divertimenti a Torino, presso i quali era
andato a trascorrere un mese di villeggiatura. Nel mese di Ottobre, insieme al suo
curatore, compie il primo viaggio fuori dal Piemonte, a Genova, dove resta una decina di
giorni; durante il viaggio passa per Asti, da cui mancava ormai da sette anni, e rivede
finalmente la madre. La passione per i cavalli, lamore e la frenetica smania per i
viaggi, provati per la prima volta in quellultimo anno, caratterizzeranno d'ora in
poi la sua vita, sempre spinto dall'ansia di vedere nuovi posti e mai contento di ciò che
ha visto.
Nel maggio 1766 viene promosso
porta-insegna nel reggimento provinciale di Asti, impegno che in tempo di pace era davvero
ben misera cosa, dovendosi i Reggimenti radunare in rassegna per due volte nellarco
dellanno. Nel mese di Settembre si presenta alla sua prima rassegna nel Reggimento
di Asti, dopo aver lasciato nel mese di Maggio lAccademia. Nello stesso tempo chiede
licenza al Re (come prescriveva la legge) di intraprendere un viaggio della durata di un
anno e per facilitare il rilascio del permesso dichiara che avrebbe viaggiato insieme a
due compagni, coi quali aveva vissuto un anno in Accademia, un olandese e un fiammingo,
guidati da un aio cattolico inglese, John Tuberville Nedham.
Il 4 Ottobre 1766, in compagnia del fido
servo Francesco Elia, abbastanza esperto perché aveva viaggiato per gran parte
dellEuropa al servizio di Pellegrino Alfieri, e dei compagni citati, parte da
Torino, visitando, o per meglio dire, sostando senza veder quasi nulla, e quel poco anche
superficialmente, Milano, Bologna, Firenze, Roma e Napoli, dove si libera dellaio
inglese, ancora Roma (dove viene introdotto a far visita al Papa Clemente XIII, e infine
Venezia, per terminare poi il viaggio a Genova, dove chiede ed ottiene di poter effettuare
un secondo viaggio, questa volta fuori dai confini dItalia.. Di tutte le città
visitate vede molto poco, anche se in ognuna resta talvolta parecchie settimane, sempre
sospinto dal desiderio di muoversi.
Cominciano dieci anni circa di
"viaggi e di dissolutezze", durante i quali, prima in compagnia di un aio, poi
solo, viaggia disperatamente per l'Italia e l'Europa, visitando Marsiglia e Parigi che lo
lascia piuttosto disgustato; va poi a Londra ed ha modo di visitare alcune città inglesi:
ne resta veramente affascinato: l'armonia delle cose diverse, tutte concordanti in
quell'isola al massimo ben essere di tutti, m'incantò sempre più fortemente; e fin
d'allora mi nascea il desiderio di potervi stare per sempre a dimora; non che gli
individui me ne piacessero gran fatto, (benché assai più dei francesi, perché più
buoni e alla buona), ma il locale del paese, i semplici costumi, le belle e modeste donne
e donzelle, e sopra tutto l'equitativo governo, e la vera libertà che n'è figlia; tutto
questo me ne faceva affatto scordare la spiacevolezza del clima, la malinconia che sempre
vi ti accerchia, e la rovinosa carezza del vivere.
Lasciata Londra si reca in Olanda, ameno
e ridente paese; allHaja incontra il primo vero amore della sua vita, Cristina
Emerentia Leiwe Van Aduard, moglie del barone Giovanni Guglielmo Imhof, sposa da un anno,
e il primo vero amico, Don Josè DAcunha, Ministro del Portogallo in Olanda: fu un
periodo veramente felice, destinato però ben presto a svanire: la felicità fu solo un
lampo momentaneo. Abbandonata Cristina, riprende il viaggio, torna in Piemonte, a Cumiana
nella villa della sorella Giulia, cominciando sei mesi di studi disordinati e filosofici
che durano fino allinizio del 1769, leggendo Voltaire e Rousseau e Montesquieu e fra
gli antichi Plutarco, colle sue Vite dei grandi uomini. Fallisce intanto un tentativo del
cognato di combinare un matrimonio fra Vittorio e una ragazza nobile e ricca, la quale
però, pur affascinata dal giovane dai capelli e dalla testa al vento, alla fine farà
cadere la sua scelta su un altro giovane, meno scapestrato e sicuramente più tranquillo e
affidabile.
Intanto a Genova ottiene il permesso per
il suo terzo viaggio, il secondo attraverso lEuropa. Nel mese di maggio del 1769
parte alla volta di Vienna, dove giunge dopo aver visitato, con ben altro spirito dal
precedente, Milano e Venezia. Il viaggio prosegue poi per Dresda, Berlino, dove viene
presentato "al gran re Federico", Amburgo, la Danimarca dove trascorre
linverno. In marzo riparte visitando la Svezia e la Finlandia per ridiscendere
passando dalla Russia (fermandosi a Pietroburgo e cancellando la visita a Mosca dal suo
itinerario: "Ma, oimè, che appena io posi il piede in quell'asiatico accampamento di
allineate trabacche, ricordatomi allora di Roma, di Genova, di Venezia, e di Firenze mi
posi a ridere. E da quant'altro poi ho visto in quel paese, ho sempre più ricevuto la
conferma di quella prima impressione; e ne ho riportato la preziosa notizia ch'egli non
meritava d'esser visto. E tanto mi vi andò a contragenio ogni cosa (fuorché le barbe e i
cavalli), che in quasi sei settimane ch'io stetti fra quei barbari mascherati da europei,
ch'io non vi volli conoscere chicchessia, neppure rivedervi due o tre giovani dei primi
del paese, con cui era stato in Accademia a Torino, e neppure mi volli far presentare a
quella famosa autocratrice Caterina Seconda;
Ora, trovandoli io in una servitù
così intera dopo cinque o sei anni di regno di codesta Clitennestra filosofessa; e
vedendo la maledetta genia soldatesca sedersi sul trono di Pietroborgo più forse ancora
che su quel di Berlino; questa fu senza dubbio la ragione che mi fe' pur tanto dispregiare
quei popoli, e sì furiosamente abborrirne gli scellerati reggitori." (Epoca III,
cap. IX). Ripartito da Pietroburgo, attraversa velocemente la Germania, per portarsi in
Olanda, dove ritrova lamico ministro portoghese De Acunha, col quale trascorre due
mesi sereni prima di essere ripreso dalla smania del viaggio.
Va in Inghilterra, ritrovando le
conoscenze che sera fatte nel precedente viaggio, come il Conte di Masserano
ambasciatore spagnolo e il marchese Caraccioli ministro di Napoli. Incontra il suo secondo
"fierissimo intoppo amoroso", a Londra nel 1771, per Penelope, figlia di Sir
George Pitt, moglie di Lord Eduard Ligonier, già conosciuta nel precedente soggiorno
londinese, ma allora la sua selvaggia indole lo avea riservato dai lacci amorosi.
Gli incontri sono abbastanza assidui, anche perché frequentano il Teatro dellOpera
Italiana nello stesso palco del principe Masserano. Alla fine della primavera del 1771
Penelope parte per la campagna, e Alfieri, correndo molti rischi la va a trovare entrando
da una porticina che la donna aveva lasciato aperta. Ma il marito di lei scopre la tresca
e sfida a duello lAlfieri, che resta leggermente ferito. Penelope fugge di casa e va
a Londra, dove la storia è diventata ormai di dominio pubblico, tanto da venire
pubblicata sui giornali locali, con piccanti particolari, come la precedente tresca della
donna col suo palafreniere. Gli incontri durano ancora per qualche settimana, finché la
relazione viene troncata e Alfieri riparte approdando in Olanda, da dove scende verso sud,
visitando di nuovo Parigi, per proseguire verso la Spagna prima a Barcellona, poi a Madrid
e infine in Portogallo a Lisbona, dove conosce uno degli amici che gli sarà caro fino
alla morte, labate Tommaso di Caluso, fratello minore del Conte Valperga di Masino
che in quel momento era Ministro Ambasciatore del Piemonte in Portogallo.
Dopo cinque settimane, allinizio del
1772 riparte raggiungendo Torino nel mese di maggio, dopo tre anni di assenza,
ammobiliando una bellissima casa in Piazza San Carlo e dandosi a spese pazze con amici e
conoscenti. È in questo periodo che scrive la sua prima operetta, che legge agli amici,
in lingua francese, Esquisse du jugement universel, "in cui Dio domandando
alle diverse anime un pieno conto di sé stesse, ci aveva rappresentate diverse persone
che dipingevano i loro propri caratteri; e questo ebbe molto incontro perché era fatto
con un qualche sale, e molta verità; talché le allusioni, e i ritratti vivissimi e lieti
e variati di molti sì uomini che donne della nostra città, venivano riconosciuti e
nominati immediatamente da tutto l'uditorio.
A Torino incappa anche nella sua
"terza rete amorosa": è il "tristo amore" per la Marchesa Gabriella
Falletti di Villafalletto sposata con Giovanni Antonio Turinetti Marchese di Priè,
conosciuta e amata, nel 1773: è la "dotta Frine", come viene definita nei Giornali,
e l"odiosamata signora", maggiore di lui di nove anni, conosciuta già sei
anni prima: la donna abitava proprio di fronte allappartamento del poeta. La
relazione dura dalla metà del 1773 fino alla fine di febbraio del 1775, con un breve
intervallo nel maggio del 1774, quando tenta di fare un viaggio a Roma con la speranza di
dimenticarla. Nel gennaio 1774 la donna si ammala e deve restare a letto per parecchio
tempo; Alfieri lassiste, restando a vegliarla dalla mattina alla sera; è in questo
frangente che, quasi per caso, si mette a scrivere; così ricorda nella sua Vita:
"cominciai così a caso e senza aver piano nessuno, a schiccherare una scena di una
non so come chiamarla, se tragedia, o commedia, se d'un sol atto, o di cinque, o di dieci;
ma insomma delle parole a guisa di dialogo, e a guisa di versi, tra un Photino, una donna,
ed una Cleopatra, che poi sopravveniva dopo un lunghetto parlare fra codesti due prima
nominati. Ed a quella donna, dovendole pur dare un nome, né altro sovvenendomene,
appiccicai quel di Lachesi, senza pur ricordarmi ch'ella delle tre Parche era l'una. E mi
pare, ora esaminandola, tanto più strana quella mia subitanea impresa, quanto da circa
sei e più anni io non avea mai più scritto una parola italiana, pochissimo e assai di
rado e con lunghissime interruzioni ne avea letto. Eppure così in un subito, né saprei
dire né come né perché, mi accinsi a stendere quelle scene in lingua italiana ed in
verso".
Per abbandonare la sua "fiamma"
decide di tagliarsi la lunga e ricca treccia dei suoi rossissimi capelli, perché si
sarebbe vergognato di mostrarsi in pubblico così "tosato": non sarebbe uscito
di casa se non dopo molto tempo e quindi non sarebbe andato più a trovare la sua amica,
dalla quale lo dividevano solo poche decine di metri. Era un'impresa veramente difficile,
e per ricevere un po' di sostegno manda la treccia tagliata allamico e coetaneo
Arduino Tana, chiedendogli di aiutarlo a sopportare quella straordinaria prova. Passa
così due frenetici mesi, durante i quali, aiutato dal Tana e dallaltro amico abate
Paciaudi, comincia a scrivere con più continuità e riscrive la sua prima tragedia, Cleopatra,
alla quale viene aggiunta una farsetta, I poeti: entrambe le opere vengono
rappresentate, anche con un buon successo, per la prima volta al Teatro Carignano di
Torino il 16 giugno 1775: Alfieri conta ormai 26 anni e comincia una nuova vita, tra dubbi
e ripensamenti e ritorni allantico: la strada nuova è comunque segnata.
Con questo primo atto
pubblico, entrato "nel duro impegno e col pubblico e con se stesso di farsi autore
tragico" come scrive nellautobiografia, Alfieri fa coincidere la sua nascita
come uomo, cominciando una vita di intenso studio, applicandosi alla lingua e alla
grammatica, cercando di "disfranciolarsi" e "spiemontesizzarsi"; in
una parola: di "italianizzarsi". Spinto dagli amici, si dedica agli studi con lo
stesso furore con cui si era dato per dieci anni a viaggiare per lEuropa. Studia i
nostri maggiori, Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso e riprende lo studio del latino,
leggendo, ad esempio, le tragedie di Seneca e prendendo a tradurre la Poetica e
tutte le odi di Orazio, anche per impadronirsi meglio della lingua parlabile.
Nellagosto 1775 si rifugia in un piccolo borgo del Piemonte occidentale, ai confini
con la Francia sulle prime pendici del Monginevro, ospite per un paio di mesi di
quellabate Aillaud che lo aveva accompagnato fino a Napoli nel primo viaggio
italiano. Qui tenta di trascrivere in italiano il tema di due tragedie, Polinice e
Filippo, che aveva ideato in Francese nel marzo di quellanno.
Nellaprile del 1776, per abituarsi a
"parlare, udire, pensare e sognare in toscano" parte con ben altro spirito verso
Firenze: adesso il viaggio non è più frenetico, ma va a passo lento, in compagnia dei
suoi "poetini tascabili", con poco bagaglio e solo tre cavalli; e dovunque si
ferma cerca di conoscere gli uomini più in vista della cultura (a Parma conosce ad
esempio il celebre stampatore Bodoni). A Pisa risiede per un paio di mesi, durante i quali
verseggia il Filippo e il Polinice e scrive in prosa toscana lAntigone,
mentre continua la traduzione della Poetica di Orazio. Intanto scrive
labbozzo delle due tragedie Agamennone e Oreste. Passa quindi a
Firenze, dove verseggia per la seconda volta il Filippo, e sente raccontare
laneddoto storico di Don Garzia ucciso dal proprio padre Cosimo I de Medici.
In ottobre torna a Torino dove rivede lamico abate Tommaso di Caluso.
Nel maggio 1777 compie il suo secondo
viaggio in Toscana sia allo scopo di migliorare la sue capacità di versificazione, sia
con lintento di chiarificare il metodo di scrittura delle tragedia, che nella vita
così sintetizza (Epoca quarta, capitolo quarto):
" E qui per l'intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo sì spesso, ideare, stendere, e verseggiare. Questi tre respiri con cui ho sempre dato l'essere alle mie tragedie, mi hanno per lo più procurato il beneficio del tempo, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideare dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginucce di prosaccia farne quasi l'estratto a scena per scena di quel che diranno e faranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia accennata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente il porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v'è nell'idearla e distenderla, non si ritrova certo mai più con le fatiche posteriori. Questo meccanismo io l'ho osservato in tutte le mie composizioni drammatiche cominciando dal Filippo, e mi son ben convinto ch'egli è per sé stesso più che i due terzi dell'opera. Ed in fatti, dopo un certo intervallo, quanto bastasse a non più ricordarmi affatto di quella prima distribuzione di scene, se io, ripreso in mano quel foglio, alla descrizione di ciascuna scena mi sentiva repentinamente affollarmisi al cuore e alla mente un tumulto di pensieri e di affetti che per così dire a viva forza mi spingessero a scrivere, io tosto riceveva quella prima sceneggiatura per buona, e cavata dai visceri del soggetto. Se non mi si ridestava quell'entusiasmo, pari e maggiore di quando l'avea ideata, io la cangiava od ardeva. Ricevuta per buona la prima idea, l'adombrarla era rapidissimo, e un atto il giorno ne scriveva, talvolta più, raramente meno; e quasi sempre nel sesto giorno la tragedia era, non dirò fatta, ma nata. In tal guisa, non ammettendo io altro giudice che il mio proprio sentire, tutte quelle che non ho potuto scriver così, di ridondanza e furore, non le ho poi finite; o, seppur finite, non le ho mai poi verseggiate."
A Siena conosce Francesco Gori
Gandellini, col quale stringerà una schietta e sincera amicizia, instaurando "un
reciproco sfogo delle umane debolezze" in modo che la presenza delluno potesse
servire da sprone al miglioramento dellaltro; proprio dal Gori prende limpulso
a un lavoro più continuo e metodico e allideazione della Congiura de Pazzi,
una vicenda storica che il Gori gli dice di cercare nelle Istorie Fiorentine del
Machiavelli. I cinque mesi trascorsi a Siena sono molto proficui, non solo continuando gli
studi dei classici latini (Giovenale e Orazio soprattutto), dai quali acquisisce un senso
elevato e nobile del sentire, ma anche lavorando a nuove tragedie: stende lAgamennone
e la Virginia, oltre ad ideare lOreste, opera che ha una gestazione
strana, essendo stata scritta sia da Seneca che dal suo contemporaneo Voltaire, e
soprattutto il trattatello Della Tirannide, steso tra il 29 luglio e il primo
settembre.
Nel mese di ottobre 1777 si trasferisce a
Firenze, indeciso se fermarsi o se tornare a Torino, chiudendo un periodo di duro
esercizio linguistico e letterario e un tirocinio che lo porta ad acquisire una discreta
sicurezza espressiva. Ma appena arrivato nella capitale del Granducato "nacque un
tale accidente" che lo "collocò e inchiodò per molti anni; accidente" che
lo porterà a conquistare definitivamente la sua nuova dimensione di poeta tragico e
quella "letteraria libertà" senza la quale mai avrebbe "fatto qualcosa di
buono" (le parole virgolettate sono dellAlfieri). Rivede una "gentilissima
e bella signora" conosciuta fin dallestate dellanno precedente, una
signora che sarebbe stato impossibile non notare, come dice lo stesso Alfieri, sia perché
di origini straniere, sia per la sua avvenenza: Luisa Stolberg contessa d'Albany.
Così lo stesso Alfieri parla del suo
amore per Luisa:
l'approssimazione di questa mia quarta ed ultima febbre del cuore si veniva felicemente per me manifestando con sintomi assai diversi dalle tre prime. In quelle io non m'era ritrovato allora agitato da una passione dell'intelletto la quale contrapesando e frammischiandosi a quella del cuore venisse a formare (per esprimermi col poeta) un misto incognito indistinto, che meno d'alquanto impetuoso e fervente, ne riusciva però più profondo, sentito, e durevole. Tale fu la fiamma che da quel punto in poi si andò a poco a poco ponendo in cima d'ogni mio affetto e pensiero, e che non si spegnerà oramai più in me se non colla vita. Avvistomi in capo a due mesi che la mia vera donna era quella, poiché invece di ritrovare in essa, come in tutte le volgari donne, un ostacolo alla gloria letteraria, un disturbo alle utili occupazioni, ed un rimpicciolimento direi di pensieri, io ci ritrovava e sprone e conforto ed esempio ad ogni bell'opera; io, conosciuto e apprezzato un sì raro tesoro, mi diedi allora perdutissimamente a lei. E non errai per certo, poiché più di dodici anni dopo, mentr'io sto scrivendo queste chiacchiere, entrato oramai nella sgradita stagione dei disinganni, vieppiù sempre di essa mi accendo quanto più vanno per legge di tempo scemando in lei quei non suoi pregi passeggieri della caduca bellezza. Ma in lei si innalza, addolcisce, e migliorasi di giorno in giorno il mio animo; ed ardirò dire e creder lo stesso di essa, la quale in me forse appoggia e corrobora il suo. (Epoca IV, cap. 5)
Luisa era figlia del
principe di Holbery e "canonichessa di Mons". Racconta un certo Dutens in Mémoires
dun voyegeur qui se repose, pubblicato a Londra nel 1806, che le corti di
Francia e Spagna, desiderando perpetuare la famiglia degli Stuart, si adoperarono in modo
che Luisa sposasse, e ciò avvenne nel 1771, Carlo Edoardo Stuart pretendente al trono
d'Inghilterra, di trentanni più vecchio di lei; ma da questo matrimonio non venne prole;
alla morte di suo padre lo Stuart si precipitò a Roma, ma non venne riconosciuto dal Papa
come erede al trono: per questo si ritirò a Firenze dove assunse il titolo di conte
dAlbany e visse con quello che gli passava la Spagna che gli doveva costituire la
dote avendo brigato a suo tempo per il matrimonio, mentre la Francia, che aveva contratto
gli stessi obblighi, cercò addirittura di diminuire la quota che già passava a suo
padre, e allora il conte rifiutò anche il resto, non senza un rabbioso rancore:
"curiosa combinazione, che la contessa d'Albany dovesse aver per marito ed amante due
odiatori dei Francesi e che da ultimo dovesse ad un Francese (al Fabre) pienamente
abbandonarsi."
La "signora", "che vivea
assai ritirata, e di continuo agitata dalle stravaganze del marito", dal quale
praticamente vive separata, anche se sotto lo stesso tetto, era dunque diventata "la
sua donna"; il marito spesso si ubriaca ed arriva perfino ad usarle violenza
picchiandola. Nei primi tempi lAlfieri entra nelle grazie dello Stuart, calmandone a
volte gli improvvisi accessi di gelosia che gli facevano assumere atteggiamenti indelicati
e poco dignitosi per un gentiluomo, che "a teatro, in chiesa, al passeggio, alle
veglie, la seguia da per tutto; e, quando restava in casa, solea chiudervela a
chiave".
La relazione con la Stolberg diede un
corso definitivo alla vita dellAlfieri, che nel '78 fece donazione di tutti i suoi
beni alla sorella Giulia, moglie del Conte di Cumiana in cambio di un vitalizio annuo,
sottoscrivendo un atto che gli diede la sensazione di aver riconquistato la libertà, nel
suo processo di "spiemontizzazione". Il nuovo amore lo conferma sempre più nel
suo nuovo modo di vita, nella ricerca della gloria come scrittore tragico e nel
rinnegamento di ogni e qualsiasi forma di servitù che lo riguardi personalmente, anche se
sul piano operativo mai nulla ha fatto: le sue parole restano un messaggio di libertà
dalla tirannide, ma la distruzione della tirannide politica avrebbe portato
inevitabilmente alla distruzione di una tirannide ben più radicata e complessa, quella
della miseria, alla quale era sottoposta la parte più vasta della popolazione che non
aveva nemmeno il diritto di chiamarsi con un nome preciso, ed era intesa come Terzo Stato
o, quel che è peggio, col nome negativo e dispregiativo di Plebe. Questa vera liberazione
avrebbe portato lentamente a una nuova organizzazione della società che deve ancora
essere completamente realizzata.
Lamore per Luisa Stolberg pone
lAlfieri in una situazione diversa rispetto al passato: avrebbe dovuto, come
feudatario e vassallo del re di Sardegna, continuare a chiedere di anno in anno la licenza
di abitare fuori dagli stati del regno sabaudo, e quindi avrebbe dovuto dipendere
pienamente dallarbitrio altrui, usando "sottigliezze, raggiri, e lungaggini,
simulando dei debiti, con vendite clandestine"; oltre a questo, e sempre come
feudatario, avrebbe dovuto chiedere di volta in volta il permesso di pubblicazione; la
legge piemontese imponeva, infatti, scrive Alfieri nella Vita, che:
"Sarà pur anche proibito a chicchessia di fare stampar libri o altri scritti fuori de' nostri Stati, senza licenza de' revisori, sotto pena di scudi sessanta, od altra maggiore, ed eziandio corporale, se così esigesse qualche circostanza per un pubblico esempio". Alla qual legge aggiungendo quest'altra: "I vassalli abitanti de' nostri Stati non potranno assentarsi dai medesimi senza nostra licenza in iscritto". E fra questi due ceppi si vien facilmente a conchiudere, che io non poteva essere ad un tempo vassallo ed autore. Io dunque prescelsi di essere autore. E, nemicissimo com'io era d'ogni sotterfugio ed indugio, presi per disvassallarmi la più corta e la più piana via, di fare una interissima donazione in vita d'ogni mio stabile sì infeudato che libero (e questo era più che i due terzi del tutto) al mio erede naturale, che era la mia sorella Giulia, maritata come dissi col conte di Cumiana. E così feci nella più solenne e irrevocabile maniera, riserbandomi una pensione annua di lire quattordici mila di Piemonte, cioè zecchini fiorentini mille quattrocento, che venivano ad essere poco più in circa della metà della mia totale entrata d'allora. E contentone io rimanevami di perdere l'altra metà, o di comprare con essa l'indipendenza della mia opinione, e la scelta del mio soggiorno, e la libertà dello scrivere.
La scelta di disvassallarsi,
con la concessione della sua eredità alla sorella Giulia, è coraggiosa ma è anche
emblematica di quel vivere coraggiosamente e senza lacci o catene che lo aveva
caratterizzato sin da bambino, con la ferma volontà di vivere del suo senza chiedere
nulla a nessuna e senza abbassarsi davanti a chicchessia.
Un po lamore, un po le
difficoltà legate al suo disvassallamento, lo tengono lontano dagli studi e da
nuove composizioni per quasi tutto il 1778, insieme a una malattia al petto dalla quale
guarisce molto lentamente, ma mai completamente come ebbe più volte a dichiarare. Nel
1778 struttura la Congiura de Pazzi e il Don Garzia, e nel contempo
stende lidea delloperetta in tre libri Del Principe e delle lettere, di
cui scrive i primi tre capitoli; quindi in agosto idea la Maria Stuarda e il mese
successivo verseggia lOreste. Nel 1779 compone le tragedie Rosmunda, Ottavia,
e Timoleone. Tutte queste opere sono portate a compimento nel 1780, insieme a un
nuovo verseggiamento del Filippo.
Il 30 Novembre 1780 avviene un fatto che
avrebbe dato una nuova svolta alla sua vita: Carlo Edoardo Stuart cerca di uccidere la
moglie in unennesima scena di violenza, accecato dallalcool e dalla gelosia;
con uno stratagemma la donna abbandona la casa maritale:
Da prima dunque essa entrò in un monastero in Firenze, condottavi dallo stesso marito come per visitar quel luogo, e dovutavela poi lasciare con somma di lui sorpresa, per ordine e disposizioni date da chi allora comandava in Firenze. Statavi alcuni giorni, venne poi dal di lei cognato, chiamata in Roma, dove egli abitava; e quivi pure si ritirò in altro monastero. E le ragioni di sì fatta rottura tra lei e il marito furono tante e sì manifeste, che la separazione fu universalmente approvata.
Luisa si rifugia nel Monastero delle Bianchette di via del Mandorlo a Firenze, con laiuto di "una dama sua amica, una Orlandini, che aveva molto ingegno e buon cuore" e sotto la protezione del Granduca. Successivamente, sotto la protezione del cognato stesso, il Cardinale Enrico Benedetto Stuart, viene accolta a Roma nel Monastero delle Orsoline, sembra con un assegno di sessantamila franchi annuali versati dalla Regina di Francia e venticinquemila dal Papa. La separazione del poeta dalla donna (per molti mesi non poterono vedersi per evitare le chiacchiere della gente) è molto dolorosa. "Come orbo derelitto" a Firenze resta solo; il primo febbraio 1781 parte per Napoli, passando prima da Siena per salutare il suo grande amico Gori Gandellini, e proseguendo quindi per Roma dove incontra la sua donna:
Giunsi; la vidi (oh Dio, mi si spacca ancora il cuore pensandovi), la vidi prigioniera dietro una grata, meno vessata però che non l'avea vista in Firenze, ma per altra cagione non la rividi meno infelice. Eramo in somma disgiunti; e chi potea sapere per quanto il saremmo? Ma pure, io mi appagava piangendo, ch'ella si potesse almeno a poco a poco ricuperare in salute; e pensando, ch'ella potrebbe pur respirare un'aria più libera, dormire tranquilli i suoi sonni, non sempre tremare di quella indivisibile ombra dispettosa dell'ebro marito, ed esistere in somma; tosto mi pareano e men crudeli e men lunghi gli orribili giorni di lontananza, a cui mi era pur forza di assoggettarmi.
Quindi parte per
Napoli, dove resta fino alla metà di maggio, per tornare ancora a Roma e pregare e far di
tutto per incontrare la sua donna. Riprende a scrivere e completa le opera già
cominciate. Del 1782 sono le due tragedie Merope e Saul: fino al mese di
settembre aveva quindi composto quattordici tragedie e decide di non scriverne più, ma di
dedicarsi alla limatura di queste.
Nel 1782 a Roma in un teatro privato
esistente nel palazzo del Duca Grimaldi Ambasciatore di Spagna, gli viene offerta
loccasione di una rappresentazione di una sua tragedia ad opera di una compagnia di
attori dilettanti; in quello stesso teatro spesso erano state rappresentate commedie e
tragedie, soprattutto tradotte dal francese, come il Conte di Essex di Corneille
alla quale aveva assistito lo stesso Alfieri, con la Duchessa di Zagarolo che
rappresentava la parte di Elisabetta. Alfieri sceglie lAntigone, reputandola una
delle meno calde, assumendo anche la recitazione della parte del personaggio Creonte,
dando al Duca di Ceri, fratello della Duchessa di Zagarolo, quella di Emone e alla moglie
di questi quella di Argia, mentre la stessa Duchessa si assume la parte del personaggio
principale: la recita riscuote un notevole successo. A Roma per due anni conduce "una
vita veramente beata" nella villa Strozzi, presso le terme di Diocleziano (in passato
abitata da importanti personaggi della cultura, come Bembo e Castiglione) e si
"restituisce tutto intero agli studi". Spinto dal successo, nel 1783 pubblica il
primo volume delle Tragedie con quattro opere (Filippo, Polinice, Antigone,
Virginia), e prova sulla propria pelle cosa si fossero le letterarie inimicizie
e i raggiri, gli asti librarii, le decisioni giornalistiche, e le chiacchiere gazzettarie,
e tutto in somma il tristo corredo che non mai si scompagna da chi va sotto i torchi.
Verso la metà del 1783 la situazione tra
i due amanti si complica; così ce la racconta lautore:
Nell'aprile di quell'anno 1783 infermò gravemente in Firenze il consorte della mia donna. Il di lui fratello partì a precipizio, per ritrovarlo vivo. Ma il male allentò con pari rapidità, ed egli lo ritrovò riavutosi, ed affatto fuor di pericolo. Nella convalescenza, trattenendosi il di lui fratello circa quindici giorni in Firenze, si trattò fra i preti venuti con esso di Roma, ed i preti che aveano assistito il malato in Firenze, che bisognava assolutamente per parte del marito persuadere e convincere il cognato, ch'egli non poteva né dovea più a lungo soffrire in Roma nella propria casa la condotta della di lui cognata. E qui, non io certamente farò l'apologia della vita usuale di Roma e d'Italia tutta, quale si suole vedere di presso che tutte le donne maritate. Dirò bensì, che la condotta di quella signora in Roma a riguardo mio era piuttosto molto al di qua, che non al di là degli usi i più tollerati in quella città. [ ] Quindi, appena ritornò in Roma il cognato, egli per l'organo de' suoi preti intimò alla signora: che era cosa oramai indispensabile, e convenuta tra lui e il fratello, che s'interrompesse quella mia assiduità presso lei; e ch'egli non la sopporterebbe ulteriormente. Quindi codesto personaggio, impetuoso sempre ed irriflessivo, quasi che s'intendesse con questi modi di trattare la cosa più decorosamente, ne fece fare uno scandaloso schiamazzio per la città tutta, parlandone egli stesso con molti, e inoltrandone le doglianze sino al papa. Corse allora grido, che il papa su questo riflesso mi avesse fatto o persuadere o ordinare di uscir di Roma; il che non fu vero; ma facilmente avrebbe potuto farlo, mercè la libertà italica. Io però, ricordatomi allora, come tanti anni prima essendo in Accademia, e portando, com'io narrai, la parrucca, sempre aveva antivenuto i nemici sparruccandomi da me stesso, prima ch'essi me la levasser di forza; antivenni allora l'affronto dell'esser forse fatto partire, col determinarmivi spontaneamente. A quest'effetto io fui dal ministro nostro di Sardegna, pregandolo di far partecipe il segretario di Stato, che io informato di tutto questo scandalo, troppo avendo a cuore il decoro, l'onore, e la pace di una tal donna, aveva immediatamente presa la determinazione di allontanarmene per del tempo, affine di far cessare le chiacchiere; e che verso il principio del prossimo maggio sarei partito. Piacque al ministro, e fu approvata dal segretario di Stato, dal papa e da tutti quelli che seppero il vero, questa mia spontanea, e dolorosa risoluzione. Onde mi preparai alla crudelissima dipartenza.
Quindi dal maggio 1783
inizia una sorta di pellegrinaggio poetico, visitando prima a Ravenna il sepolcro di
Dante, quindi ad Arquà sui colli Euganei la casa e la tomba di Petrarca, a Padova il
celebre Melchiorre Cesarotti e a Ferrara la tomba e i manoscritti di Ludovico Ariosto. Il
viaggio si conclude nel luglio 1783 a Milano dove incontra più volte Giuseppe Parini, che
definisce "il vero precursore della satira italiana". Infine ritorna a Firenze,
dove, in ottobre, fa la sua seconda prova di stampa, con la pubblicazione di sei tragedie
(Agamennone, Oreste, Rosmunda, Ottavia, Timoleone e Merope)
curata e corretta dallo stesso autore.
Per trovare un po di pace, e per
superare anche la grande depressione dovuta alla lontananza della donna amata, in ottobre
parte per lInghilterra, attraverso la Francia, fermandosi ad Avignone e Parigi; da
Londra ritorna in Italia nel maggio 1784 portando con sé ben quattordici cavalli
acquistati uno per ciascuna tragedia scritta. Al rientro in Italia rende visita al re
Sabaudo Vittorio Amedeo III e assiste a Torino alla prima serata della rappresentazione
della Virginia che ottiene lo stesso successo che aveva già ricevuto la Cleopatra,
la sua prima tragedia.
Riparte per la Toscana:
Partito di Torino, mi trattenni tre giorni in Asti presso l'ottima rispettabilissima mia madre. Ci separammo poi con gran lagrime, presagendo ambedue che verisimilmente non ci saremmo più riveduti. Io non dirò che mi sentissi per lei quanto affetto avrei potuto e dovuto; atteso che dall'età di nov'anni in poi non mi era mai più trovato con essa, se non se alla sfuggita per ore. Ma la mia stima, gratitudine, e venerazione per essa e per le di lei virtù è stata sempre somma, e lo sarà finch'io vivo. Il Cielo le accordi lunga vita, poich'ella sì bene la impiega in edificazione e vantaggio di tutta la sua città. Essa poi è oltre ogni dire sviscerata per me, più assai ch'io non abbia mai meritato. Perciò il di lei vero ed immenso dolore nell'atto della nostra dipartenza grandemente mi accorò, ed accora.
Sono parole sincere,
che mettono a nudo lo stato danimo del poeta nei confronti della madre e di una
situazione familiare che mai si era veramente costituita, favorendo un carattere indocile
e ribelle, ma anche timido e riservato, che non ama la ribalta dellattenzione altrui
anche se cerca la gloria.
Lasciata la madre e Asti, riprende il suo
viaggio verso la Toscana. Giunto in Piacenza riceve una lettera della sua donna che gli
annuncia di essere stata finalmente liberata dalla vita in monastero e di aver ottenuto, a
costo "di mille stenti, e con dei sacrifici pecuniari non piccioli verso il
marito" di lasciare Roma per andare a Baden, celebre stazione termale per curare una
salute che negli ultimi tempi era andata sempre più deperendo. Così, mentre lui
viaggiava verso Siena, lei viaggiava da Roma verso la Germania. Ma dopo circa due mesi,
allinizio di agosto, parte improvvisamente da Siena, lasciando lamico Gori
Gandellini, con lidea di andare a Venezia e si avvia verso Colmar, dove finalmente
il diciassette agosto rivede la donna amata, colla quale trascorre due mesi che fuggono in
un baleno prima di fare entrambi ritorno in Italia, per strade diverse, lei verso Roma (ma
si fermerà a Bologna) e lui verso Firenze. In questo periodo idea altre tre nuove
tragedie: Agide, Sofonisba e Mirra, pur colpito dal grave dolore per
la morte dellintimo amico Gori Gandellini. Tornato in Toscana il soggiorno a Siena
diventa "insoffribile", per cui si trasferisce a Pisa per trascorrervi
linverno, durante il quale compone il Panegirico a Traiano e continua la
prosa Del principe e delle lettere. Alla fine dellagosto 1785 lascia Pisa per
recarsi in Alsazia dalla sua donna, nella stessa villa dove lanno prima avevano
trascorso due mesi straordinariamente felici.
Ricomincia un periodo di tensione
culturale: finisce la Sofonisba e la Mirra, e il secondo e terzo libro Del
principe e delle lettere, La virtù sconosciuta e, allinizio
dellanno seguente, la "tramelogedia" Abele e i due Bruti.
Dopo quattordici mesi di soggiorno in Alsazia, nel 1786 si stabilisce con la sua donna a
Parigi, che proprio per questo gli appare per la prima volta addirittura piacevole, dopo
averla definita perfino una "cloaca". Proprio nella capitale francese nel maggio
1787 con leditore Didot comincia la stampa delle sue tragedie, il cui primo volume
esce nel mese di maggio, prima di partire in giugno per lAlsazia dove giunge dopo un
breve viaggio in Svizzera con la Stolberg e lamico abate di Caluso al quale era
andato incontro a Ginevra.
Allinizio del 1788 ritorna a Parigi,
mentre continua la pubblicazione delle sue opere, che alla fine dellanno arriverà
al sesto volume). Qui Alfieri e la sua donna sono raggiunti da una notizia che darà una
definitiva sistemazione alla loro relazione:
Venuto intanto il febbraio del 1788, la mia donna ricevé la nuova della morte del di lei marito seguita in Roma, dove egli da più di due anni si era ritirato, lasciando Firenze. E benché questa morte fosse preveduta già da un pezzo, attesi i replicati accidenti che da più mesi l'aveano percosso; e lasciasse la vedova interamente libera di sé, e non venisse a perdere nel marito un amico; con tutto ciò io fui con mia maraviglia testimonio oculare, ch'ella ne fu non poco compunta, e di dolore certamente non finto, né esagerato; che nessun'arte mai entrava in quella schiettissima ed impareggiabile indole. E certo quel suo marito, malgrado la molta disparità degli anni, avrebbe trovato in lei un'ottima compagna, ed un'amica se non un'amante donna, soltanto che non l'avesse esacerbata con le continue acerbe e rozze ed ebre maniere. Io doveva questa testimonianza alla pura verità.
Nel 1789 scoppia la rivoluzione, e l'Alfieri, cantore in tutte le sue opere della libertà, in un primo momento ne è entusiasta, tanto da comporre l'ode Parigi sbastigliato celebrando la caduta della Bastiglia; ma il procedere della rivoluzione, che proseguendo nel suo corso logico si avviava a forme più democratiche e popolari con un indirizzo chiaramente antinobiliare e anticlericale, ferì l'Alfieri, il quale, con la passionalità che gli era propria, verso la fine del mese daprile del 1791 compie, anche per desiderio di Luisa Stolberg, un viaggio in Inghilterra che dura quattro mesi, in attesa che tempi migliori potessero aprirsi per la Francia e Parigi in particolare. Al ritorno, mentre si dirige verso la nave per imbarcarsi, precedendo la sua donna, rivede la sua antica fiamma Penelope Pitt:
ecco, che nell'atto, che dal molo stava per entrare nella nave, alzati gli occhi alla spiaggia dove era un certo numero di persone, la prima che i miei occhi incontrano, e distinguono benissimo per la molta prossimità, si è quella signora; ancora bellissima, e quasi nulla mutata da quella ch'io l'avea lasciata vent'anni prima appunto nel 1771. Credei a prima di sognare, guardai meglio, e un sorriso ch'ella mi schiuse guardandomi, mi certificò della cosa. Non posso esprimere tutti i moti, e diversi affetti contrari che mi cagionò questa vista. Tuttavia non le dissi parola, entrai nella nave, né più ne uscii; e nella nave aspettai la mia donna, che un quarto d'ora dopo giuntavi, si salpò. Essa mi disse, che dei signori, che l'accompagnarono alla nave, gli avean indicata quella signora; e nominategliela, e aggiuntovi un compendiuccio della di lei vita passata e presente.
Le scrive una lettera,
"certamente piena d'affetti; non già d'amore, ma di una, vera e profonda
commozione di vederla ancora menare una vita errante e sì poco decorosa al suo stato e
nascita, e il dolore, ch'io ne sentiva tanto più, pensando di esserne io stato, ancorché
innocentemente, o la cagione o il pretesto. Che senza lo scandalo succeduto per causa mia,
forse avrebbe potuto occultare o tutto o gran parte le sue dissolutezze, e cogli anni poi
emendarsene.", alla quale mentre circa un mese dopo si trova a Bruxelles riceve
una risposta, nella quale la donna lo rassicura augurandogli ogni bene e felicità.
Torna quindi a Parigi, ma gli avvenimenti
precipitano; i nobili cominciano ad essere arrestati e spesso massacrati nelle carceri.
Ottenuti tutti i passaporti, decide di partire il 20 agosto; ma con la solita lungimiranza
che gli permetteva nei momenti difficili di superare le difficoltà, fugge il 18 agosto da
Parigi, divenuto ormai acerrimo nemico della rivoluzione come da molti anni lo era dei
Francesi: due giorni dopo si presentano infatti alla sua casa i gendarmi per arrestare
Luisa Stolberg e alla notizia della sua fuga confiscano tutto ciò che trovano, mobili,
libri, cavalli. Quella fuga verrà benedetta più volte, perché pur perdendo quasi tutto
quello che avevano, riuscirono a conservare la vita.
Usciti da Parigi si dirigono verso il
Belgio, raggiungendolo dopo tante difficoltà, venendo più volte fermati dai popolani;
poi attraverso la Germania e la Svizzera si riportano a Firenze. Frutto degli avvenimenti
di questi ultimi anni è soprattutto Il misogallo, una prosa
storico-satirica alla quale nei mesi aggiunge sonetti ed epigrammi.
Nello stesso 1992, il 23 aprile, moriva la
madre settantenne: tra i due si era consumato un affetto quasi solamente epistolare, senza
che nessuno dei due sentisse veramente il bisogno di vedersi più spesso per stare
insieme: è un affetto intessuto certamente di stima profonda da parte del poeta, ma anche
di frasi fatte e di calore apparente. Le rare visite, pochissime sia quando era suddito
del re sabaudo, sia dopo essersi spiemontesizzato e disvassallato, sono durate poco
anche nel tempo, e nella sua Vita lAlfieri le accenna appena. Sulla morte
della madre non usa che poche righe, mentre sulla morte del suo grande amico Gori
Gandellini di Siena si dilunga molto di più.
Tornato in Italia, si stabilisce
definitivamente a Firenze, e va ad abitare verso la fine del 93 "presso il
Ponte Santa Trinità una casa graziosissima benché piccola, posta al Lung'Arno di
mezzogiorno, casa dei Gianfigliazzi" dove resterà fino alla morte, a parte una breve
parentesi nel 1799, quando va ad abitare fuori Porta Sangallo vicino a Montuchi, a causa
dellentrata dei Francesi nel Granducato di Toscana e il 25 marzo addirittura in
Firenze. Lantifrancesismo, sempre vivo nellanimo del poeta, aveva raggiunto
altissime cime a partire dalla fuga da Parigi del 92, mantenuto vivo nel 96
con la famosa Campagna dItalia di Napoleone e raggiunto il culmine proprio nel
99: "Quell'anno '96 funesto all'Italia per la finalmente eseguita invasione dei
francesi che da tre anni tentavano, mi abbuiò sempre più l'intelletto, vedendomi rombar
sovra il capo la miseria e la servitù. Il Piemonte straziato, già già mi vedea andare
in fumo l'ultima mia sussistenza rimastami. Tuttavia preparato a tutto, e ben risoluto in
me stesso di non accattar mai né servire, tutto il di meno di queste due cose lo
sopportava con forte animo, e tanto più mi ostinava allo studio, come sola degna
diversione a sì sozzi e noiosi fastidi."
Negli ultimi anni della sua vita compone
le 17 Satire, la Vita, una parte delle Rime insieme alla limatura
delle altre e soprattutto si accinge allo studio della lingua greca per avere una
conoscenza diretta degli autori greci - Euripide, Sofocle, Eschilo, Aristofane, studio che
è allorigine della composizione delle ultime due tragedie, Alceste I (maggio
1798) e Alceste II (settembre- ottobre 1798) ispirate proprio dalla lettura e
traduzione dellopera di Euripide.
Nel 1800 lIstituto Nazionale, che
fino allavvento dei Francesi si era chiamato Accademia Reale delle Scienze, di cui
era segretario lamico di Alfieri, l'Abate di Caluso, nel frangente del cambiamento
della denominazione, mandò allAlfieri una lettera in cui lo si invitava a farne
parte, per mezzo di un segretario, che subito si dimise; lAlfieri, inorridito anche
dall'appellativo "cittadino" scritto sulla busta, non aprì nemmeno la busta e
la rimandò indietro, inviandola all'amico Abate Valperga di Caluso, perché la riportasse
a chi gliel'aveva mandata, riferendo allassemblea dellIstituto che mai lui
avrebbe accettato una tale nomina, perché innanzitutto non voleva essere di nessuno
e da qualche anno aveva ormai conquistata intera la sua libertà; in secondo luogo non
avrebbe voluto né potuto appartenere a una Assemblea dalla quale erano stati esclusi il
cardinale Gerdil, il Conte Balbo e il Cavalier Morozzo [Appendice VIII, IV epoca]
perché troppo fedeli al vecchio re piemontese, atto che aveva tutto l'aspetta della pura
oppressione.
Nel settembre dello stesso 1800 "per
impulso naturale fortissimo" crea la struttura di sei commedie, quattro politiche,
concepite come un tutto unico: Luno, I pochi, I troppi, Lantidoto, e
due psicologico-sociologico-morali: La finestrina e Il divorzio; la loro
stesura in prosa viene effettuata da luglio ad ottobre 1801 e la scrittura in versi tra
lagosto e il settembre 1802; la loro ultima copiatura, risalente ai mesi della
primavera estate del 1803, è stata interrotta dalla morte dellautore, tanto che gli
ultimi due testi citati sono rimasti in qualche modo incompiuti, soprattutto La
finestrina, che rimane verseggiata solo fino al terzo atto. "Così dunque in sei
commedie scrive lAlfieri - io ho creduto, o tentato di dare tre generi
diversi di commedie. Le quattro prime adattabili ad ogni tempo, luogo, e costume; la
quinta fantastica, poetica, ed anche di largo confine, la sesta nell'andamento moderno di
tutte le commedie che si vanno facendo."
Gli ultimi tre anni sono anche i più
solitari; la stanchezza di una vita quasi sempre avventurosa, che solo negli ultimi tempi
aveva trovato un po di quiete, cominciava a farsi sentire fin troppo, intristita
anche da lutti familiari, come la morte del marito della sorella Giulia e del figlio di
questi conte di Cumiana, di appena trentanni.
Muore, dopo pochi giorni di malattia, a
soli cinquantaquattro anni, l8 ottobre 1803. Viene sepolto con grande concorso di
folla e degli esponenti più importanti del mondo politico e letterario della città, in
Santa Croce, dove la sua donna, la Contessa Luisa Stolberg dAlbany fece costruire un
monumento, sul quale venne scolpita questa semplicissima epigrafe:
VICTORIO . ALFERIO . ASTENSI
ALOISIA . E . PRINCIPIBUS . STOLBERGIS
ALBANIAE . COMITISSA
M . P . C . AN . MDCCX
e intorno al ritratto che si trova al centro del monumento fece porre la scritta:
VICTORIUS . ALFERIUS . ASTENSIS.
Il corpo di Luisa Stolberg, deceduta il 29 gennaio 1824 in Firenze, riposa accanto al poeta e sulla sua lapide troviamo questa epigrafe:
HIC . SITA . EST
ALOISIA . E . PRINCIPIBUS . STOLBERGIS
ALBANIAE . COMITISSA
GENERE . FORMA . MORIBUS
INCOMPARABILI . ANIMI . CANDORE
PRAECLARISSIMA
HANNONIAE . MONTIBUS . NATA
VIXIT . ANNOS . LXXII . MENSES . IV . DIES . IX
OBIIT . FLORENTIAE . DIE . XXIX . MENSIS . JANUARII
ANNO . DOMINI . M . DCCC . XXIV
GRATI . ANIMI . ET . DEVOTAE . REVERENTIAE
MONUMENTUM
Ledizione
postuma delle opere edite ed inedite di Vittorio Alfieri comincia quasi subito, già nel
1804 coi tipi di Guglielmo Piatti ed a spese della contessa d'Albany. Il grande amico del
poeta e della contessa, l'abate Valperga di Caluso, venuto in quel tempo espressamente in
Firenze, scelse fra i manoscritti dell'Alfieri quelli che credeva meritevoli della stampa:
il Dottor Francesco Tassi e il signor Fabre accudirono alla correzione delle stampe. Il
signor Fabre, benché di nazionalità francese, strano destino di un poeta che odiava i
francesi, conosceva molto bene la nostra lingua, ed era anche versato non mediocremente
nella letteratura italiana.
I tratti originali della vita alfieriana,
coi suoi viaggi senza meta e le passioni senza dignità (a parte lultima) e il
disordine in una vita che non aveva un grande fine o un grande scopo, insieme a quelli
della sua opera, ci restituiscono piuttosto lidea di un grande poeta, ormai lontano
dalle sdolcinature della poesia arcadica e metastasiana, piuttosto che quella di un
tragediografo di grande inventiva scenica. La scena teatrale, infatti, è povera quanto
ricco è il personaggio, che riflette i capricci di unanima appassionata e in
qualche modo malata, unanima egoista che troppo spesso pensa solo a se stessa, e
troppo è legata agli avvenimenti della vita quotidiana, fra i quali spiccano gli amori,
listintivo disvassallarsi, la passione talvolta smodata per i cavalli e la
Rivoluzione Francese che lo getta quasi sul lastrico. Alfieri non è il genio superiore
che vede dallalto la vita e ne coglie le regole e i sentimenti, ma il genio poetico
che affonda le sue radici nella vita quotidiana, da cui non si distaccherà mai, sempre
guardando in alto, verso ideali e valori eterni, primo fra tutti la libertà dell'uomo..
Se mai qualche coraggioso, in questi
nostri tempi così diversi dai suoi, in cui le persone hanno un sentire così diverso dal
suo, vorrà affrontare lo studio di questo grande, senza subirne il fascino o senza
relegarlo fra i poeti difficili e illeggibili, occorre che cominci proprio dai forti e
orgogliosi sentimenti della vita, da quei valori che oggi sono un po in declino,
come la sincerità, lo spirito di libertà, il voler essere indipendente e mai servo della
volontà altrui, la passione per la cultura che può rendere veramente liberi gli uomini.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi
@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 24 novembre, 2000