Valperga di Caluso
Lettera
sulla morte di Vittorio Alfieri
Lettera dellabate di Caluso in cui si racconta della morte dell'autore.
Alla Preclarissima Signora Contessa d'Albany
Pregiatissima signora Contessa.
In corrispondenza al favore compartitomi di darmi a leggere le carte, dove l'incomparabile
nostro amico avea preso a scrivere la propria vita, debbo palesargliene il mio parere, e
il fo colla penna perché favellando potrei con molte più parole dir meno. Conoscendo
l'ingegno e l'animo di quell'uomo unico, io ben m'aspettava di trovare ch'egli avesse
vinta in qualche modo suo proprio la difficultà somma di parlar di sé lungamente senza
inezie stucchevoli, né menzogne; ma egli ha superata ogni mia espettazione coll'amabile
sua schiettezza e sublime semplicità. Felicissima n'è la naturalezza del quasi negletto
stile; e maravigliosamente rassomigliante e fedele riesce l'immagine, ch'egli ne lascia di
sé scolpita, colorita, parlante. Vi si scorge eccelso qual era, e singolare, ed estremo,
come per naturali disposizioni, così per opera posta in ogni cosa, che sembrata gli fosse
non indegna de' generosi affetti suoi. Che se perciò spesso egli andava al troppo, si
osserverà facilmente che da qualche lodevole sentimento ne procedevano sempre gli
eccessi, come dall'amicizia quello ch'io scorgo dov'ei mi commenda.
Però a tanti motivi, che abbiamo di dolerci che la morte ce l'abbia rapito sì tosto, si
aggiunge che sia questa sua Vita fra i molti scritti di lui rimasti bisognosi più o meno
della sua lima, che non sarebbele mancata s'egli giungeva al sessantesimo anno, in cui
s'era proposto di ripigliarla in mano e ridurla a pulimento, o bruciarla. Ma
bruciata non l'avrebb'egli; come non possiamo aver cuore di bruciarla ora noi, che abbiamo
in essa lui ritratto sì al vivo, e di tanti suoi fatti e particolarità sì certo ed
unico documento. Lodo pertanto, ch'Ella prosegua, Signora Contessa, a custodirne questi
fogli gelosamente, mostrandoli solo a qualche persona molto amica e discreta, che ne
ritragga le notizie opportune a tesser la storia di quel grand'uomo. La quale non ardisco
imprendere a scriver io, e me ne duole assai: ma non tutti possiamo ogni cosa, ed io debbo
ristringermi a notar qui comunque, ciò che sembrami convenire a compimento ed a scusa
della narrazione lasciata imperfetta dall'amico. Ne sono le ultime righe del 14 Maggio
1803. Trarrò il seguito da quanto Ella me ne ha scritto, Signora Contessa, la quale
avendo ad ogni cosa, che lui riguardava, tenuti ognora intenti non gli occhi solo e le
orecchie, ma la mente e il cuore, ne ha presentissima pur troppo la ricordanza.
Stava adunque a quel tempo il Conte Alfieri attendendo a recar a buon termine le sue
Commedie, e per sollievo e balocco talor pensando al disegno, ai motti, all'esecuzione
della collana, ch'ei volea farsi, di Cavalier d'Omero. Ma già la podagra, com'ella solea
nel mutar delle stagioni, eragli in Aprile sopravvenuta, e più molesta, perché il
trovava per l'assiduo studio quasi esausto di vegeto e salutar vigore, che la respingesse,
e fissasse in alcuna delle parti esterne. Onde a reprimerla, o infievolirla almeno,
considerando egli che già da alcun anno gli riusciva la digestione sul finire penosa e
grave, si fisse in capo che ottimo partito fosse lo scemarsi il cibo, ch'egli usava pur
modichissimo. Pensava che la podagra così non nutrita avesse a cedere; mentre lo stomaco
non mai ripieno gli lasciava libera e chiara la mente all'applicazione sua ostinatissima.
Invano la Signora Contessa amichevolmente ammonivalo, importunavalo, perché più
mangiasse, mentre egli a occhio veggente più e più immagrendo manifestava il bisogno di
maggior nutrimento. Egli saldo nel suo proposito tutta quella state in eccessiva astinenza
persisteva a lavorare con sommo impegno alle sue Commedie ogni giorno parecchie ore,
temendo che non gli venisse meno la vita prima di averle perfezionate, senza voler perciò
tralasciare alcun dì mai d'impiegarne su gli altrui libri non poche all'acquisto di
maggior dottrina. Così via via distruggendosi con tanto più risoluti sforzi quanto più
sentivasi venir manco, svogliato di ogni altra cosa che dello studio, omai sola dolcezza
della stanca e penosa vita, ei pervenne ai 3 di Ottobre, nel qual dì alzatosi in
apparenza di miglior salute e più lieto che da gran tempo non solea, uscì dopo il
quotidiano suo studio mattutino a fare una passeggiata in faeton [a giorno inoltrato,
comunque prima di mezzogiorno, ndr.]. Ma poco andò che il prese un freddo estremo, cui
volendo scuotere e riscaldarsi camminando a piedi, gli fu vietato da dolori di viscere.
Onde a casa tornossene colla febbre, che fu gagliarda alcune ore, ma declinò sulla sera;
e sebbene da principio da stimoli di vomito fosse molestato, passò la notte senza gran
patimento, e il dì seguente non solo vestissi, ma fuori del suo quarto discese alla
saletta solita per desinare. Né però quel dì poté mangiare; ma dorminne gran parte.
Quindi passò inquieta la notte. Pur venuto il mattino dei 5, fattasi la barba, voleva
uscir a prender aria; ma la pioggia glie l'impedì. La sera con piacere pigliò, come
soleva, la cioccolata. Ma la notte, che veniva su i 6, fierissimi dolori di viscere gli
sopraggiunsero, e come il dottore ordinò, gli furono posti a' piedi senapismi, i quali,
quando incominciavano ad operare, egli si strappò via, temendo che impiagandogli le gambe
gli togliessero per più giorni il poter camminare. Tuttavia pareva la sera seguente star
meglio, senza però porsi a letto; che nol credeva poter soffrire. Quindi la mattina dei 7
il medico suo ordinario ne volle chiamato un altro a consulta, il quale ordinò bagni e
vescicatori alle gambe. Ma questi l'infermo non volle per non venir impedito dal poter
camminare. Gli fu dato dell'oppio, che i dolori calmò, e gli fe' passare una notte assai
tranquilla. Ma non però si pose a letto, né la quiete, che gli dava l'oppio, era senza
qualche molestia d'immagini concitate in capo gravoso, cui nella veglia involontarie, come
in sogno, si presentavano le ricordanze delle passate cose le più vivamente impresse
nella fantasia. Onde in mente gli ricorrevano gli studi e lavori suoi di trent'anni, e
quello, di che più si maravigliava, un buon numero di versi greci del principio d'Esiodo,
ch'egli aveva letti una sola volta, gli venivano allora di filo ripetuti a memoria. Questo
ei diceva alla Signora Contessa, che gli sedeva a lato. Ma non pare che per tutto ciò gli
venisse in pensiero che la morte, la quale da lungo tempo egli era uso figurarsi vicina,
allora imminente gli soprastasse. Certo almeno che niun motto a Lei ne fece, benché Ella
nol lasciasse che al mattino, in cui alle sei ore egli prese, senza il parere dei medici,
olio e magnesia, la quale dovette anzi nuocergli, imbarazzandogli gl'intestini, poiché
verso le 8 fu scorto già già pericolare, e richiamata la Signora Contessa il trovò in
ambascia, che il soffocava. Nondimeno alzatosi di sulla sedia andò ancora ad appressarsi
al letto, e vi si appoggiò, e poco stante gli si oscurò il giorno, perdé la vista e
spirò. Non si erano trascurati i doveri e conforti della Religione. Ma non si credeva il
male così precipitoso, né alcuna fretta necessaria, onde il confessore chiamato non
giunse a tempo. Ma non perciò dobbiamo credere che non fosse il Conte apparecchiato a
quel passo, il cui pensiero avea sì frequente, che spessissimo ancora ne facea parola.
Così la mattina del sabato 8 di Ottobre 1803 cotant'uomo ci fu tolto, oltrepassata di non
molto la metà dell'anno cinquantesimo quinto dell'età sua.
Fu seppellito, dove tanti uomini celebri, in Santa Croce presso all'altare dello Spirito
Santo, sotto a una semplice lapida, intanto che la Signora Contessa D'Albany, gli fa
lavorare un condegno mausoleo da innalzarsi non lontano da quello di Michelangiolo. Già
il Signor Canòva vi ha posto mano, e l'opera di sì egregio scultore sarà certamente
egregia. Quali sieno stati i miei sentimenti sulla sua tomba l'ho espresso nei seguenti
sonetti
SONETTO I
Cuor, che al tuo strazio aneli, occhi bramosi
di vista, che già già vi stempra in pianto,
ecco il marmo cercato, e i non fastosi
caratteri, che son pur sommo vanto.
QUI POSTO È ALFIERI. Oimè!... Quant'uomo! e quanto
d'amor, di fede in lui godetti, e posi!
Qual ne sperai da lui funebre canto,
quando tosto avverrà che spento io posi!
Io vecchio, stanco, e senza voce omai
in Pindo, ove mal noto in basso scanno
spirarvi a gloria pochi giorni osai.
E inutil sopravvivo a tanto affanno.
Oh crudel Morte, che lasciato m'hai
per ferir prima, ove sol tutto è il danno
SONETTO Il
Umile al piano suolo or l'ossa asconde
lapide scarsa che ha il gran nome scritto
ma, quali invan li brameresti altronde,
marmi dal Tebro qua faran tragitto;
e mole sorgerà, che d'ognidonde
s'accorra ad ammirarla miglior dritto
che non colà sulle Niliache sponde
le alte tombe de' Sovran d'Egitto.
Già lo scarpel del gran Canova, e l'arte
benedir odo, e te, che scelto all'opra,
Donna Reale hai sì maestra mano,
acciò con degno onor per te si copra
chi tanto te onorò con degne carte:
e piangi pur, come se oprassi invano.
SONETTO III
Qua pellegrini nell'età future
verran devoti i più gentili amanti:
Poiché non fia che prima il tempo oscure,
che le Scene d'Alfieri i minor canti,
da cui tue rare doti, e le venture
sapran dell'alto amor, Donna, onde avanti
vita avevi in due vite, or solo a cure
di te, non vivi, ma prolunghi i pianti.
E alcun dirà: qual fra cotante, state
chiare, può al par di questa andare altera
d'esimio, ardente amico, eccelso vate?
O qual servo d'Amor mai ebbe, o spera
più adorno oggetto, non che di beltate,
ma d'ogni laude più splendente, o vera?
Più direi per mostrare qual amico ei fosse, qual perdita abbiam noi fatta, e l'Italia. Ma
pietà vuole ch'io sopprima le lagrime per non concitarnele più dolorose, consolandole
piuttosto col rammentare che ne' suoi scritti ci resta immortale il suo ingegno, e
l'immagine viva di quella grand'anima, la quale assai chiaramente effigiata risplende già
pur ne' libri da lui pubblicati. Ond'anche meno ci dee rincrescere ch'ei non abbia potuto
ripulire questa sua storia e che, anzi ne sia la Seconda Parte soltanto un primo getto
della materia minutata con frettolosa mano e con postille e richiami, cosicché non è
facile porvi a luogo ogni cosa, e leggerla rettamente.
Ma non v'è pericolo che perciò alcuno faccia della facoltà di scrivere del Conte
Alfieri minor concetto. Onde quello, che dianzi ho accennato, di voler qui soggiungere
alcuna scusa, non riguarda la dettatura, ma le cose. Alfieri in queste carte si è dipinto
qual era; né chi scevro d'ogni rugginoso affetto leggeralle, altra idea ne trarrà che la
verace. Ma l'acerbità del suo disegno in più d'un tratto può molti offendere. La quale
se non si scorgesse in alcun altro suo scritto, basterebbe, come ho detto, e la Signora
Contessa fa, non lasciar veder questi fogli che a qualche sicuro amico. Ma poiché i
motivi che hanno a rendergli avversi molti animi, già sono pubblici in altri suoi libri,
e lo splendore della sua gloria già basta a concitargli contro gran fiel d'invidia, e po'
poi queste carte, comunque custodite, pur possono venire in mano di men benevoli, sarà
bene apporvi un poco di contravveleno.
Dico adunque distinguersi due ragioni di lode, quella di sommo, e quella d'irreprensibile,
delle quali essendo la seconda in questo misero mondo rarissima eziandio nella
mediocrità, nel sommo non v'è richiesta. Ora al sommo sempre sospingevasi Alfieri, e fra
i più nobili affetti, che l'amor di gloria in quel gran cuore incendeva, fu sommo l'amore
di due cose, ch'ei non sapea distinguere, patria e libertà civile. Vero è che un
filosofo disimpegnato nella monarchia è più libero assai che il monarca; né io mai
altra libertà ho per me bramata, né avuti a sdegno i doveri di suddito fedele. Ma quando
ai sovrani piace venir chiamati padroni dai sudditi tutti, pur troppo è facile che taluno
si cacci in capo fortemente non potervi essere libertà civile, dove il diritto di volere
è d'un solo. Con questo inganno avvampava Alfieri dell'amore di patria libera, il quale,
dalla parte al tutto passando, egli stendeva a incensissimo desiderio dell'italica
libertà, la quale ei non voleva disperare che possa ancora, quando che sia, gloriosamente
risorgere. Però sembrando allora che nulla più fosse in grado di ostarvi che la potenza
francese, contro ai Francesi abbandonossi a un odio politico, ch'ei credé poter giovar
all'Italia, quanto più fosse reso universale. Voleva inoltre sceverarsi da quegl'infami,
che mostratisi per la libertà come lui caldissimi, ne han fatto con le più abbominevoli
scelleratezze detestare il partito. A chi meno ha passione egli è chiaro ch'ei non dovea
così generalmente parlare senza distinzioni di buoni e rei; né ragionevole al giudizio
di un freddo filosofo è mai l'odio di nazione alcuna. Ma si vuole Alfieri considerare
come un amante passionatissimo, che non può esser giusto cogli avversari dell'idolo suo,
come un italiano Demostene, che infiammate parole contrappone a forze maggiori assai dei
Macedoni. Né perciò il discolpo; né mi abbisognava per mantenergli la dovuta lode di
sommo. Bastami che non si nieghi convenevole indulgenza a trascorsi provenienti da eccesso
di sì commendabile affetto qual si è l'amor della patria.
Faccia la signora Contessa di questa mia carta quell'uso, che le parrà bene, gradendo
colla solita sua bontà, se non altro, il buon volere, e l'ossequio con cui mi pregio di
essere
Suo devotiss. servo di tutto cuore
Tommaso Valperga Caluso
Firenze i 21 Luglio 1804.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 17 ottobre, 1999