Vittorio Alfieri
La Vita scritta da esso
Verso i primi d'agosto partito di
Milano, mi volli restituire in Toscana. Ci venni per la bellissima e pittoresca via nuova
di Modena, che riesce a Pistoia. Nel far questa strada, tentai per la prima volta di
sfogare anche alquanto il mio ben giusto fiele poetico, in alcuni epigrammi. Io era
intimamente persuaso, che se degli epigrammi satirici, taglienti, e mordenti, non avevamo
nella nostra lingua, non era certo colpa sua; ch'ella ha ben denti, ed ugne, e saette, e
feroce brevità, quanto e più ch'altra lingua mai l'abbia, o le avesse. I pedanti
fiorentini, verso i quali io veniva scendendo a gran passi nell'avvicinarmi a Pistoia, mi
prestavano un ricco soggetto per esercitarmi un pochino in quell'arte novella. Mi
trattenni alcuni giorni in Firenze, e visitai alcuni di essi, mascheratomi da agnello, per
cavarne o lumi, o risate. Ma essendo quasi impossibile il primo lucro, ne ritrassi in
copia il secondo. Modestamente quei barbassori mi lasciarono, anzi mi fecero chiaramente
intendere: che se io prima di stampare avessi fatto correggere il mio manoscritto da loro,
avrei scritto bene. Ed altre sì fatte mal confettate impertinenze mi dissero. M'informai
pazientemente, se circa alla purità ed analogia delle parole, e se circa alla sacrosanta
grammatica, io avessi veramente solecizzato, o barbarizzato, o smetrizzato. Ed in
questo pure, non sapendo essi pienamente l'arte loro, non mi seppero additare niuna di
queste tre macchie nel mio stampato, individuandone il luogo; abbenché pur vi fossero
qualche sgrammaticature; ma essi non le conoscevano. Si appagarono dunque di appormi delle
parole, dissero essi, antiquate; e dei modi insoliti, troppo brevi, ed oscuri, e duri
all'orecchio. Arricchito io in tal guisa di sì peregrine notizie, addottrinato e
illuminato nell'arte tragica da sì cospicui maestri, me ne ritornai a Siena. Quivi mi
determinai, sì per occuparmi sforzatamente, che per divagarmi dai miei dolorosi pensieri,
di proseguirvi sotto i miei occhi la stampa delle tragedie. Nel riferire io poi all'amico
le notizie ed i lumi ch'io era andato ricavando dai nostri diversi oracoli italiani, e
massimamente dai fiorentini e pisani, noi gustammo un pocolino di commedia, prima di
accingerci a far di nuovo rider coloro a spese delle nostre ulteriori tragedie.
Caldamente, ma con troppa fretta, mi avviai a stampare, onde in tutto settembre, cioè in
meno di due mesi, uscirono in luce le sei tragedie in due tomi, che giunti al primo di
quattro, formano il totale di quella prima edizione. E nuova cosa mi convenne allora
conoscere per dura esperienza. Siccome pochi mesi prima io avea imparato a conoscere i
giornali ed i giornalisti; allora dovei conoscere i censori di manoscritti, i revisori
delle stampe, i compositori, i torcolieri, ed i proti. Meno male di questi tre ultimi, che
pagandoli si possono ammansire e dominare: ma i revisori e censori, sì spirituali che
temporali, bisogna visitarli, pregarli, lusingarli, e sopportarli, che non è picciol
peso. L'amico Gori per la stampa del primo volume si era egli assunto in Siena queste
noiose brighe per me. E così forse avrebbe anche potuto proseguire egli per la
continuazione dei du' altri volumi. Ma io, volendo pure, per una volta almeno, aver visto
un poco di tutto nel mondo, volli anche in quell'occasione aver veduto un sopracciglio
censorio, ed una gravità e petulanza di revisore. E vi sarebbe stato di cavarne delle
barzellette non poche, se io mi fossi trovato in uno stato di cuore più lieto che non era
il mio.
E allora anche per la prima volta abbadai
io stesso alla correzione delle prove; ma essendo il mio animo troppo oppresso, ed alieno
da ogni applicazione, non emendai come avrei dovuto e potuto, e come feci poi molti anni
dopo ristampando in Parigi, la locuzione di quelle tragedie; al qual effetto riescono
utilissime le prove dello stampatore, dove leggendosi quegli squarci spezzatamente e
isolati dal corpo dell'opera, vi si presentano più presto all'occhio le cose non
abbastanza ben dette; le oscurità; i versi mal tomiti; e tutte in somma quelle
mendarelle, che moltiplicate e spesseggianti fanno poi macchia. Sul totale però queste
sei tragedie stampate seconde, riuscirono, anche al dir dei malevoli, assai più piane che
le quattro prime. Stimai bene per allora di non aggiungere alle dieci stampate le quattro
altre tragedie che mi rimanevano, tra le quali si la Congiura de' Pazzi, che la Maria
Stuarda, potevano in quelle circostanze accrescere a me dei disturbi, ed a chi assai
più mi premea che me stesso. Ma intanto quel penoso lavoro del riveder le prove, e sì
affollatamente tante in sì poco spazio di tempo, e per lo più rivedendole subito dopo
pranzo, mi cagionò un accesso di podagra assai gagliardetto, che mi tenne da quindici
giorni zoppo e angustiato, non avendo voluto covarla in letto. Quest'era il secondo
accesso; il primo l'avea avuto in Roma un anno e più innanzi, ma leggerissimo. Con questo
secondo mi accertai, che mi toccherebbe quel passatempo assai spesso per lo rimanente
della mia vita. Il dolor d'animo, e il troppo lavoro di mente erano in me i due fonti di
quell'incommodo; ma l'estrema sobrietà nel vitto l'andò sempre poi vittoriosamente
combattendo; tal che finora pochi e non forti sono sempre stati gli assalti della mia mai
pasciuta podagra. Mentr'io stava quasi per finire la stampa, ricevei dal Calsabigi di
Napoli una lunghissima lettera, piena zeppa di citazioni in tutte le lingue, ma
bastantemente ragionata, su le mie prime quattro tragedie. Immediatamente, ricevutala, mi
posi a rispondergli, sì perché quello scritto mi pareva essere stato fin allora il solo
che uscisse da una mente sanamente critica e giusta ed illuminata; sì perché con
quell'occasione io poteva sviluppare le mie ragioni, e investigando io medesimo il come e
il perché fossi caduto in errore, insegnare ad un tempo a tutti i tant'altri inetti miei
critici a criticare con frutto e discernimento, o tacersi. Quello scritto mio, che dal
ritrovarmi io allora pienissimo di quel soggetto, non mi costò quasi punto fatica, poteva
poi anche col tempo servire come di prefazione a tutte le tragedie, allorché l'avessi
tutte stampate; ma me lo tenni in corpo per allora, e non lo volli apporre alla stampa di
Siena, la quale non dovendo essere altro per me che un semplice tentativo, io voleva
uscire del tutto nudo d'ogni scusa, e ricevere così da ogni parte e d'ogni sorte saette;
lusingandomi forse che n'avrei così ricevuto più vita che morte; niuna cosa più
ravvivando un autore, che il criticarlo inettamente. Né questo mio orgoglietto avrei
dovuto rivelare, s'io non avessi fin dal principio di queste chiacchiere impreso e
promesso di non tacer quasi che nulla del mio, o di non dare almeno mai ragione del mio
operare, la quale non fosse, la schiettissima verità. Finita la stampa, verso il
principio d'ottobre pubblicai il secondo volume; e riserbai il terzo a sostener nuova
guerra, tosto che fosse sfogata e chiarita la seconda.
Ma intanto, ciò che mi premeva allora
sopra ogni cosa, il rivedere la donna mia, non potendosi assolutamente effettuare per
quell'entrante inverno, io disperatissimo di tal cosa, e non ritrovando mai pace, né
luogo che mi contenesse, pensai di fare un lungo viaggio in Francia ed in Inghilterra, non
già che me ne fosse rimasto né desiderio né curiosità, che me n'era saziato d'entrambi
dal secondo viaggio, ma per andare; che altro rimedio o sollievo al dolore non ho saputo
ritrovar mai. Coll'occasione di questo nuovo viaggio mi proponeva poi anche di comprare
dei cavalli inglesi quanti più potrei. Questa era, ed è tuttavia, la mia passione terza;
ma sì fattamente sfacciata ed audace, e sì spesso rinascente, che i bei destrieri hanno
molte volte osato combattere, e vinto anche talvolta, sì i libri che i versi; ed in quel
punto di scontentezza di cuore, le Muse aveano pochissimo imperio su la mente mia. Onde di
poeta ripristinatomi cavallaio, me ne partii per Londra con la fantasia ripiena ed accesa
di belle teste, be' petti, altere incollature, ampie groppe, o nulla o poco pensando
oramai alle uscite e non uscite tragedie. Ed in sì fatte inezie consumai ben otto e più
mesi, non facendo più nulla, né studiando, né quasi pure leggendo, se non se a
squarcetti i miei quattro poeti, che or l'uno or l'altro io mi andava a vicenda
intascando, compagni indivisibili miei nelle tante e tante miglia ch'io faceva; e non
pensando ad altro che alla lontana mia donna, per cui di tempo in tempo alcune rime di
piagnisteo andava pur anche raccozzando alla meglio.
CAPITOLO
DUODECIMO
Terzo viaggio in Inghilterra, unicamente per comperarvi cavalli.
Verso la metà d'ottobre lasciai dunque Siena, e partendo alla volta di Genova, per Pisa e Lerici, l'amico Gori mi fece compagnia sino a Genova. Quivi dopo due o tre giorni ci separammo; egli ripartì per la Toscana, io m'imbarcai per Antibo. Rapidissimamente e con qualche pericolo feci quel tragitto in poco più di diciott'ore. Né senza un qualche timore passai quella notte. La filucca era piccola; c'aveva imbarcata la carrozza, la quale faceva squilibrio; il vento ed il mare gagliardissimi; ci stetti assai male. Sbarcato, ripartii per Aix, dove non mi trattenni, né mi arrestai sino in Avignone, dove mi portai con trasporto a visitare la magica solitudine di Valchiusa, e Sorga ebbe assai delle mie lagrime, non simulate e imitative, ma veramente di cuore e caldissime. Feci in quel giorno nell'andare e tornare di Valchiusa in Avignone quattro sonetti; e fu quello per me l'un dei giorni i più beati e nello stesso tempo dolorosi, ch'io passassi mai. Partito d'Avignone volli visitare la celebre Certosa di Grenoble, e per tutto spargendo lagrime andava raccogliendo rime non poche, tanto ch'io pervenni per la terza volta in Parigi; e sempre lo stessissimo effetto mi fece questa immensissima fogna; ira e dolore. Statovi circa un mese, che mi parve un secolo, ancorché vi avessi recate varie lettere per molti letterati d'ogni genere, mi disposi nel decembre a passare in Inghilterra. I letterati francesi son quasi tutti presso che interamente digiuni della nostra letteratura italiana, né oltrepassano l'intelligenza del Metastasio. Ed io poi non intendendo nulla né volendo saper della loro, non avea luogo discorso tra noi. Bensì arrabbiatissimo io in me stesso di essermi rimesso nel caso di dover riudire e riparlare quell'antitoscanissimo gergo nasale, affrettai quanto più potei il momento di allontanarmene. Il fanatismo ebdomadario di quel poco tempo ch'io mi vi trattenni, era allora il pallon volante; e vidi due delle prime e più felici esperienze delle due sorti di esso, l'uno di aria rarefatta ripieno; l'altro, d'aria infiammabile ed entrambi portanti per aria due persone ciascuno. Spettacolo grandioso e mirabile; tema più assai poetico che storico, e scoperta, a cui per ottenere il titolo di sublime, altro non manca finora che la possibilità o verisimiglianza di essere adattata ad una qualche utilità. Giunto in Londra, non trascorsero otto giorni, ch'io cominciai a comprar dei cavalli; prima un di corsa, poi due di sella, poi un altro, poi sei da tiro, e successivamente essendomene o andati male o morti vari polledri, ricomprandone due per un che morisse, in tutto il marzo dell'anno '84, me ne trovai rimanere quattordici. Questa rabidissima passione, che in me avea covato sotto cenere oramai quasi sei anni, mi si era per quella lunga privazione totale, o parziale, sì dispettosamente riaccesa nel cuore e nella fantasia, che recalcitrando contro gli ostacoli, e vedendo che di dieci compratine, cinque mi eran venuti meno in sì poco tempo, arrivai a quattordici; come pure a quattordici avea spinte le tragedie, non ne volendo da prima che sole dodici. Queste mi spossarono la mente; quelli la borsa; ma la divagazione dei molti cavalli mi restituì la salute e l'ardire di fare poi in appresso altre tragedie ed altr'opere. Furono dunque benissimo spesi quei molti danari, poiché ricomprai anche con essi il mio impeto e brio, che a piedi languivano. E tanto più feci bene di buttar quei danari, poiché me li trovava aver sonanti. Dalla donazione in poi, avendo io vissuti i primi quasi tre anni con sordidezza, ed i tre ultimi con decente ma moderata spesa; mi ritrovava allora una buona somma di risparmio, tutti i frutti dei vitalizi di Francia, cui non avea mai toccati. Quei quattordici amici me ne consumarono gran parte nel farsi comprare e trasferire in Italia; ed il rimanente poi me ne consumarono in cinque anni consecutivi nel farsi mantenere; che usciti una volta dalla loro isola, non vollero più morire nessuno, ed io affezionatomi ad essi non ne volli vender nessuno. Incavallatomi dunque sì pomposamente, dolente nell'animo per la mia lontananza dalla sola motrice d'ogni mio savio ed alto operare, io non trattava né cercava mai nessuno; o me ne stava co' miei cavalli, o scrivendo lettere su lettere su lettere. In questo modo passai circa quattro mesi in Londra; né alle tragedie pensava altrimenti che se non l'avessi né pure ideate mai. Soltanto mi si affacciava spesso fra me e me quel bizzarro rapporto di numeri fra esse e le mie bestie: e ridendo mi dicea: "Tu ti sei guadagnato un cavallo per ogni tragedia"; pensando ai cavalli che a suono di sferza ci somministrano i nostri Orbili pedagogi, quando facciamo nelle scuole una qualche trista composizione.
Così vissi io vergognosamente in un
ozio vilissimo per mesi e mesi; smettendo ogni dì più anche il leggere i soliti poeti, e
insterilita anco affatto la vena delle rime; tal che in tutto il soggiorno di Londra non
feci che un solo sonetto, e due poi al partire. Avviatomi nell'aprile con quella numerosa
carovana, venni a Calais, poi a Parigi di nuovo, poi per Lione e Torino mi restituii in
Siena. Ma molto è più facile e breve il dire per iscritto tal gita, che non l'eseguirla
con tante bestie. Io provava ogni giorno, ad ogni passo, e disturbi e amarezze, che troppo
mi avvelenavano il piacere che avrei avuto della mia cavalleria. Ora questo tossiva, or
quello non volea mangiare: l'uno zoppicava, all'altro si gonfiavan le gambe, all'altro si
sgretolavan gli zoccoli, e che so io; egli era un oceano continuo di guai, ed io n'era il
primo martire. E quel passo di mare, per trasportarli di Douvres, vedermeli tutti come
pecore in branco posti per zavorra della nave, avviliti, sudicissimi da non più si
distinguere neppure il bell'oro dei loro vistosi mantelli castagni; e tolte via alcune
tavole che li facean da tetto, vederli poi in Calais, prima che si sbarcassero, servire i
loro dossi di tavole ai grossolani marinai che camminavan sopra di loro come se non
fossero stati vivi corpi, ma una vile continuazione di pavimento; e poi vederli tratti per
aria da una fune con le quattro gambe spenzolate, e quindi calati nel mare, perché stante
la marea non poteva la nave approdare sino alla susseguente mattina; e se non si
sbarcavano così quella sera, conveniva lasciarli poi tutta la notte in quella sì scomoda
positura imbarcati; insomma vi patii pene continue di morte. Ma pure tanta fu la
sollecitudine, e l'antivedere, e il rimediare, e l'ostinatamente sempre badarci da me, che
fra tante vicende, e pericoli, ed incommoducci, li condussi senza malanni importanti tutti
salvi a buon porto.
Confesserò anche pel vero, che io
passionatissimo su questo fatto, ci aveva anche posta una non meno stolta che stravagante
vanità; talché quando in Amiens, in Parigi, in Lione, in Torino, e altrove que' miei
cavalli erano trovati belli dai conoscitori, io me ne rimpettiva e teneva come se li
avessi fatti io. Ma la più ardua ed epica impresa mia con quella carovana fu il passo
dell'Alpi fra Laneborgo, e la Novalesa. Molta fatica durai nel ben ordinare ed eseguire la
marcia loro, affinché non succedesse disgrazia nessuna a bestie sì grosse, e piuttosto
gravi, in una strettezza e malagevolezza sì grande di quei rompicolli di strade. E
siccome assai mi compiacqui nell'ordinarla, mi permetta anco il lettore ch'io mi
compiaccia alquanto in descriverla. Chi non la vuole, la passi; e chi la vorrà pur
leggere, badi un po' s'io meglio sapessi distribuire la marcia di quattordici bestie fra
quelle Termopili, che non i cinque atti d'una tragedia.
Erano que' miei cavalli, attesa la lor
giovinezza, e le mie cure paterne, e la moderata fatica, vivaci e briosi oltre modo; onde
tanto più scabro riusciva il guidarli illesi per quelle scale. Io presi dunque in
Laneborgo un uomo per ciascun cavallo, che lo guidasse a piedi per la briglia cortissimo.
Ad ogni tre cavalli, che l'uno accodato all'altro salivano il monte bel bello, coi loro
uomini, ci avea interposto uno dei miei palafrenieri che cavalcando un muletto invigilava
su i suoi tre che lo precedevano. E così via via di tre in tre. In mezzo poi della marcia
stava il maniscalco di Laneborgo con chiodi e martello, e ferri e scarpe posticce per
rimediare ai piedi che si venissero a sferrare, che era il maggior pericolo in quei
sassacci. Io poi, come capo dell'espedizione, veniva ultimo, cavalcando il più piccolo e
il più leggiero de' miei cavalli, Frontino, e, mi tenea alle due staffe due aiutanti di
strada, pedoni sveltissimi, ch'io mandava dalla coda al mezzo o alla testa, portatori de'
miei comandi. Giunti in tal guisa felicissimamente in cima del Monsenigi, quando poi fummo
allo scendere in Italia, mossa in cui sempre i cavalli si sogliono rallegrare, e
affrettare il passo, e sconsideratamente anco saltellare, io mutai di posto, e sceso di
cavallo mi posi in testa di tutti, a piedi, scendendo ad oncia ad oncia; e per
maggiormente anche ritardare la scesa, avea posti in testa i cavalli i più gravi e più
grossi; e gli aiutanti correano intanto su e giù per tenerli tutti insieme senza
intervallo nessuno; altro che la dovuta distanza. Con tutte queste diligenze mi si
sferrarono nondimeno tre piedi a diversi cavalli, ma le disposizioni eran sì esatte, che
immediatamente il maniscalco li poté rimediare, e tutti giunsero sani e salvi alla
Novalesa, coi piedi in ottimo essere, e nessunissimo zoppo. Queste mie chiacchiere
potranno servire di norma a chi dovesse passare o quell'Alpe, o altra simile, con molti
cavalli. Io, quant'a me, avendo sì felicemente diretto codesto passo, me ne teneva poco
meno che Annibale per averci un poco più verso il mezzogiorno fatto traghettare i suoi
schiavi ed elefanti. Ma se a lui costò molt'aceto, a me costò del vino non poco, che
tutti coloro, e guide, e maniscalchi, e palafrenieri, e aiutanti, si tracannarono.
Col capo ripieno traboccante di queste
inezie cavalline, e molto scemo di ogni utile e lodevole pensamento, arrivai in Torino in
fin di maggio, dove soggiornai circa tre settimane, dopo sette e più anni che vi avea
smesso il domicilio. Ma i cavalli, che per la troppa continuità cominciavano talvolta a
tediarmi, dopo sei, o otto giorni di riposo, li spedii innanzi alla volta della Toscana,
dove li avrei raggiunti. Ed intanto voleva un poco respirare da tante brighe, e fatiche, e
puerilità, poco in vero convenevoli ad un autor tragico in età di anni trentacinque
suonati. Con tutto ciò quella divagazione, quel moto, quell'interruzione totale d'ogni
studio mi aveva singolarmente giovato alla salute; ed io mi trovava rinvigorito, e
ringiovenito di corpo, come pur troppo ringiovenito anche di sapere e di senno, i cavalli
mi aveano a gran passi ricondotto all'asino mio primitivo. E tanto mi era già di bel
nuovo irrugginita la mente, ch'io mi riputava ora mai nella totale impossibilità di nulla
più ideare, né scrivere.
CAPITOLO
DECIMOTERZO
Breve soggiorno in Torino. Recita uditavi della Virginia.
In Torino ebbi alcuni piaceri, e
alcuni più dispiaceri. Il rivedere gli amici della prima gioventù, ed i luoghi che primi
si son conosciuti, ed ogni pianta, ogni sasso, in somma ogni oggetto di quelle idee e
passioni primitive, ell'è dolcissima cosa. Per altra parte poi, l'avere io ritrovati non
pochi di quei compagnoni d'adolescenza, i quali vedendomi ora venire per una via, di
quanto potean più lontano mi scantonavano; ovvero, presi alle strette, gelidamente appena
mi salutavano, od anche voltavano il viso altrove; gente, a cui io non aveva fatto mai
nulla, se non se amicizia e cordialità; questo mi amareggiò non poco; e più mi avrebbe
amareggiato, se non mi fosse stato detto da altri pochi e benevoli, che gli uni mi
trattavan così perché io aveva scritto tragedie; gli altri, perché avea viaggiato
tanto; gli altri, perché ora io era ricomparito in paese con troppi cavalli: piccolezze
in somma; scusabili però, e scusabilissime presso chiunque conosce l'uomo esaminando
imparzialmente sé stesso: ma cose da scansarsi per quanto è possibile, col non abitare
fra i suoi nazionali, allorché non si vuol fare quel che essi fanno o non fanno;
allorché il paese è piccolo, ed oziosi gli abitanti; ed allorché finalmente si è
venuto ad offenderli involontariamente, anche col solo tentare di farsi dappiù di loro,
qualunque sia il genere e il modo in cui l'uomo abbia tentato tal cosa.
Un altro amarissimo boccone che mi
convenne inghiottire in Torino, fu di dovermi indispensabilmente presentare al re, il
quale per certo si teneva offeso da me, per averlo io tacitamente rinnegato
coll'espatriazione perpetua. Eppure, visti gli usi del paese, e le mie stesse circostanze,
io non mi poteva assolvere dal fargli riverenza, ed ossequio, senza riportarne la giusta
taccia di stravagante e insolente e scortese. Appena io giunsi in Torino, che il mio buon
cognato, allora primo gentiluomo di camera, ansiosamente subito mi tastò per vedere se io
mi presenterei a corte, o no. Ma io immediatamente lo acquetai e racconsolai col dirgli
positivamente di sì; ed egli insistendo sul quando, non volli differire. Fui il giorno
dopo dal ministro. Il mio cognato già mi avea prevenuto, che in quel punto le
disposizioni di quel governo erano ottime per me; onde sarei molto ben ricevuto; ed
aggiunse anco che si avea voglia d'impiegarmi. Questo non meritato né aspettato favore mi
fece tremare; ma l'avviso mi servì assai, per tener tal contegno e discorso da non mi
fare né prendere né invitare. Io dissi dunque al ministro, che passando per Torino
credeva del mio dovere di visitare lui ministro, e di richiedere per mezzo suo di
rassegnarmi al re, semplicemente per inchinarmegli. Il ministro con blande maniere mi
accolse, e direi quasi che mi festeggiò. E di una parola in un'altra mi venne lasciato
travedere da prima, e poi mi disse apertamente: che al re piacerebbe ch'io mi volessi
fissare in patria; che si varrebbe volentieri di me; ch'io mi sarei potuto distinguere; e
simili frasche. Tagliai a dirittura nel vivo, e senza punto tergiversare risposi: che io
ritornava in Toscana per ivi proseguire le mie stampe e i miei studi; ch'io mi trovava
avere trentacinque anni, età in cui non si dee oramai più cangiare di proposito; che
avendo io abbracciata l'arte delle lettere, o bene o male la praticherei per tutto il
rimanente di vita mia. Egli soggiunse: che le lettere erano belle e buone, ma che
esistevano delle occupazioni più grandi e più importanti, di cui io era e mi dovea
sentir ben capace. Ringraziai cortesemente, ma persistei nel no; ed ebbi anche la
moderazione e la generosità di non dare a quel buon galantuomo lnutile
mortificazione, ch'egli si sarebbe pur meritata; di lasciargli cioè intendere, che i loro
dispacci e diplomazie mi pareano, ed eran per certo, assai meno importante ed alta cosa
che non le tragedie mie o le altrui. Ma questa specie di gente è, e dev'essere,
inconvertibile. Ed io, per natura mia, non disputo mai, se non se raramente con quelli con
cui concordiamo di massima; agli altri ogni cosa io la do vinta alla prima. Mi contentai
dunque di non acconsentire. Questa mia resistenza negativa verisimilmente poi passò sino
al re pel canal del ministro; onde il giorno dopo, ch'io vi fui a inchinarlo, il re non mi
parlò punto di questo, e del rimanente mi accolse colla massima affabilità e cortesia,
che gli è propria. Questi era (ed ancora regna) Vittorio Amedeo II, figlio di Carlo
Emanuele, sotto il cui regno io nacqui. Ancorché io non ami punto i re in genere, e meno
i più arbitrari, debbo pur dire ingenuamente che la razza di questi nostri principi è
ottima sul totale, e massime paragonandola a quasi tutte l'altre presenti d'Europa. Ed io
mi sentiva nell'intimo del cuore piuttosto affetto per essi, che non avversione; stante
che sì questo re che il di lui predecessore, sono di ottime intenzioni, di buona e
costumata ed esemplarissima indole e fanno al paese loro più bene che male. Con tutto
ciò quando si pensa e vivamente si sente che il loro giovare o nuocere pendono dal loro
assoluto volere, bisogna fremere, e fuggire. E così feci io dopo alcuni giorni, quanti
bastarono per rivedere i miei parenti e conoscenti in Torino, e trattenermi piacevolmente
e utilmente per me le più ore di quei pochi giorni coll'incomparabile amico, l'abate di
Caluso, che un cotal poco mi riassestò anche il capo, e mi riscosse dal letargo in cui la
stalla mi avea precipitato, e quasi che sepellito.
Nel trattenermi in Torino mi toccò di
assistere (senza ch'io n'avessi gran voglia) ad una recita pubblica della mia Virginia,
che fu fatta su lo stesso teatro, nove anni dopo quella della Cleopatra, da attori
a un bel circa della stessa abilità. Un mio amico già d'Accademia avea preparata questa
recita già prima ch'io arrivassi a Torino, e senza sapere ch'io ci capiterei. Egli mi
chiese di volermi adoprare nell'addestrare un tal poco gli attori; come avea fatto già
per la Cleopatra. Ma io, cresciuto forse alquanto di mezzi, e molto più di
orgoglio, non mi ci volli prestare in nulla, conoscendo benissimo quel che siano finora ed
i nostri attori, e le nostre platee. Non mi volli dunque far complice a nessun patto della
loro incapacità, che senza averli sentiti ella mi era già cosa dimostratissima. Sapeva,
che avrebbe bisognato cominciare dall'impossibile; cioè dall'insegnar loro a parlare e
pronunziar italiano, e non veneziano; a recitar essi, e non il rammentatore; ad intendere
(troppo sarebbe pretendere, s'io dicessi a sentire), ma ad intendere semplicemente quello
che volean far intendere all'uditorio. Non era poi dunque sì irragionevole il mio niego,
né si indiscreto il mio orgoglio. Lasciai dunque che l'amico ci pensasse da sé, e
condiscesi soltanto col promettergli a mal mio grado d'assistervi. Ed in fatti ci fui,
già ben convinto in me stesso, che di vivente mio non v'era da raccogliere per me in
nessunissimo teatro d'Italia, né lode né biasimo. La Virginia ottenne per
l'appunto la stessa attenzione, e lo stessissimo esito che avea già ottenuta la Cleopatra;
e fu richiesta per la sera dopo, né più né meno di quella; ed io, come si può credere,
non ci tornai. Ma da quel giorno cominciò in gran parte quel mio disinganno di gloria, in
cui mi vo di giorno in giorno sempre più confermando. Con tutto ciò non mi rimoverò io
dall'abbracciato proposito di tentare ancora per altri dieci o quindici anni all'incirca,
sin sotto ai sessanta cioè, di scrivere in due o tre altri generi delle nuove
composizioni, quanto più accuratamente e meglio il saprò; per avere, morendo o
invecchiando, la intima consolazione di aver soddisfatto a me stesso, ed all'arte
quant'era in me. Che quanto ai giudizi degli uomini presenti, atteso lo stato in cui si
trova l'arte critica in Italia, ripeto piangendo, che non v'è da sperare né ottenere per
ora, né lode né biasimo. Che io non reputo lode, quella che non discerne, e motivando
sé stessa inanima l'autore; né biasimo chiamo, quello che non t'insegna a far meglio.
Io patii morte a codesta recita della Virginia,
più ancora che a quella di Cleopatra, ma per ragioni troppo diverse. Né più
esattamente le voglio allegare ora qui; poiché a chi ha ed il gusto e l'orgoglio
dell'arte, elle già sono notissime; per chi non l'ha, elle riuscirebbero inutili ed
inconcepibili.
Partito di Torino, mi trattenni tre
giorni in Asti presso l'ottima rispettabilissima mia madre. Ci separammo poi con gran
lagrime, presagendo ambedue che verisimilmente non ci saremmo più riveduti. Io non dirò
che mi sentissi per lei quanto affetto avrei potuto e dovuto; atteso che dall'età di
nov'anni in poi non mi era mai più trovato con essa, se non se alla sfuggita per ore. Ma
la mia stima, gratitudine, e venerazione per essa e per le di lei virtù è stata sempre
somma, e lo sarà finch'io vivo. Il Cielo le accordi lunga vita, poich'ella sì bene la
impiega in edificazione e vantaggio di tutta la sua città. Essa poi è oltre ogni dire
sviscerata per me, più assai ch'io non abbia mai meritato. Perciò il di lei vero ed
immenso dolore nell'atto della nostra dipartenza grandemente mi accorò, ed accora.
Appena uscito io poi dagli stati del re
sardo, mi sentii come allargato il respiro: cotanto mi pesava tuttavia tacitamente sul
collo anche l'avanzo stesso di quel mio giogo natio, ancorché infranto lo avessi. Talché
il poco tempo ch'io vi stetti, ogni qualvolta mi dovei trovare con alcuno dei barbassori
governanti di quel paese, io mi vi teneva piuttosto in aspetto di liberto che non d'uomo
libero; sempre rammentandomi quel bellissimo detto di Pompeo nello scendere in Egitto alla
discrezione ed arbitrio d'un Fotino: " Chi entra in casa del tiranno, s'egli schiavo
non era si fa". Cosí, chi per mero ozio e vaghezza rientra nel già disertato suo
carcere, vi si può benissimo ritrovar chiuso all'uscirne, finché pur carcerieri
rimangonvi.
Inoltrandomi intanto verso Modena, le
nuove ch'io avea ricevute dalla mia donna mi andavano riempiendo or di dolore, ora di
speranza, e sempre di molta incertezza. Ma l'ultime ricevute in Piacenza mi annunziavano
finalmente la di lei liberazione di Roma, il che mi empiva d'allegrezza; poiché Roma era
per allora il sol luogo dove non l'avrei potuta vedere, ma per altra parte la convenienza
con catene di piombo mi vietava assolutamente, anche in quel punto, di seguitarla. Ella
aveva con mille stenti, e con dei sacrifici pecuniari non piccioli verso il marito,
ottenuto finalmente dal cognato, e dal papa, la licenza di portarsi negli Svizzeri
all'acque di Baden; trovandosi per i molti disgusti la di lei salute considerabilmente
alterata. In quel giugno dunque dell'anno 1784 ell'erasi partita di Roma, e bel bello
lungo la spiaggia dell'Adriatico, per Bologna e Mantova e Trento, si avviava verso il
Tirolo, nel tempo stesso che io partitomi di Torino, per Piacenza, Modena e Pistoia me ne
ritornava a Siena. Questo pensiero, di essere allora così vicino a lei, per tosto poi di
bel nuovo rimanere così disgiunti e lontani, mi riusciva ad un tempo e piacevole e
doloroso. Avrei benissimo potuto mandar per la diritta in Toscana il mio legno e la mia
gente, ed io a traverso per le poste a cavallo soletto l'avrei potuta presto raggiungere,
e almen l'avrei vista. Desiderava, temeva, sperava, voleva, disvoleva: vicende tutte ben
note ai pochi e veraci amatori; ma vinse pur finalmente il dovere, e l'amore di essa e del
di lei decoro, più che di me. Onde, bestemmiando e piangendo, non mi scartai punto dalla
strada mia. Così sotto il peso gravissimo di questa mia dolorosa vittoria giunsi in Siena
dopo dieci mesi in circa di viaggio; e ritrovai nell'amico Gori l'usato mio necessarissimo
conforto, onde andarvi pure strascinando la vita, e stancando oramai le speranze.
CAPITOLO
DECIMOQUARTO
Viaggio in Alsazia. Rivedo la donna mia.
Ideate tre nuove tragedie.
Morte inaspettata dell'amico Gori in Siena.
Erano frattanto giunti in Siena pochi
giorni dopo di me i miei quattordici cavalli, ed il decimoquinto ve l'avea lasciato io in
custodia all'amico; ed era il mio bel falbo, il Fido; quello stesso che in Roma avea più
volte portato il dolce peso della donna mia, e che perciò mi era egli solo più caro
assai che tutta la nuova brigata. Tutte queste bestie mi tenevano scioperato e divagato ad
un tempo; aggiuntavi poi la scontentezza di cuore, io andava invano tentando di ripigliare
le occupazioni letterarie. Parte di giugno, e tutto luglio ch'io stetti senza muovermi di
Siena, mi si consumarono così, senza ch'io facessi altro che qualche rime. Feci anche
alcune stanze che mancavano a terminare il terzo canto del poemetto, e vi cominciai il
quarto ed ultimo. Quell'opera, benché lavorata con tante interruzioni, in così lungo
tempo, e sempre alla spezzata, e senza ch'io avessi alcun piano scritto, mi stava con
tutto ciò assai fortemente fitta nel capo; e l'avvertenza ch'io vi osservava il più, era
di non l'allungare di soverchio; il che, se io mi fossi lasciato andare agli episodi o ad
altri ornamenti, mi sarebbe riuscito pur troppo facile. Ma a volerla far cosa originale e
frizzante d'un agrodolce terribile, il pregio di cui più abbisognava si era la brevità.
Perciò da prima io l'aveva ideata di tre soli canti; ma la rassegna dei consiglieri mi
avea rubato quasi che un canto, perciò furon quattro. Non sono però ben certo in me
stesso che quei tanti interrompimenti non abbiano influito sul totale del poema, dandogli
un non so che di sconnesso.
Mentre io stava dunque tentando di
proseguire quel quarto canto, io andava sempre ricevendo e scrivendo gran lettere; queste
a poco a poco mi riempirono di speranza, e vieppiù m'infiammarono del desiderio di
rivederla tra breve. E tanto andò crescendo questa possibilità, che un bel giorno non
potendo io più stare a segno, detto al solo amico Gori dove io fossi per andare, e finto
di fare una scorsa a Venezia, io mi avviai verso la Germania il dì quattro d'agosto.
Giorno, oimè, di sempre amara ricordanza per me. Che mentre io baldo e pieno di gioia mi
avviava verso la metà di me stesso, non sapeva io che nell'abbracciare quel caro e raro
amico, che per sei settimane sole mi credea di lasciarlo, io lo lascerei per l'eternità.
Cosa, di cui non posso parlare, né pur pensarci, senza prorompere in pianto, anche molti
anni dopo. Ma tacerò di questo pianto, poiché altrove quanto meglio il seppi v'ho dato
sfogo.
Eccomi dunque da capo per viaggio. Per la
solita mia dilettissima e assai poetica strada di Pistoia a Modena, me ne vo
rapidissimamente a Mantova, Trento, Inspruck, e quindi per la Soavia a Colmar, città
dell'Alsazia superiore alla sinistra del Reno. Quivi presso ritrovai finalmente quella
ch'io andava sempre chiamando e cercando, orbo di lei da più di sedici mesi. Io feci
tutto questo cammino in dodici giorni né mai mi pareva di muovermi, per quanto i'
corressi. Mi si riaprì in quel viaggio più abbondante che mai si fosse la vena delle
rime, e chi potea in me più di me mi facea comporre sino a tre e più sonetti quasi ogni
giorno; essendo quasi fuor di me dal trasporto di calcare per tutta quella strada le di
lei orme stesse, e per tutto informandomi, e rilevando ch'ella vi era passata circa due
mesi innanzi. E col cuore alle volte gioioso, mi rivolsi anche al poetare festevole; onde
scrissi cammin facendo un capitolo al Gori, per dargli le istruzioni necessarie per la
custodia degli amati cavalli, che pure non erano in me che la passione terza: troppo mi
vergognerei se avessi detto, seconda; dovendo, come è di ragione, al Pegaso preceder le
Muse.
Quel mio lunghetto capitolo, che poi ho
collocato fra le rime, fu la prima e quasi che la sola poesia ch'io mai scrivessi in quel
genere bernesco, di cui, ancorché non sia quello al quale la natura m'inclini il più,
tuttavia pure mi par di sentire tutte le grazie e il lepore. Ma non sempre il sentirle
basta ad esprimerle. Ho fatto come ho saputo. Giunto il dì 16 agosto presso la mia donna,
due mesi in circa mi vi sfuggirono quasi un baleno. Ritrovatomi così di bel nuovo
interissimo di animo di cuore e di mente, non erano ancor passati quindici giorni dal dì
ch'io era ritornato alla vita rivedendola, che quell'istesso io il quale da due anni non
avea mai più neppure sognato di scrivere oramai altre tragedie; quell'io, che anzi avendo
appeso il coturno al Saul, mi era fermamente proposto di non lo spiccare mai più;
mi ritrovai allora, senza accorgermene quasi, ideate per forza altre tre tragedie ad un
parto: Agide, Sofonisba, e Mirra. Le due prime, mi erano cadute in
mente altre volte, e sempre l'avea discacciate; ma questa volta poi mi si erano talmente
rifitte nella fantasia, che mi fu forza di gettarne in carta l'abbozzo, credendomi pure e
sperando che non le potrei poi distendere. A Mirra non avea pensato mai; ed anzi, essa non
meno che Bibli, e così ogni altro incestuoso amore, mi si erano sempre mostrate come
soggetti non tragediabili. Mi capitò alle, mani nelle Metamorfosi di Ovidio quella
caldissima e veramente divina allocuzione di Mirra alla di lei nutrice, la quale mi fece
prorompere in lagrime, e quasi un subitaneo lampo mi destò l'idea di porla in tragedia; e
mi parve che toccantissima ed originalissima tragedia potrebbe riuscire, ogni qual volta
potesse venir fatto all'autore di maneggiarla in tal modo che lo spettatore scoprisse da
sé stesso a poco a poco tutte le orribili tempeste del cuore infuocato ad un tempo e
purissimo della più assai infelice che non colpevole Mirra, senza che ella neppure la
metà ne accennasse, non confessando quasi a sé medesima, non che ad altra persona
nessuna, un sì nefando amore. In somma l'ideai a bella prima, ch'ella dovesse nella mia
tragedia operare quelle cose stesse, ch'ella in Ovidio descrive; ma operarle tacendole.
Sentii fin da quel punto l'immensa difficoltà ch'io incontrerei nel dover far durare
questa scabrosissima fluttuazione dell'animo di Mirra per tutti gl'interi cinque atti,
senza accidenti accattati d'altrove. E questa difficoltà che allora vieppiù m'infiammò,
e quindi poi nello stenderla, verseggiarla, e stamparla sempre più mi fu sprone a tentare
di vincerla, io tuttavia dopo averla fatta, la conosco e la temo quant'ella s'è;
lasciando giudicar poi dagli altri s'io l'abbia saputa superare nell'intero, od in parte,
od in nulla.
Questi tre nuovi parti tragici mi
raccesero l'amor della gloria, la quale io non desiderava per altro fine oramai, se non se
per dividerla con chi mi era più caro di essa. Io dunque allora da circa un mese stava
passando i miei giorni beati, e occupati, e da nessunissima amarezza sturbati, fuorché
dall'anticipato orribile pensiero che al più al più fra un altro mesetto era
indispensabile il separarci di nuovo. Ma, quasi che questo sovrastante timore non fosse
bastato egli solo a mescermi infinita amarezza al poco dolce brevissimo ch'io assaporava,
la fortuna nemica me ne volle aggiungere una dose non piccola per farmi a caro prezzo
scontare quel passeggero sollievo. Lettere di Siena mi portarono nello spazio di otto
giorni, prima la nuova della morte del fratello minore del mio Gori, e la malattia non
indifferente di esso; successivamente le prossime nuove mi portarono pur anche la morte di
esso in sei soli giorni di malattia. Se io non mi fossi trovato con la mia donna al
ricevere questo colpo sì rapido ed inaspettato, gli effetti del mio giusto dolore
sarebbero stati assai più fieri e terribili. Ma l'aver con chi piangere menoma il pianto
d'assai. La mia donna conosceva essa pure e moltissimo amava quel mio Francesco Gori; il
quale l'anno innanzi, dopo avermi accompagnato, come dissi, a Genova, tornato poi in
Toscana erasi quindi portato a Roma quasi a posta per conoscerla, e soggiornatovi alcuni
mesi l'aveva continuamente trattata, ed aveala giornalmente accompagnata nel visitare i
tanti prodotti delle bell'arti di cui egli era caldissimo amatore e sagace conoscitore.
Essa perciò nel piangerlo meco non lo pianse soltanto per me, ma anche per sé medesima,
conoscendone per recente prova tutto il valore. Questa disgrazia turbò oltre modo il
rimanente del breve tempo che si stette insieme; ed approssimandosi poi il termine, tanto
più amara ed orribile ci riuscì questa separazione seconda. Venuto il temuto giorno,
bisognò obbedire alla sorte, ed io dovei rientrare in ben altre tenebre, rimanendo questa
volta disgiunto dalla mia donna senza sapere per quanto, e privo dell'amico colla funesta
certezza ch'io l'era per sempre. Ogni passo di quella stessa via, che al venire mi era
andato sgombrando il dolore ed i tetri pensieri, me li facea raddoppiati ritrovare al
ritorno. Vinto dal dolore, poche rime feci, ed un continuo piangere sino a Siena dove mi
restituii ai primi di novembre. Alcuni amici dell'amico, che mi amavano di rimbalzo, ed io
cosí loro, mi accrebbero in quei primi giorni smisuratamente il dolore troppo bene
servendomi nel mio desiderio di sapere ogni particolarità di quel funesto accidente; ed
io tremando pur sempre e sfuggendo di udirle, le andava pur domandando. Non tornai più ad
alloggio (come ben si può credere) in quella casa del pianto, che anzi non l'ho rivista
mai più. Fin da quando io era tornato di Milano l'anno innanzi, io avea accettato
dall'ottimo cuor dell'amico un molto gaio e solitario quartierino nella di lui casa, e ci
vivevamo come fratelli.
Ma il soggiorno di Siena senza il mio
Gori, mi si fece immediatamente insoffribile. Volli tentare di indebolirne alquanto il
dolore senza punto scemarmene la memoria, col cangiare e luoghi ed oggetti. Mi trasferii
perciò nel novembre in Pisa, risolutomi di starvi quell'inverno; ed aspettando che un
miglior destino mi restituisse a me stesso; che privo d'ogni pascolo del cuore, veramente
non mi potea riputar vivo.
CAPITOLO
DECIMOQUINTO
Soggiorno in Pisa. Scrittovi il Panegirico a Traiano ed altre cose.
La mia donna frattanto era per le Alpi
della Savoia rientrata 1785 anch'essa in Italia; e per la via di Torino venuta a Genova,
quindi a Bologna, in quest'ultima città si propose di passare l'inverno; combinandosi in
questo modo per lei di stare negli Stati Pontificii, senza pure rimettersi in Roma
nell'usato carcere. Sotto il pretesto dunque della stagione troppo inoltrata, sendo giunta
a Bologna in decembre, non ne partì altrimenti. Eccoci dunque, io a Pisa, ed essa in
Bologna, col solo Apennino di mezzo, per quasi cinque mesi, di nuovo disgiunti e pur
vicinissimi. Questo m'era ad un tempo stesso una consolazione e un martirio; ne ricevea le
nuove freschissime ogni tre o quattro giorni, e non potea pure né doveva in niun modo
tentar di vederla, atteso il gran pettegolezzo delle città piccole d'Italia, dove chi
nulla nulla esce dal volgo, è sempre minutamente osservato dai molti oziosi e maligni. Io
mi passai dunque in Pisa quel lunghissimo inverno, col solo sollievo delle di lei
spessissime lettere, e perdendo al solito il mio tempo fra i molti cavalli, e quasi nulla
servendomi dei pochi ma fidi miei libri. Sforzato pure dalla noia, e nell'ore che
cavalcare ed aurigare non si poteva, tanto e tanto qualcosa andava pur leggicchiando,
massime la mattina in letto, appena sveglio. In queste semiletture avea scorse le lettere
di Plinio il Minore, e molto mi avean dilettato sì per la loro eleganza, sì per le molte
notizie su le cose e costumi romani che vi si imparano; oltre poi il purissimo animo, e la
bella ed amabile indole che vi va sviluppando l'autore. Finite l'epistole, impresi di
leggere il Panegirico a Traiano, opera che mi era nota per fama, ma di cui
non avea mai letta parola. Inoltratomi per alcune pagine, e non vi ritrovando quell'uomo
stesso dell'epistole, e molto meno un amico di Tacito, qual egli si professava, io sentii
nel mio intimo un certo tal moto d'indegnazione; e tosto, buttato là il libro saltai a
sedere sul letto, dov'io giaceva nel leggere; ed impugnata con ira la penna, ad alta voce
gridando dissi a me stesso: "Plinio mio, se tu eri davvero e l'amico, e l'emulo, e
l'ammiratore di Tacito, ecco come avresti dovuto parlare a Traiano". E senza più
aspettare, né riflettere, scrissi d'impeto, quasi forsennato, così come la penna
buttava, circa quattro gran pagine del mio minutissimo scritto; finché stanco, e
disebriato dallo sfogo delle versate parole, lasciai di scrivere, e quel giorno non vi
pensai più. La mattina dopo, ripigliato il mio Plinio, o per dir meglio, quel Plinio che
tanto mi era scaduto di grazia nel giorno innanzi, volli continuar di leggere il di lui Panegirico.
Alcune poche pagine più, facendomi gran forza, ne lessi; poi non mi fu possibile di
proseguire, Allora volli un po' rileggere quello squarcione del mio Panegirico,
ch'io avea scritto delirando la mattina innanzi. Lettolo, e piaciutomi, e rinfiammato più
di prima, d'una burla ne feci, o credei farne, una cosa serissima; e distribuito e diviso
alla meglio il mio tema, senza più ripigliar fiato, scrivendone ogni mattina quanto ne
potevan gli occhi, che dopo un par d'ore di entusiastico lavoro non mi fanno più luce; e
pensandovi poi e ruminandone tutto l'intero giorno, come sempre mi accade allorché non so
chi mi dà questa febbre del concepire e comporre; me lo trovai tutto steso nella quinta
mattina, dal dì 13 al 17 di marzo! e, con pochissima varietà, toltone l'opera della
lima, da quello che va dattorno stampato.
Codesto lavoro mi avea riacceso
l'intelletto, ed una qualche tregua avea pur anche data ai miei tanti dolori. Ed allora mi
convinsi per esperienza, che a voler tollerare quelle mie angustie d'animo, ed aspettarne
il fine senza soccombere, mi era più che necessario di farmi forza, e costringer la mente
ad un qualche lavoro. Ma siccome la mente mia, più libera e più indipendente di me, non
mi vuole a niun conto obbedire; tal che, se io mi fossi proposto, prima di leggere il
Plinio, di voler fare un panegirico a Traiano, non avrebbe essa forse voluto raccozzar due
idee; per ingannare ad un tempo e il dolore e la mente, trovai il compenso di violentarmi
in una qualche opera di pazienza, e di schiena come si suol dire. Perciò tornatomi fra
mani quel Sallustio che circa dieci anni prima aveva tradotto in Torino per semplice
studio, lo feci ricopiare col testo accanto, e mi posi seriamente a correggerlo,
coll'intenzione e speranza ch'egli riuscisse una cosa. Ma neppure per questo pacifico
lavoro io sentiva il mio animo capace di continua e tranquilla applicazione; onde non lo
migliorai di gran fatto, anzi mi avvidi, che nel bollore e deliri d'un cuore preoccupato e
scontento, riesce forse più possibile il concepire e creare una cosa breve e focosa, che
non il freddamente limare una cosa già fatta. La lima è un tedio, onde facilmente si
pensa ad altro, adoprandola. La creazione è una febbre, durante l'accesso, non si sente
altro che lei. Lasciato dunque il Sallustio a tempi più lieti, mi rivolsi a continuar
quella prosa Del principe e delle lettere, da me ideata, e distribuita più anni
prima in Firenze. Ne scrissi allora tutto il primo libro, e due o tre capitoli del
secondo.
Fin dall'estate antecedente, al mio
tornare d'Inghilterra in Siena, io aveva pubblicato il terzo volume delle tragedie, e
mandatolo, come a molti altri valentuomini d'Italia, anche all'egregio Cesarotti,
pregandolo di darmi un qualche lume sovra il mio stile e composizione e condotta. Ne
ricevei in quell'aprile una lettera critica su le tre tragedie del terzo volume, alla
quale risposi allora brevemente, ringraziandolo, e notando le cose che mi pareano da
potersi ribattere; e ripregandolo di indicarmi o darmi egli un qualche modello di verso
tragico. E da notarsi su ciò, che quello stesso Cesarotti, il quale aveva concepiti ed
eseguiti con tanta maestria i sublimi versi dell'Ossian, essendo stato richiesto da
me, quasi due anni prima, di volermi indicare un qualche modello di verso sciolto di
dialogo, egli non si vergognò di parlarmi d'alcune sue traduzioni dal francese, della Semiramide
e del Maometto di Voltaire, stampate già da molti anni; e di tacitamente
propormele per modello. Queste traduzioni del Cesarotti essendo in mano di chiunque le
vorrà leggere, non occorre ch'io aggiunga riflessioni su questo particolare; ognuno se ne
può far giudice e paragonare quei versi tragici con i miei; e paragonarli anche con i
versi epici dello stesso Cesarotti nell'Ossian, e vedere se paíano della stessa
officina. Ma questo fatto servirà pure a dimostrare quanto miserabil cosa siamo noi tutti
uomini, e noi autori massimamente, che sempre abbiam fra le mani e tavolozza e pennello
per dipingere altrui, ma non mai lo specchio per ben rimirarci noi stessi e conoscerci.
Il giornalista di Pisa, dovendo poi dare
o inserire nel suo giornale un giudizio critico su quel mio terzo tomo delle tragedie,
stimò più breve e più facil cosa il trascrivere a dirittura quella lettera del
Cesarotti, con le mie note che le servono di risposta. Io mi trattenni in Pisa sino a
tutto l'agosto di quell'anno 1785; e non vi feci più nulla da quelle prose in poi,
fuorché far ricopiare le dieci tragedie stampate, ed apporvi in margine molte mutazioni,
che allora mi parvero soverchie; ma quando poi venni a ristamparle in Parigi, elle mi vi
parvero più che insufficienti, e bisognò per lo meno quadruplicarle. Nel maggio di
quell'anno godei in Pisa del divertimento del Giuoco del Ponte, spettacolo bellissimo, che
riunisce un non so che di antico e d'eroico. Vi si aggiunse anco un'altra festa bellissima
d'un altro genere, la luminara di tutta la detta città, come si costuma ogni due anni per
la festa di San Ranieri. Queste feste si fecero allora riunitamente, all'occasione della
venuta del re e regina di Napoli in Toscana per visitarvi il gran duca Leopoldo, cognato
del suddetto re. La mia vanaglorietta in quelle feste rimase bastantemente soddisfatta,
essendomi io fatto molto osservare a cagione de' miei be' cavalli inglesi, che vincevano
in mole, bellezza e brio quanti altri mai cavalli vi fossero capitati in codest'occasione.
Ma in mezzo a quel mio fallace e pueril godimento, mi convinsi con sommo dolore ad un
tempo stesso, che nella fetida e morta Italia ella era assai più facil cosa il farsi
additare per via di cavalli, che non per via di tragedie.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi
@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 18 ottobre, 1999