Vittorio Alfieri
La Vita scritta da esso
GIOVINEZZA
Abbraccia circa dieci anni di viaggi, e dissolutezze.
CAPITOLO PRIMO
Primo viaggio. Milano, Firenze, Roma.
La mattina del dì 4 ottobre 1766, con
mio indicibile trasporto, dopo aver tutta notte farneticato in pazzi pensieri senza mai
chiuder occhio, partii per quel tanto sospirato viaggio. Eramo una carrozzata dei quattro
padroni, ch'io individuai, un calesse con due servitori, du' altri a cassetta della nostra
carrozza, ed il mio cameriere a cavallo da corriere. Ma questi non era già quel
vecchiotto datomi a guisa di aio tre anni prima, ché quello lo lasciai a Torino. Era
questo mio nuovo cameriere, un Francesco Elia, stato già quasi vent'anni col mio zio, e
dopo la di lui morte in Sardegna, passato con me. Egli aveva viaggiato col suddetto mio
zio, due volte in Sardegna, ed in Francia, Inghilterra, ed Olanda. Uomo di sagacissimo
ingegno, di un'attivítà non comune, e che valendo egli solo più che tutti i nostri
altri quattro servitori presi a fascio, sarà d'ora in poi l'eroe protagonista della
commedia di questi miei viaggi; di cui egli si trovò immediatamente essere il solo e vero
nocchiero, stante la nostra totale incapacità di tutti noi altri otto, o bambini, o
vecchi rimbambiti.
La prima stazione fu di circa quindici giorni in Milano. Avendo io già visto Genova due
anni prima, ed essendo abituato al bellissimo locale di Torino, la topografia milanese non
mi dovea, né potea piacer niente. Alcune cose che vi sarebbero pur da vedersi, io o non
vidi, o male ed in fretta, e da quell'ignorantissimo e svogliato ch'io era d'ogni utile o
dilettevole arte, E mi ricordo, tra l'altre, che nella Biblioteca Ambrosiana, datomi in
mano dal bibliotecario non so più quale manoscritto autografo del Petrarca, da vero
barbaro Allobrogo, lo buttai là, dicendo che non me n'importava nulla. Anzi, in fondo del
cuore, io ci aveva un certo rancore con codesto Petrarca; perché alcuni anni prima,
quando io era filosofo, essendomi capitato un Petrarca alle mani, l'aveva aperto a caso da
capo, da mezzo, e da piedi, e per tutto lettine, o compitati alcuni pochi versi, in nessun
luogo aveva inteso nulla, né mai raccapezzato il senso; onde l'avea sentenziato, facendo
coro coi francesi e con tutti gli altri ignoranti presuntuosi; e tenendolo per un
seccatore, dicitor di arguzie e freddure, aveva poi cosí ben accolto i suoi preziosissimi
manoscritti.
Del resto, essendo io partito per quel
viaggio d'un anno, senza pigliar meco altri libri che alcuni Viaggi d'Italia, e
questi tutti in lingua francese, io mi avviava sempre più alla total perfezione della mia
già tanto inoltrata barbarie. Coi compagni di viaggio si conversava sempre in francese, e
cosí in alcune case milanesi dove io andava con essi, si parlava pur sempre francese;
onde quel pochin pochino ch'io andava pur pensando e combinando nel mio povero capino, era
pure vestito di cenci francesi; e alcune letteruzze ch'io andava scrivendo, erano in
francese; ed alcune memoriette ridicole ch'io andava schiccherando su questi miei viaggi,
eran pure in francese; e il tutto alla peggio, non sapendo io questa linguaccia se non se
a caso; non mi ricordando più di nessuna regola ove pur mai l'avessi saputa da prima; e
molto meno ancora sapendo l'italiano, raccoglieva così il frutto dovuto della disgrazia
primitiva del nascere in un paese anfibio, e della valente educazione ricevutavi.
Dopo un soggiorno di due settimane in
circa, si partì di Milano. Ma siccome quelle mie sciocche Memorie sul viaggio
furono ben presto poi da me stesso corrette con le debite fiamme, non le rinnoverò io qui
certamente, col particolarizzare oltre il dovere questi miei viaggi puerili, trattandosi
di paesi tanto noti; onde, o nulla o pochissimo dicendo delle diverse città, ch'io,
digiuno di ogni bell'arte, visitai come un Vandalo, anderò parlando di me stesso, poiché
pure questo infelice tema, è quello che ho assunto in quest'opera.
Per la via di Piacenza, Parma, e Modena,
si giunse in pochi giorni a Bologna; né ci arrestammo in Parma che un sol giorno, ed in
Modena poche ore, al solito senza veder nulla, o prestissimo e male quello che ci era da
vedersi. Ed il mio maggiore, anzi il solo piacere ch'io ricavassi dal viaggio, era di
ritrovarmi correndo la posta su le strade maestre, e di farne alcune, e il più che
poteva, a cavallo da corriere. Bologna, e i suoi portici e frati, non mi piacque gran
cosa; dei suoi quadri non ne seppi nulla; e sempre incalzato da una certa impazienza di
luogo, io era lo sprone perpetuo del nostro aio antico, che sempre lo instigava a partire.
Arrivammo a Firenze in fin d'ottobre; e quella fu la prima città, che a luoghi mi
piacque, dopo la partenza di Torino; ma mi piacque pur meno di Genova, che aveva vista due
anni prima. Vi si fece soggiorno per un mese; e là pure, sforzato, dalla fama del luogo,
cominciai a visitare alla peggio la Galleria, e il Palazzo Pitti, e varie chiese; ma il
tutto con molta nausea, senza nessun senso del bello; massime in pittura; gli occhi miei
essendo molto ottusi ai colori; se nulla nulla gustava un po' più era la scoltura, e
l'architettura anche più; forse era in me una reminiscenza del mio ottimo zio,
l'architetto. La tomba di Michelangelo in Santa Croce fu una delle poche cose che mi
fermassero; e su la memoria di quell'uomo di tanta fama feci una qualche riflessione; e
fin da quel punto sentii fortemente, che non riuscivano veramente grandi fra gli uomini,
che quei pochissimi che aveano lasciata alcuna cosa stabile fatta da loro. Ma una tal
riflessione isolata in mezzo a quell'immensa dissipazione di mente nella quale io viveva
continuamente, veniva ad essere per l'appunto come si suol dire, una goccia di acqua nel
mare. Fra le tante mie giovenili storture, di cui mi toccherà di arrossire in eterno, non
annovererò certamente come l'ultima quella di essermi messo in Firenze ad imparare la
lingua inglese, nel breve soggiorno di un mese ch'io vi feci, da un maestruccio inglese
che vi era capitato; in vece di imparare dal vivo esempio dei beati toscani a spiegarmi
almeno senza barbarie nella loro divina lingua, ch'io balbettante stroppiava, ogni qual
volta me ne doveva prevalere. E perciò sfuggiva di parlarla, il più che poteva; stante
che la vergogna di non saperla potea pur qualche cosa in me; ma vi potea pure assai meno
che la infingardaggine del non volerla imparare. Con tutto ciò, io mi ero subito
ripurgata la pronunzia di quel nostro orribile u lombardo, o francese, che sempre
mi era spiaciuto moltissimo, per quella sua magra articolazione, e per quella boccuccia
che fanno le labbra di chi lo pronunzia, somiglianti in quell'atto moltissimo a quella
rísibile smorfia che fanno le scimmie, allorché favellano. E ancora adesso, benché di
codesto u, da cinque e più anni ch'io sto in Francia ne abbia pieni e foderati gli
orecchi, pure egli mi fa ridere ogni volta che ci bado; e massime nella recita teatrale, o
camerale (che qui la recita è perpetua), dove sempre fra questi labbrucci contratti che
paiono sempre soffiare su la minestra bollente, campeggia principalmente la parola nature.
In tal guisa io in Firenze, perdendo il
mio tempo, poco vedendo, e nulla imparando, presto tediandomivi, rispronaí l'antico
nostro mentore, e si partì il dì primo decembre alla volta di Lucca per Prato e Pistoia.
Un giorno in Lucca mi parve un secolo; e subito si ripartì per Pisa. E un giorno in Pisa,
benché molto mi piacesse il Camposanto, mi parve anche lungo. E subito, a Livorno. Questa
città mi piacque assai e perché somigliava alquanto a Torino, e per via del mare,
elemento del quale io non mi saziava mai. Il soggiorno nostro vi fu di otto o dieci
giorni; ed io sempre barbaramente andava balbettando l'inglese, ed avea chiusi e sordi gli
orecchi al toscano. Esaminando poi la ragione di una sì stolta preferenza, ci trovai un
falso amor proprio individuale, che a ciò mi spingeva senza ch'io pure me ne avvedessi.
Avendo per più di due anni vissuto con inglesi; sentendo per tutto magnificare la loro
potenza e ricchezza; vedendone la grande influenza politica; e per l'altra parte vedendo
l'Italia tutta esser morta; gl'italiani, divisi, deboli, avviliti e servi; grandemente mi
vergognava d'essere, e di parere italiano, e nulla delle cose loro non voleva né
praticar, né sapere.
Si partì di Livorno per Siena; e in
quest'ultima città, benché il locale non me ne piacesse gran fatto, pure, tanta è la
forza del bello e del vero, ch'io mi sentii quasiché un vivo raggio che mi rischiarava ad
un tratto la mente, e una dolcissima lusinga agli orecchi e al cuore, nell'udire le più
infime persone così soavemente e con tanta eleganza proprietà e brevità favellare. Con
tutto ciò non vi stetti che un giorno; e il tempo della mia conversione letteraria e
politica era ancora lontano assai; mi bisognava uscire lungamente d'Italia per conoscere
ed apprezzar gli italiani. Partii dunque per Roma, con una palpitazione di cuore quasiché
continua, pochissimo dormendo la notte, e tutto il dì ruminando in me stesso e il San
Pietro, e il Coliseo, ed il Panteon; cose che io aveva tanto udite esaltare; ed anche
farneticava non poco su alcune località della storia romana, la quale (benché senza
ordine e senza esattezza) così presa in grande mi era bastantemente nota ed in mente,
essendo stata la sola istoria ch'io avessi voluto alquanto imparare nella mia prima
gioventù.
Finalmente, ai tanti di decembre
dell'anno 1766 vidi la sospirata Porta del Popolo; e benché l'orridezza e miseria del
paese da Viterbo in poi mi avesse fortemente indisposto, pure quella superba entrata mi
racconsolò, ed appagommi l'occhio moltissimo. Appena eramo discesi alla piazza di Spagna
dove si albergò, subito noi tre giovanotti, lasciato l'aio riposarsi, cominciammo a
correre quel rimanente di giorno, e si visitò alla sfuggita, tra l'altre cose, il
Panteon. I miei compagni si mostravano sul totale più maravigliati di queste cose, di
quel che lo fossi io. Quando poi alcuni anni dopo ebbi veduti i loro paesi, mi son potuto
dare facilmente ragione di quel loro stupore assai maggiore del mio. Vi si stette allora
otto giorni soli, in cui non si fece altro che correre per disbramare quella prima
impaziente curiosità. Io preferiva però molto di tornare fin due volte il giorno a San
Pietro, al veder cose nuove. E noterò, che quell'ammirabile riunione di cose sublimi non
mi colpì alla prima quanto avrei desiderato e creduto, ma successivamente poi la
maraviglia mia andò sempre crescendo; e ciò, a tal segno, ch'io non ne conobbi ed
apprezzai veramente il valore se non molti anni dopo, allorché stanco della misera
magnificenza oltramontana, mi venne fatto di dovermi trattenere in Roma degli anni.
CAPITOLO
SECONDO
Continuazione dei viaggi, liberatomi anche dell'aio.
Incalzavaci frattanto l'imminente
inverno; e più ancora incalzava io il tardissimo aio, perché si partisse per Napoli,
dove s'era fatto disegno di soggiornare per tutto il carnevale. Partimmo dunque coi
vetturini, sì perché allora le strade di Roma a Napoli non erano quasi praticabili, sì
per via del mio cameriere Elia, che a Radicofani essendo caduto sotto il cavallo di posta
si era rotto un braccio, e ricoverato poi nella nostra carrozza avea moltissimo patito
negli strabalzi di essa, venendo così fino a Roma. Molto coraggio e presenza di spirito e
vera fortezza d'animo avea mostrato costui in codesto accidente; poiché rialzatosi da
sé, ripreso il ronzino per le redini, si avviò soletto a piedi sino a Radicofani
distante ancora più d'un miglio. Quivi, fatto cercare un chirurgo, mentre lo stava
aspettando si fece sparare la manica dell'abito, e visitandosi il braccio da sé,
trovatolo rotto, si fece tenere ben saldamente la mano di esso stendendolo quanto più
poteva, e coll'altra, che era la mandritta, se lo riattò sì perfettamente, che il
chirurgo, giunto quasi nel tempo stesso che noi sopraggiungevamo con la carrozza, lo
trovò rassettato a guisa d'arte in maniera che, senza più altrimenti toccarlo, subito lo
fasciò, e in meno d'un'ora noi ripartimmo, collocando il ferito in carrozza, a quale pure
con viso baldo e fortissimo pativa non poco. Giunti ad Acquapendente, si trovò rotto il
timone della carrozza; del che trovandoci noi tutti impicciatissimi, cioè noi tre
ragazzi, il vecchio aio, e gli altri quattro stolidi servitori, quel solo Elia col braccio
al collo, tre ore dopo la rottura, era più in moto, e più efficacemente di noi tutti
adoperavasi per risarcire il timone; e così bene diresse quella provvisoria rappezzatura,
che in meno di du' altre ore si ripartì, e l'infermo timone ci strascinò senz'altro
accidente poi sino a Roma.
Io mi son compiaciuto d'individuare
questo fatto episodico, come tratto caratteristico di un uomo di molto coraggio e gran
presenza di spirito, molto più che al suo umile stato non parea convenirsi. Ed in nessuna
cosa mi compiaccio maggiormente, che nel lodare ed ammirare quelle semplici virtù di
temperamento, che ci debbono pur tanto far piangere sovra i pessimi governi, che le
trascurano, o le temono e le soffocano.
Si arrivò dunque a Napoli la seconda
festa del Natale, con un tempo quasi di primavera. L'entrata da Capo di China per gli
Studi e Toledo, mi presentò quella città in aspetto della più lieta e popolosa ch'io
avessi veduta mai fin allora, e mi rimarrà sempre presente. Non fu poi lo stesso, quando
mi toccò di albergare in una bettolaccia posta nel più buio e sozzo chiassuolo della
città: il che fu di necessità perché ogni pulito albergo ritrovavasi pieno zeppo di
forestieri. Ma questa contrarietà mi amareggiò assai quel soggiorno, stante che in me la
località lieta o no della casa, ha sempre avuto una irresistibile influenza sul mio
puerilissimo cervello, sino alla più inoltrata età.
In pochi giorni per mezzo del nostro
ministro fui introdotto in parecchie case; e il carnovale, sì per gli spettacoli
pubblici, che per le molte private feste e varietà d'oziosi divertimenti, mi riusciva
brillante e piacevole più ch'altro mai ch'io avessi veduto in Torino. Con tutto ciò in
mezzo a quei nuovi e continui tumulti, libero interamente di me, con bastanti danari,
d'età diciott'anni, ed una figura avvenente, io ritrovava per tutto la sazietà, la noia,
il dolore. Il mio più vivo piacere era la musica burletta del Teatro Nuovo; ma sempre
pure quei suoni, ancorché dilettevoli, lasciavano nell'animo mio una lunghissima romba di
malinconia; e mi si venivano destando a centinaia le idee le più funeste e lugubri, nelle
quali mi compiaceva non poco, e me le andava poi ruminando soletto alle sonanti spiagge di
Chiaia e di Portici. Con parecchi giovani signori napoletani avea fatto conoscenza,
amicizia con niuno: la mia natura ritrosa anzi che no mi inibiva di ricercare; e
portandone la viva impronta sul viso, ella inibiva agli altri di ricercar me. Così delle
donne, alle quali per natura era moltissimo inclinato, non mi piacendo se non le modeste,
io non piaceva pure che alle sole sfacciate; il che mi facea rimaner sempre col cuor
vuoto. Oltre ciò, l'ardentissima voglia ch'io sempre nutriva in me di viaggiare oltre i
monti, mi facea sfuggire di allacciarmi in nessuna catena d'amore; e così in quel primo
viaggio uscii salvo da ogni rete. Tutto il giorno io correva in quei divertentissimi
calessetti a veder le cose più lontane; e non per vederle, che di nulla avea curiosità e
di nessuna intendeva, ma per fare la strada, che dell'andare non mi saziava mai, ma
immediatamente mi addolorava lo stare.
Introdotto a corte, benché quel re,
Ferdinando IV, fosse allora in età di quindici, o sedici anni, gli trovai pure una total
somiglianza di contegno con i tre altri sovrani ch'io avea veduti fin allora; ed erano il
mio ottimo re Carlo Emanuele, vecchione; il duca di Modena, governatore in Milano; e il
granduca di Toscana Leopoldo, giovanissimo anch'egli. Onde intesi benissimo fin da quel
punto, che i principi tutti non aveano fra loro che un solo viso, e che le corti tutte non
erano che una sola anticamera. In codesto mio soggiorno di Napoli intavolai il mio secondo
raggiro per mezzo del nostro ministro di Sardegna, per ottenere dalla corte di Torino la
permissione di lasciare il mio aio, e di continuare il mio viaggio da me. Benché noi
giovanotti vivessimo in perfetta armonia, e che l'aio non più a me che ad essi cagionasse
il minimo fastidio, tuttavia siccome per le gite da una all'altra città bisognava pure
combinarci per muovere insieme, e siccome quel vecchio era sempre irresoluto, mutabile, e
indugiatore, quella dipendenza mi urtava. Convenne dunque ch'io mi piegassi a pregare il
ministro di scrivere in mio favore a Torino, e di testimoniare della mia buona condotta e
della intera capacità mia di regolarmi da me stesso, e di viaggiar solo. La cosa mi
riuscì con mia somma soddisfazione, e ne contrassi molta gratitudine col ministro, il
quale avendomi preso anche a ben volere, fu il primo che mi mettesse in capo ch'io dovrei
tirarmi innanzi a studiar la politica per entrare nell'aringo diplomatico. La cosa mi
piacque assai; e mi parve allora, che quella fosse di tutte le servitù la men serva; e ci
rivolsi il pensiero, senza però studiar nulla mai. Limitando il mio desiderio in me
stesso, non l'esternai con chicchessia, e mi contentai di tenere frattanto una condotta
regolare e decente per tutto, superiore forse alla mia età. Ma in questo mi serviva la
natura mia assai più ancora che il volere; essendo io stato sempre grave di costumi e di
modi (senza impostura però), ed ordinato, direi, nello stesso disordine; ed avendo quasi
sempre errato sapendolo.
Io viveva frattanto in tutto e per tutto
ignoto a me stesso; non mi credendo vera capacità per nessuna cosa al mondo; non avendo
nessunissimo impulso deciso, altro che alla continua malinconia, non ritrovando mai pace
né requie, e non sapendo pur mai quello che io mi desiderassi. Obbedendo ciecamente alla
natura mia, con tutto ciò io non la conosceva né studiava per niente; e soltanto molti
anni dopo mi avvidi, che la mia infelicità proveniva soltanto dal bisogno, anzi
necessità ch'era in me di avere ad un tempo stesso il cuore occupato da un degno amore, e
la mente da un qualche nobile lavoro; e ogniqualvolta l'una delle due cose mi mancò, io
rimasi incapace dell'altra, e sazio e infastidito e oltre ogni dire angustiato.
Frattanto, per mettere in uso la mia
nuova indipendenza totale, appena finito il carnovale volli assolutamente partirmene solo
per Roma, atteso che il vecchio, dicendo di aspettar lettere di Fiandra, non fissava
nessun tempo per la partenza dei suoi pupilli. Io, impaziente di lasciar Napoli, di
rivedere Roma; o, per dir vero, impazientissimo di ritrovarmi solo e signore di me in una
strada maestra, lontano trecento e più miglia dalla mia prigione natia; non volli
differire altrimenti, e abbandonai i compagni; ed in ciò feci bene, perché in fatti poi
essi stettero tutto l'aprile in Napoli, e non furono per ciò più in tempo per ritrovarsi
all'Ascensione in Venezia, cosa che a me premeva allora moltissimo.
CAPITOLO TERZO
Proseguimento dei viaggi. Prima mia avarizia.
Giunto a Roma, previo il mio fidato
Elia, azzeccai a piè delle scalere della Trinità de' Monti un grazioso quartierino molto
gaio e pulito, che mi racconsolò della sudiceria di Napoli. Stessa dissipazione, stessa
noia, stessa malinconia, stessa smania di rimettermi in viaggio. E il peggio era,
stessissima ignoranza delle cose le più svergognanti chi le ignora; e maggiore ogni
giorno l'insensibilità per le tante belle e grandiose cose di cui Roma ridonda;
limitandomi a quattro e cinque delle principali che sempre ritornava a vedere. Ogni giorno
poi capitando dal conte di Rivera ministro di Sardegna, degnissimo vecchio, il quale
ancorché sordo non mi veniva per punto a noia, e mi dava degli ottimi e luminosi
consigli; mi accadde un giorno che si trovò da lui su una tavola un bellissimo Virgilio
in folio, aperto spalancato al sesto dell'Eneide. Quel buon vecchio vedendomi
entrare, accennatomi d'accostarmi, cominciò ad intuonare con entusiasmo quei bellissimi
versi per Marcello così rinomati e saputi da tutti Ma io, che quasi più punto non li
intendeva, benché li avessi e spiegati e tradotti e saputi a memoria circa sei anni
prima, mi vergognai sommamente e me ne accorai per tal modo, che per più giorni mi
ruminai il mio obbrobrio in me stesso, e non capitai più dal conte. Con tutto ciò la
ruggine sovra il mio intelletto si andava incrostando sì densa, e tale di giorno in
giorno sempre più diveniva, che assai più tagliente scalpello ci volea che un
passeggiere rincrescimento, a volernela estirpare. Onde passò quella sacrosanta vergogna
senza lasciare in me orma nessuna per allora, e non lessi altrimenti né Virgilio, né
alcun altro buon libro in nessuna lingua, per degli anni parecchi.
In questa mia seconda dimora in Roma fui
introdotto al papa, che era allora Clemente XIII, bel vecchio, e di una veneranda maestà;
la quale, aggiunta alla magnificenza locale del palazzo di Montecavallo, fece sì che non
mi cagionò punto ribrezzo la solita prosternazione e il bacio del piede, benché io
avessi letta la storia ecclesiastica, e sapessi il giusto valore di quel piede.
Per mezzo poi del predetto conte di
Rivera, io intavolai e riuscii il mio terzo raggiro presso la corte paterna di Torino, per
ottenere la permissione di un secondo anno di viaggi in cui destinava di vedere la
Francia, l'Inghilterra e l'Olanda; nomi che mi suonavano maraviglia e diletto nella mia
giovinezza inesperta. E anche questo terzo raggiretto mi riuscì, onde, ottenuto
quell'anno più, per tutto il 1768 in circa io mi trovava in piena libertà e certezza di
poter correre il mondo. Ma nacque allora una piccola difficoltà, la quale mi contristò
lungamente. Il mio curatore, col quale non si era mai entrato in conti, e che non mi avea
mai fatto vedere in chiaro con esattezza quello ch'io m'avessi d'entrata; dandomi parole
diverse ed ambigue, ed ora accordandomi danari, ora no; mi scrisse in quell'occasione
dell'ottenuta permissione, che pel second'anno mi avrebbe somministrata una credenziale di
millecinquecento zecchini, non me ne avendo dati che soli milleduecento pel primo viaggio.
Questa sua intimazione mi sbigottì assai, senza però scoraggirmi. Udendo io sempre
mentovare la gran carezza dei paesi oltramontani, mi riusciva assai dura cosa di dovermi
trovare sprovvisto, e di esservi costretto a far delle triste figure. Per altra parte poi,
io non mi arrischiava di scrivere di buon inchiostro allo stitico curatore, perché a quel
modo l'avrei subito avuto contrario; e m'avrebbe intuonato la parola Re, la quale in
Torino nei più interni affari domestici si suole sempre intrudere, fra il ceto dei
nobili; e gli sarebbe stato facilissimo di divolgarmi per discolo e scialacquatore, e di
farmi come tale richiamar subito in patria. Non feci dunque nessuna querela col curatore,
ma presi in me la risoluzione di risparmiare quanti più danari potrei in quel primo
viaggio dai milleduecento zecchini già assegnatimi, per così accrescere quanto più
potrei ai millecinquecento da esigersi, e che mi pareano scarsissimi per un anno di viaggi
oltramontani. In questo modo io per la prima volta, da un giusto e piuttosto largo
spendere, ristrettomi alla meschinità, provai un doloroso accesso di sordida avarizia. Ed
andò questa tant'oltre che non solo non andava più a visitare nessuna delle curiosità
di Roma per non dare le mancie, ma anche al mio fidato e diletto Elia, procrastinandolo
d'un giorno in un altro, io venni a negargli i danari del suo salario e vitto, a segno
ch'egli mi si protestò ch'io lo sforzerei a rubarmeli per campare. Allora, di mal animo,
glie li diedi.
Rimpicciolito così di mente e di cuore,
partii verso i primi di maggio alla volta di Venezia; e la mia meschinità mi fece
prendere il vetturino, ancorché io abborrissi quel passo mulare: ma pure il divario tra
la posta e la vettura essendosi grande, io mi vi sottoposi, e mi avviai bestemmiando. Io
lasciava nel calesse Elia col servitore, e me n'andava cavalcando un umile ronzino, che ad
ogni terzo passo inciampava; onde io faceva quasi tutta la strada a piedi, conteggiando
così sotto voce e su le dita della mano quanto mi costerebbero quei dieci o dodici giorni
di viaggio; quanto, un mese di soggiorno in Venezia; quanto sarebbe il risparmio all'uscir
d'Italia, e quanto questa cosa, e quanto quell'altra; e mi logorava il cuore e il cervello
in cotali sudicerie.
Il vetturino era patteggiato da me sino a
Bologna per la via di Loreto; ma giunto con tanta noia e strettezza d'animo in Loreto, non
potei più star saldo all'avarizia e alla mula, e non volli più continuare di quel
mortifero passo. E qui la nascente gelata avarizia rimase vinta e sbeffata dalla bollente
indole e dalla giovanile insofferenza. Onde, fatto a dirittura un grosso sbilancio,
sborsai al vetturino quasi che tutto il pattuito importare di tutto il viaggio di Roma a
Bologna, e piantatolo in Loreto, me ne partii per le poste tutto riavutomi; e l'avarizia
diventò d'allora in poi un giusto ordine, ma senza spilorceria.
Bologna non mi piacque nulla più, anzi
meno al ritorno che non mi fosse piaciuta all'andare; Loreto non mi compunse di divozione
nessuna; e non sospirando altro che Venezia, della quale avea udito tante maraviglie già
fin da ragazzo, dopo un solo giorno di stazione in Bologna, proseguii per Ferrara. Passai
anche questa città senza pur ricordarmi, ch'ella era la patria e la tomba di quel divino
Ariosto di cui pure avea letto in parte il poema con infinito piacere, e i di cui versi
erano stati i primi primissimi che mi fossero capitati alle mani. Ma il mio povero
intelletto dormiva allora di un sordidissimo sonno, e ogni giorno più s'irruginiva quanto
alle lettere. Vero è però, che quanto alla scienza del mondo e degli uomini, io andava
acquistando non poco ogni giorno senza avvedermene, stante la gran quantità di continui e
diversi quadri morali che mi venivan visti e osservati giornalmente.
Al ponte di Lagoscuro m'imbarcai su la
barca corriera di Venezia; e mi vi trovai in compagnia d'alcune ballerine di teatro, di
cui una era bellissima; ma questo non mi alleggerì punto la noia di quell'imbarcazione,
che durò due giorni e una notte, sino a Chiozza, atteso che codeste ninfe faceano le
Susanne, e che io non ho mai tollerato la simulata virtù.
Ed eccomi finalmente in Venezia. Nei primi giorni l'inusitata località mi riempì di
maraviglia e diletto e me ne piacque perfino il gergo, forse perché dalle commedie del
Goldoni ne avea sin da ragazzo contratta una certa assuefazíone d'orecchio; ed in fatti
quel dialetto è grazioso, e manca soltanto di maestà. La folla dei forestieri, la
quantità dei teatri, ed i molti divertimenti e feste che, oltre le solite farsi per ogni
fiera dell'Ascensa, si davano in quell'anno a contemplazione del duca di Wirtemberg, e tra
l'altre la sontuosa regata, mi fecero trattenere in Venezia sino a mezzo giugno, ma non mi
tennero perciò divertito. La solita malinconia, la noia, e l'insofferenza dello stare,
ricominciavano a darmi i loro aspri morsi tosto che la novità degli oggetti trovavasi
ammorzata. Passai più giorni in Venezia solissimo senza uscir di casa; e senza pure far
nulla che stare alla finestra, di dove andava facendo dei segnuzzi, e qualche breve
dialoghetto con una signorina che mi abitava di faccia; e il rimanente del giorno
lunghissimo, me lo passava o dormicchiando, o ruminando non saprei che, o il più spesso
anche piangendo, né so di che; senza mai trovar pace, né investigare né dubitarmi pure
della cagione che me la intorbidava o toglieva. Molti anni dopo, osservandomi un poco
meglio, mi convinsi poi che questo era in me un accesso periodico d'ogni anno nella
primavera, alle volte in aprile, alle volte anche sino a tutto giugno; e più o meno
durevole e da me sentito, secondo che il cuore e la mente si combinavano essere allora
più o meno vuoti e d oziosi. Nell'istesso modo ho osservato poi, paragonando il mio
intelletto ad un eccellente barometro, che io mi trovava avere ingegno e capacità al
comporre più o meno, secondo il più o men peso dell'aria; ed una totale stupidità nei
gran venti solstiziali ed equinoziali; e una infinitamente minore perspicacità la sera
che la mattina; e assai più fantasia, entusiasmo, e attitudine all'inventare nel sommo
inverno e nella somma state che non nelle stagioni di mezzo. Questa mia materialità, che
credo pure in gran parte essere comune un po' più un po' meno a tutti gli uomini di fibra
sottile, mi ha poi col tempo scemato e annullato ogni orgoglio del poco bene ch'io forse
andava alle volte operando, come anche mi ha in gran parte diminuito la vergogna del tanto
più male che avrò certamente fatto, e massime nell'arte mia; essendomi pienamente
convinto che non era quasi in me il potere in quei dati tempi fare altrimenti.
CAPITOLO QUARTO
Fine del viaggio d'Italia, e mio primo arrivo a Parigi.
Riuscitomi dunque il soggiorno in
Venezia sul totale anzi noioso che no; ed essendo perpetuamente incalzato dalla smania del
futuro viaggio d'oltramonti, non ne cavai neppure il minimo frutto. Non visitai neppure la
decima parte delle tante maraviglie, sì di pittura che d'architettura e scoltura, riunite
tutte in Venezia; basti dire con mio infinito rossore, che né pure l'Arsenale. Non presi
nessunissima notizia, anco delle più alla grossa, su quel governo che in ogni cosa
differisce da ogni altro; e che, se non buono, dee riputarsi almen raro, poiché pure per
tanti secoli ha sussistito con tanto lustro, prosperità, e quiete. Ma io, digiuno sempre
d'ogni bell'arte turpemente vegetava, e non altro. Finalmente partii di Venezia al solito
con mille volte assai maggior gusto che non c'era arrivato. Giunto a Padova, ella mi
spiacque molto; non vi conobbi nessuno dei tanti professori di vaglia, i quali desiderai
poi di conoscere molti anni dopo; anzi, allora al solo nome di professori, di studio, e di
Università, io mi sentiva rabbrividire. Non mi ricordai (anzi neppur lo sapeva) che poche
miglia distante da Padova giacessero le ossa del nostro gran luminare secondo, il
Petrarca; e che m'importava egli di lui, io che mai non l'avea né letto, né inteso, né
sentito, ma appena appena preso fra le mani talvolta, e non v'intendendo nulla buttatolo?
Perpetuamente così spronato e incalzato dalla noia e dall'ozio, passai Vicenza, Verona,
Mantova, Milano, e in fretta in furia mi ridussi in Genova, città che da me veduta alla
sfuggita qualch'anni prima, mi avea lasciato un certo desiderio di sé. Io avea delle
lettere di raccomandazione in quasi tutte le suddette città, ma per lo più non le
ricapitava, o se pur lo faceva, il mio solito era di non mi lasciar più vedere; fuorché
quelle persone non mi venissero insistentemente a cercare; il che non accadea quasi mai, e
non doveva in fatti accadere. Questa sì fatta selvatichezza era in me occasionata in
parte da fierezza e inflessibilità d'ineducato carattere, in parte da una renitenza
naturale e quasi invincibile al veder visi nuovi. Ed era pur cosa impossibile davvero di
andar sempre cangiando paese senza che mi si cangiassero le persone. Avrei voluto per la
parte del cuore convivere sempre con la stessa gente; ma sempre in luogo diverso.
In Genova dunque, non vi essendo allora
il ministro di Sardegna, e non conoscendovi altri che il mio banchiere, non tardai anche
molto a tediarmi; e già aveva fissato di partirne verso il fine di giugno, allorché un
giorno quel banchiere, uomo di mondo e di garbo, venutomi a visitare, e trovatomi così
solitario, selvatico, e malinconico, volle sapere come io passassi il mio tempo; e
vedendomi senza libri, senza conoscenze, senza occupazione altra che di stare al balcone,
e correre tutto il giorno per le vie di Genova, o di passeggiare pel fido in barchetta,
gli prese forse una certa compassione di me e della mia giovinezza, e volle assolutamente
portarmi da un cavaliere suo amico. Questi era il signor Carlo Negroni, che avea passata
gran parte della sua vita in Parigi, e che vedendomi cotanto invogliato di andarvi, me ne
disse quel vero e schietto, al quale non prestai fede se non se alcuni mesi dopo, tosto
che vi fui arrivato. Frattanto quel garbato signore mi introdusse in parecchie case delle
primarie; e all'occasione del famoso banchetto che si suol dare dal doge nuovo, egli mi
servì d'introduttore e compagno. E là fui quasi sul punto d'innamorarmi d'una gentil
signora, la quale mi si mostrava bastantemente benigna. Ma per altra parte smaniando io di
correre il mondo e di abbandonar l'Italia, Amore non poté per quella volta afferrarmi, ma
me la serbò per non molto dopo.
Partito finalmente per mare in una
feluchetta alla volta di Antibo, pareva a me d'andare all'Indie. Non mi era mai scostato
da terra più che poche miglia nelle mie passeggiate marittime; ma allora, alzatosi un
venticello favorevole, si prese il largo; successivamente poi rinforzò tanto il vento,
che fattosi pericoloso fummo costretti di pigliar porto in Savona; e soggiornarvi due dì
per aspettare buon tempo. Questo ritardo mi noiò ed afflisse moltissimo; e non uscii mai
di casa, neppure per visitare quella famosissima Madonna di Savona. Io non voleva più
assolutamente vedere né sentir nulla dell'Italia; onde ogni istante di più che mi ci
dovea trattenere, mi pareva una dura difalcazione dai tanti diletti che mi aspettavano in
Francia. Frutto in me di una sregolata fantasia, che tutti i beni e tutti i mali
m'ingrandiva sempre oltremodo, prima di provarli; talché poi gli uni e gli altri, e
principalmente i beni, all'atto pratico poi non mi parevano nulla.
Giunto pure una volta in Antibo, e
sbarcatovi, parea che tutto mi racconsolasse l'udire altra lingua, il vedere altri usi,
altro fabbricato, altre faccie; e benché tutto fosse piuttosto diverso in peggio che in
meglio, pure mi dilettava quella piccola varietà. Tosto ripartii per Tolone; e appena in
Tolone, volli ripartir per Marsiglia, non avendo visto nulla in Tolone, città la cui
faccia mi dispiacque moltissimo. Non così di Marsiglia, il cui ridente aspetto, le nuove,
ben diritte e pulite vie, il bel corso, il bel porto, e le leggiadre e proterve donzelle,
mi piacquero sommamente alla prima; e subito mi determinai di starvi un mesetto, per
lasciare sfogare anche gli eccessivi calori del luglio, poco opportuni al viaggiare. Nel
mio albergo v'era giornalmente tavola rotonda, onde io trovandomi aver compagnia a pranzo
e cena, senza essere costretto di parlare (cosa che sempre mi costò qualche sforzo, sendo
di taciturna natura), io passava con soddisfazione le altre ore del giorno da me. E la mia
taciturnità, di cui era anche in parte cagione una certa timidità che non ho mai vinta
del tutto in appresso, si andava anche raddoppiando a quella tavola, attesa la costante
garrulità dei francesi, i quali vi si trovavano di ogni specie; ma i più erano
ufficiali, o negozianti. Con nessuno però di essi né amicizia contrassi né
famigliarità, non essendo io in ciò mai stato di natura liberale né facile. Io li stava
bensì ascoltando volentieri, benché non v'imparassi nulla; ma lo ascoltare è una cosa
che non mi ha costato mai pena, anche i più sciocchi discorsi, dai quali si apprende
tutto quello che non va detto.
Una delle ragioni che mi aveano fatto
desiderare maggiormente la Francia, si era di poterne seguitatamente godere il teatro. Io
aveva veduto due anni prima in Torino una compagnia di comici francesi, e per tutta
un'estate l'aveva assiduamente praticata; onde molte delle principali tragedie, e quasi
tutte le più celebri commedie, mi erano note. Io debbo però dire pel vero, che sì in
Torino che in Francia; sì in quel primo viaggio, come nel secondo fattovi due anni e più
dopo; non mi cadde mai nell'animo, né in pensiero pure, ch'io volessi o potessi mai
scrivere delle composizioni teatrali. Onde io ascoltava le altrui con attenzione sì, ma
senza intenzione nessuna; e, ch'è più, senza sentirmi nessunissimo impulso al creare;
anzi sul totale mi divertiva assai più la commedia, di quello che mi toccasse la
tragedia, ancorché per natura mia fossi tanto più inclinato al pianto che al riso.
Riflettendovi poi in appresso, mi parve che l'una delle principali ragioni di questa mia
indifferenza per la tragedia, nascesse dall'esservi in quasi tutte le tragedie francesi
delle scene intere, e spesso anche degli atti, che dando luogo a personaggi secondari mi
raffreddavano la mente ed il cuore assaissimo, allungando senza bisogno d'azione, o per
meglio dire interrompendola. Vi si aggiungeva poi, che l'orecchio mio, ancorché io non
volessi essere italiano, pur mi serviva ottimamente malgrado mio, e mi avvertiva della
noiosa e insulsa uniformità di quel verseggiare a pariglia a pariglia di rime, e i versi
a mezzi a mezzi, con tanta trivialità di modi, e sì spiacevole nasalità di suoni; onde,
senza ch'io sapessi pur dire il perché, essendo quegli attori eccellenti rispetto ai
nostri iniquissimi; essendo le cose da essi recitate per lo più ottime quanto
all'affetto, alla condotta, e ai pensieri; io con tutto ciò vi andava provando una
freddezza di tempo in tempo, che mi lasciava mal soddisfatto. Le tragedie che mi andavano
più a genio, erano la Fedra, l'Alzira, il Maometto, e poche altre.
Oltre il teatro, era anche uno de' miei
divertimenti in Marsiglia il bagnarmi quasi ogni sera nel mare. Mi era venuto trovato un
luoghetto graziosissimo ad una certa punta di terra posta a man dritta fuori del porto,
dove sedendomi su la rena con le spalle addossate a uno scoglio ben altetto che mi
toglieva ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me non vedeva altro che
mare e cielo; e cosí fra quelle due immensità abbellite anche molto dai raggi del sole
che si tuffava nell'onde, io mi passava un'ora di delizie fantasticando; e quivi avrei
composto molte poesie, se io avessi saputo scrivere o in rima o in prosa in una lingua
qual che si fosse.
Ma tediatomi pure anche del soggiorno di
Marsiglia, perché ogni cosa presto tedia gli oziosi; ed incalzato ferocemente dalla
frenesia di Parigi; partii verso il 10 d'agosto, e più come fuggitivo che come
viaggiatore, andai notte e giorno senza posarmi sino a Lione. Non Aix col suo magnifico e
ridente passeggio; non Avignone, già sede papale, e tomba della celebra Laura; non
Valchiusa, stanza già sì gran tempo del nostro divino Petrarca; nulla mi potea
distornare dall'andar dritto a guisa di saetta in verso Parigi. In Lione la stanchezza mi
fece trattenere due notti e un giorno; e ripartitone con lo stesso furore, in meno di tre
giorni per la via della Borgogna mi condussi in Parigi.
CAPITOLO QUINTO
Primo soggiorno in Parigi.
Era, non ben mi ricordo il dì quanti
di agosto, ma fra il 15, e il 20, una mattinata nubilosa fredda e piovosa; io lasciava
quel bellissimo cielo di Provenza e d'Italia, e non era mai capitato fra sì fatte sudicie
nebbie, massimamente in agosto; onde l'entrare in Parigi pel sobborgo miserrimo di San
Marcello, e il progredire poi quasi in un fetido fangoso sepolcro nel sobborgo di San
Germano, dove andava ad albergo, mi serrò sì fortemente il cuore, ch'io non mi ricordo
di aver provato in vita mia per cagione sì piccola una più dolorosa impressione. Tanto
affrettarmi, tanto anelare, tante pazze illusioni di accesa fantasia, per poi inabissarmi
in quella fetente cloaca. Nello scendere all'albergo, già mi trovava pienamente
disingannato; e se non era la stanchezza somma, e la non picciola vergogna che me ne
sarebbe ridondata, io immediatamente sarei ripartito. Nell'andar poi successivamente
dattorno per tutto Parigi, sempre più mi andai confermando nel mio disinganno. L'umiltà
e barbarie del fabbricato; la risibile pompa meschina delle poche case che pretendono a
palazzi; il sudiciume e goticismo delle chiese; la vandalica struttura dei teatri
d'allora; e i tanti e tanti e tanti oggetti spiacevoli che tutto dì mi cadeano
sott'occhio, oltre il più amaro di tutti, le pessimamente architettate faccie impiastrate
delle bruttissime donne; queste cose tutte non mi venivano poi abbastanza rattemperate
dalla bellezza dei tanti giardini, dall'eleganza e frequenza degli stupendi passeggi
pubblici, dal buon gusto e numero infinito di bei cocchi, dalla sublime facciata del
Louvre, dagli innumerabili e quasi tutti buoni spettacoli, e da altre sì fatte cose.
Continuava intanto con incredibile
ostinazione il mal tempo, a segno che da quindici e più giorni d'agosto ch'io aveva
passati in Parigi, non ne aveva ancora salutato il sole. Ed i miei giudizi morali, più
assai poetici che filosofici, si risentivano sempre non poco dell'influenza
dell'atmosfera. Quella prima impressione di Parigi mi si scolpì sì fortemente nel capo,
che ancora adesso (cioè ventitré anni dopo) ella mi dura negli occhi e nella fantasia,
ancorché in molte parti la ragione in me la combatta e condanni.
La corte stava in Compiegne, e ci si
dovea trattenere per tutto il settembre; onde non essendo allora in Parigi l'ambasciatore
di Sardegna per cui aveva delle lettere, io non vi conosceva anima al mondo, altri che
alcuni forestieri già da me incontrati e trattati in diverse città d'Italia. E questi
neppure conosceano nessuna onesta persona in Parigi. Dunque così passava io il mio tempo
fra i passeggi, i teatri, le ragazze di mondo, e il dolore quasi che continuo: e così
durai sino al fin di novembre, tempo in cui da Fontainebleau si restituì l'ambasciatore a
dimora in Parigi. Introdotto io allora da esso in varie case, principalmente degli altri
ministri esteri, dall'ambasciatore di Spagna dove c'era un faraoncino, mi posi per la
prima volta a giuocare. Ma senza notabile perdita né vincita mai, ben presto mi tediai
anche del giuoco, come d'ogni altro mio passatempo in Parigi; onde mi determinai di
partirne in gennaio per Londra; stufo di Parigi, di cui non conoscea pure altro che le
strade; e sul totale già molto raffreddato nella smania di veder cose nuove; tutte sempre
trovandole di gran lunga inferiori, non che agli enti immaginari ch'io mi era andati
creando nella fantasia, ma agli stessi oggetti reali già da me veduti nei diversi luoghi
d'Italia; talché in Londra poi terminai d'imparare a ben conoscere e prezzare e Napoli, e
Roma, e Venezia, e Firenze.
Prima ch'io partissi per Londra, avendomi
proposto l'ambasciatore di presentarmi a corte in Versailles, io accettai per una certa
curiosità di vedere una corte maggiore delle già vedute da me sin allora, benché fossi
pienamente disingannato su tutte. Ci fui pel capo d'anno del 1768, giorno anche più
curioso attese le varie, funzioni che vi si praticano. Ancorché io fossi prevenuto che il
re non parlava ai forestieri comuni, e che certo poco m'importasse di una tal privazione,
con tutto ciò non potei inghiottire il contegno giovesco di quel regnante, Luigi XV, il
quale squadrando l'uomo presentatogli da capo a piedi, non dava segno di riceverne
impressione nessuna; mentre se ad un gigante si dicesse: " Ecco ch'io gli presento
una formica ": egli pure guardandola, o sorriderebbe, o direbbe forse: " Oh che
piccolo animaluzzo! "; o se anche il tacesse, lo direbbe il di lui viso per esso. Ma
quella negativa di sprezzo non mi afflisse poi più allorquando, pochi momenti dopo, vidi
che il re andava spendendo la stessa moneta delle sue occhiate sopra degli oggetti tanto
più importanti che non m'era io. Fatta una breve preghiera fra due suoi prelati, di cui
l'uno, se ben ricordo, era cardinale, il re si avviò per andare alla cappella, e fra due
porte gli si fece incontro il preposto della Mercanzia, primo uffiziale della
Municipalità di Parigi, e gli balbettò un complimentuccio d'uso pel capo d'anno. Il
taciturno sire gli rispose con un'alzata di testa: e rivoltosi ad uno de' suoi cortigiani
che lo seguivano, domandò dove fossero rimasti les echevins, che sono i consueti
accoliti del suddetto preposto. Allora una voce cortigianesca uscita così a mezzo dalla
turba di essi, facetamente disse: Ils sont restés embourbés. Rise tutta la corte,
e lo stesso monarca sorrise, e passò oltre verso la messa che lo aspettava. La incostante
fortuna poi volle, che in poco più di vent'anni io vedessi in Parigi nel Palazzo della
Citta un altro Luigi re ricevere assai più benignamente un altro assai diverso
complimento fattogli da altro preposto sotto il titolo di maire, il dì 17 luglio
1789: ed erano allora rimasti embourbés i cortigiani nel venir di Versailles a
Parigi, benché fosse di fitta estate; ma il fango su quella strada era fino a quel punto
fatto perenne. E di aver visto tal cosa ne loderei forse Dio, se non temessi, e credessi
pur troppo, che gli effetti e influenza di questi re plebei siano per essere ancor più
funestí alla Francia ed al mondo, che quelli dei re capetini.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi
@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 16 ottobre, 1999