Vittorio Alfieri
La Vita scritta da esso
CAPITOLO SESTO
Debolezza della mia complessione; infermità continue;
ed incapacità d'ogni esercizio, e massimamente del ballo, e perché.
Passò in questo modo anche quell'anno
della fisica; ed in quell'estate il mio zio essendo stato nominato viceré in Sardegna, si
dispose ad andarvi. Partito egli dunque nel settembre, e lasciatomi raccomandato agli
altri pochi parenti, od agnati ch'io aveva in Torino, quanto ai miei interessi pecuniari
rinunziò, o accomunò la tutela con un cavaliere suo amico; onde in allora incominciai
subito ad essere un poco più allargato nella facoltà di spendere, ed ebbi per la prima
volta una piccola mensualità fissatami dal nuovo tutore; cosa, alla quale lo zio non avea
voluto mai consentire; e che mi pareva, ed anche ora mi pare, sragionevolissima. Forse vi
si opponeva quel servo Andrea, al quale spendendo egli per conto mio (e suo, credo, ad un
tempo) tornava più comodo di far delle note, e di tenermi così in maggiore dipendenza di
lui. Aveva codesto Andrea veramente l'animo di un principe, quali ne vediamo ai nostri
tempi non pochi, illustri anche quant'egli. Nel finire dell'anno '62, essendo io passato
allo studio del diritto civile, e canonico; corso, che in quattr'anní conduce poi lo
scolare all'apice della gloria, alla laurea avvocatesca; dopo alcune settimane legali,
ricaddi nella stessa malattia già avuta due anni prima, quello scoppio universale di
tutta la pelle del cranio; e fu il doppio dell'altra volta, tanto la mia povera testa era
insofferente di fare in sé conserva di definizioni, digesti, e simili apparati dell'uno e
dell'altro gius, né saprei meglio assimilare lo stato fisico esterno di quel mio
capo, che alla terra quando riarsa dal sole si screpola per tutti i versi, aspettando la
benefica pioggia che la rimargini. Ma dal mio screpolìo usciva in copia un umore viscoso
a tal segno, che questa volta non fu possibile ch'io salvassi i capelli dalle odiose
forfici; e dopo un mese uscii di quella sconcia malattia tosato ed imparruccato.
Quest'accidente fu uno dei più dolorosi ch'io provassi in vita mia; sì per la privazione
dei capelli, che pel funesto acquisto di quella parrucca, divenuta immediatamente lo
scherno di tutti i compagni petulantissimi. Da prima io m'era messo a pigliarne
apertamente le parti; ma vedendo poi ch'io non poteva a nessun patto salvar la parrucca
mia da quello sfrenato torrente che da ogni parte assaltavala, e ch'io andava a rischio di
perdere anche con essa me stesso, tosto mutai di bandiera, e presi il partito il più
disinvolto, che era di sparruccarmi da me prima che mi venisse fatto quell'affronto, e di
palleggiare io stesso la mia infelice parrucca per l'aria, facendone ogni vituperio. Ed in
fatti, dopo alcuni giorni, sfogatasi l'ira pubblica in tal guisa, io rimasi poi la meno
perseguitata, e direi quasi la più rispettata parrucca, fra le due o tre altre che ve
n'erano in quella stessa galleria. Allora imparai, che bisognava sempre parere di dare
spontaneamente, quello che non si potea impedire d'esserti tolto.
In quell'anno mi erano anche stati
accordati altri maestri; di cimbalo, e di geografia. E questa, andandomi molto a genio
quel balocco della sfera e delle carte, l'aveva imparata piuttosto bene, e mista un
pocolino alla storia, e massimamente all'antica. Il maestro, che me l'insegnava in
francese, essendo egli della Val d'Aosta, mi andava anche prestando vari libri francesi,
ch'io cominciava anche ad intendere alquanto; e tra gli altri ebbi il Gil Blas, che
mi rapì veramente e fu questo il primo libro ch'io leggessi tutto di seguito dopo l'Eneide
del Caro; e mi diverti assai più. Da allora in poi caddi nei romanzi, e ne lessi molti,
come Cassandre, Almachilde, ecc.; ed i più tetri e più teneri mi facevano
maggior forza e diletto. Tra gli altri poi, Les mémoires d'un homme de qualité,
ch'io rilessi almen dieci volte. Quanto al cimbalo poi, benché io avessi una passione
smisurata per la musica, e non fossi privo di disposizioni naturali, con tutto ciò non vi
feci quasi nessun progresso, fuorché di essermi sveltita molto la mano su la tastiera. Ma
la musica scritta non mi voleva entrare in capo; tutto era orecchia in me, e memoria, e
non altro. Attribuisco altresì la cagione di quella mia ignoranza invincibile nelle note
musicali, all'inopportunità dell'ora in cui prendeva lezione, immediatamente dopo il
pranzo; tempo, che in ogni epoca della mia vita ho sempre palpabilmente visto essermi
espressamente contrario ad ogni qualunque anche minima operazione della mente, ed anche
alla semplice applicazione degli occhi su qualunque carta od oggetto. Talché quelle note
musicali e le lor cinque righe così fitte e parallele mi traballavano davanti alle
pupille, ed io dopo quell'ora di lezione mi alzava dal cimbalo che non ci vedeva più, e
rimaneva ammalato e stupido per tutto il rimanente del giorno.
Le scuole parimente della scherma e del
ballo, mi riuscivano infruttuosissime; quella, perché io era assolutamente troppo debole
per poter reggere allo stare in guardia, e a tutte le attitudini di codest'arte; ed era
anche il dopo pranzo, e spesso usciva dal cimbalo e dava di piglio alla spada; il ballo
poi, perché io per natura lo abborriva, e vi si aggiungeva per più contrarietà il
maestro, francese, nuovamente venuto di Parigi, che con una cert'aria civilmente scortese,
e la caricatura perpetua dei suoi moti e discorsi, mi quadruplicava l'abborrimento innato
ch'era in me per codest'arte burattinesca. E la cosa andò a segno, ch'io dopo alcuni mesi
abbandonai affatto la lezione; e non ho mai saputo ballare neppure un mezzo minué;
questa sola parola mi ha sempre fin d'allora fatto ridere e fremere ad un tempo; che son i
due effetti che mi hanno fatto poi sempre in appresso i francesi, e tutte le cose loro,
che altro non sono che un perpetuo e spesso mal ballato minué. Io attribuisco in
gran parte a codesto maestro di ballo quel sentimento disfavorevole, e forse anche un poco
esagerato, che mi è rimasto nell'intimo del cuore, su la nazion francese, che pure ha
anche delle piacevoli e ricercabili qualità. Ma le prime impressioni in quell'età tenera
radicate, non si scancellano mai più, e difficilmente s'indeboliscono, crescendo gli
anni; la ragione le va poi combattendo, ma bisogna sempre combattere per giudicare
spassionatamente, e forse non ci si arriva. Due altre cose parimente ritrovo,
raccapezzando così le mie idee primitive, che m'hanno persin da ragazzo fatto essere
antigallo: l'una è, che essendo io ancora in Asti nella casa paterna, prima che mia madre
passasse alle terze nozze, passò di quella città la duchessa di Parma, francese di
nascita, la quale o andava o veniva di Parigi. Quella carrozzata di lei e delle sue dame e
donne, tutte impiastrate di quel rossaccio che usavano allora esclusivamente le francesi,
cosa ch'io non avea vista mai, mi colpì singolarmente la fantasia, e ne parlai per più
anni, non potendomi persuadere dell'intenzione né dell'affetto di un ornamento così
bizzarro, e ridicolo, e contro la natura delle cose; poiché quando, o per malattia, o per
briachezza, o per altra cagione, un viso umano dà in codesto sconcio rossore, tutti se lo
nascondono potendo, o mostrandolo fanno ridere o si fan compatire. Codesti ceffi francesi
mi lasciarono una lunga e profonda impressione di spiacevolezza, e di ribrezzo per la
parte femminina di quella nazione. L'altro ramo di disprezzo che germogliava in me per
costoro, era nato, che imparando poi la geografia tanti anni dopo, e vedendo su la carta
quella grandissima differenza di vastità e di popolazione che passava tra l'Inghilterra,
o la Prussia e la Francia, e sentendo poi sempre dire dalle nuove di guerra, che i
francesi erano battuti e per mare e per terra, aggiuntevi poi quelle prime notizie avute
sin dall'infanzia, che i francesi erano stati padroni della città d'Asti più volte; e
che in ultimo vi erano poi stati fatti prigionieri in numero di sei, o sette mila e più,
presi come dei vigliacchi senza far punto difesa, essendovisi portati, al solito, così
arrogantemente e tirannicamente prima di esserne scacciati, queste diverse particolarità,
riunite poi tutte, e poste sul viso di quel mio maestro di ballo, della di cui caricatura
e ridicolezza parlai già sopra, mi lasciarono poi sempre in appresso nel cuore quel misto
di abborrimento e disprezzo per quella nazione fastidiosa. E certamente, chi ricercasse
poi in sé stesso maturo le cagioni radicali degli odi od amori diversi per gl'individui o
per i corpi collettizi, o per i diversi popoli, ritroverebbe forse nella sua più acerba
età i primi leggerissimi semi di tali affetti; e non molto maggiori, né diversi da
questi ch'io ho di me stesso allegati. Oh, picciola cosa è pur l'uomo!
CAPITOLO
SETTIMO
Morte dello zio paterno. Liberazione mia prima.
Ingresso nel Primo Appartamento dell'Accademia.
Lo zio, dopo dieci mesi di soggiorno
in Cagliari, vi morì. Egli era di circa sessanta anni, ma di salute assai malandato, e
sempre mi diceva prima di questa sua partenza per la Sardegna, che io non l'avrei più
riveduto. Il mio affetto per lui era tiepidissima cosa; atteso che io di radissimo lo avea
veduto, e sempre mostratomisi severo, e duretto, ma non però mai ingiusto. Egli era un
uomo stimabile per la sua rettitudine, e coraggio; avea militato con distinzione; aveva un
carattere scolpito e fortissimo, e le qualità necessarie al ben comandare. Ebbe anche
fama di molto ingegno, alquanto però soffocato da una erudizione disordinata, copiosa e
loquacissima, spettante la storia sì moderna che antica. Io non fui dunque molto afflitto
di questa morte lontana dagli occhi, e già preveduta da tutti gli amici suoi, e mediante
la quale io acquistava quasi pienamente la mia libertà, con tutto il sufficiente
patrimonio paterno accresciuto anche dall'eredità non piccola di questo zio. Le leggi del
Piemonte all'età dei quattordici anni liberano il pupillo dalla tutela, e lo sottopongono
soltanto al curatore, che lasciandolo padrone dell'entrate sue annuali, non gli può
impedire legalmente altra cosa che l'alienazione degli stabili. Questo nuovo mio stato di
padrone del mio in età di quattordici anni, mi innalzò dunque molto le corna, e mi fece
con la fantasia spaziare assai per il vano. In quel frattempo mi era anche stato tolto il
servitore aio Andrea, per ordine del tutore; e giustamente, perché costui si era dato
sfrenatamente alle donne, al vino, e alle risse, ed era diventato un pessimo soggetto pel
troppo ozio, e non avere chi lo invigilasse. A me aveva sempre usato mali termini, e
quando era briaco, cioè quattro, o cinque giorni per settimana, mi batteva per anche, e
sempre poi mi maltrattava; e in quelle spessissime malattie ch'io andava facendo, egli,
datomi da mangiare se n'andava, e mi lasciava chiuso in camera talvolta dal pranzo fino
all'ora di cena; la qual cosa più d'ogni altra contribuiva a non farmi tornar sano, ed a
triplicare in me quelle orribili malinconie che già avea sortite dal naturale mio
temperamento. Eppure, chi '1 crederebbe? piansi e sospirai per la perdita di codest'Andrea
più e più settimane; e non mi potendo opporre a chi giustamente voleva licenziarlo, e me
l'avea levato d'attorno, durai poi per più mesi ad andarlo io visitare ogni giovedì e
domenica, essendo egli inibito di porre i piedi in Accademia. Io mi facea condurre a
vederlo dal nuovo cameriere che mi aveano dato, uomo piuttosto grosso, ma buono e di
dolcissima indole. Gli somministrai anche per del tempo dei denari, dandogliene quanto ne
aveva, il che non era molto; finalmente poi essendosi egli collocato in servizio d'altri,
ed io distratto dal tempo, e dalla mutazione di scena per me dopo la morte dello zio, non
ci pensai poi più. Dovendomi nei seguenti anni render conto in me stesso della cagione di
quell'affetto mio sragionevole per un sì tristo soggetto, se mi volessi abbellire, direi
che ciò proveniva forse in me da una certa generosità di carattere; ma questa per allora
non era la vera cagione, benché in appresso poi, quando nella lettura di Plutarco io
cominciai ad infiammarmi dell'amor della gloria e della virtù, conobbi ed apprezzai, e
praticai anche, potendo, la soddisfacentissinia arte del rendere bene per male. Quel mio
affetto per Andrea che mi avea pur dato tanti dolori, era in me un misto della forza
abituale del vederlo da sett'anni sempre dintorno a me, e della predilezione da me
concepita per alcune sue belle qualità; come la sagacità nel capire, la sveltezza e
destrezza somma nell'eseguire; le lunghe storiette e novelle ch'egli mi andava
raccontando, ripiene di spirito, di affetti e d'imagini; cose tutte, per cui, passato lo
sdegno delle durezze e vessazioni ch'egli mi andava facendo, egli mi sapea sempre tornare
in grazia. Non capisco però, come abborrendo tanto per mia natura l'essere sforzato e
malmenato, mi fossi pure avvezzato al giogo di costui. Questa riflessione in appresso mi
ha fatti talvolta compatire alcuni principi, che senza essere affatto imbecilli si
lasciavano pure guidare da gente che avea preso il sopravvento sovr'essi nell'adolescenza;
età funesta, per la profondità delle ricevute impressioni.
Il primo frutto ch'io raccolsi dalla
morte dello zio, fu di poter andare alla Cavallerizza; scuola che sino allora mi era
sempre stata negata, e ch'io desiderava ardentissimamente. Il priore dell'Accademia avendo
saputa questa mia smaniosa brama d'imparare a cavalcare, pensò di approfittarsene per mio
utile; onde egli pose per premio de' miei studi la futura equitazione, quand'io mi
risolvessi a pigliare all'Università il primo grado della scala dottoresca, chiamato il
magistero, che è un esame pubblico alla peggio dei due anni di logica, fisica e
geometria. Io mi vi indussi subito; e cercatomi un ripetitore a parte, che mi tornasse a
nominare almeno le definizioni di codeste mal fatte scuole, in quindici o venti giorni
misi assieme alla diavola una dozzina di periodi latini tanto da rispondere a quei pochi
quesiti, che mi verrebbero fatti dagli esaminatori. Divenni dunque, io non so come in meno
d'un mese maestro matricolato dell'Arti, e quindi inforcai per la prima volta la schiena
di un cavallo: arte, nella quale divenni poi veramente maestro molti anni dopo. Mi trovavo
allora essere di statura piuttosto piccolo e assai graciletto, e di poca forza nei
ginocchi che sono il perno del cavalcare; con tutto ciò la volontà e la molta passione
supplivano alla forza, e in breve ci feci dei progressí bastanti, massime nell'arte della
mano, e dell'intelletto reggenti d'accordo, e nel conoscere e indovinare i moti e l'indole
della cavalcatura. A questo piacevole e nobilissimo esercizio io fui debitore ben tosto
della salute, della cresciuta, e d'una certa robustezza che andai acquistando a occhio
vedente, ed entrai si può dire in una nuova esistenza.
Sepolto dunque lo zio, barattato il
tutore in curatore, fatto maestro dell'Arti, liberato dal giogo di Andrea, ed inforcato un
destriero, non è credibile quanto andassi ogni giorno più alzando la cresta. Cominciai a
dire schiettamente e al priore, ed al curatore, che quegli studi della legge mi tediavano,
che io ci perdevo il mio tempo, e che in una parola non li voleva continuare altrimenti.
Il curatore allora abboccatosi col governatore dell'Accademia, conchiusero di farmi
passare al Primo Appartamento, educazione molto larga, di cui ho parlato più sopra.
Vi feci dunque il mio ingresso il dì 8
maggio 1763. In quell'estate mi ci trovai quasi che solo; ma nell'autunno si andò
riempiendo di forestieri d'ogni paese quasi, fuorché francesi; ed il numero che dominava
era degli inglesi. Una ottima tavola signorilmente servita; molta dissipazione; pochissimo
studio, il molto dormire, il cavalcare ogni giorno, e l'andar sempre più facendo a mio
modo, mi aveano prestamente restituita e duplicata la salute, il brio e l'ardire. Mi erano
ricresciuti i capelli, e sparruccatomi io mi andava vestendo a mio modo, e spendeva assai
negli abiti, per isfogarmi dei panni neri che per regola dell'Accademia impreteribile avea
dovuti portare in quei cinque anni del Terzo e Secondo Appartamento di essa. Il curatore
andava gridando su questi troppo ricchi e troppi abiti; ma il sarto sapendo ch'io poteva
pagare mi facea credito quanto i' volessi, e rivestiva credo anche sé a mie spese. Avuta
l'eredità, e la libertà, ritrovai tosto degli amici, dei compagni ad ogni impresa, e
degli adulatori, e tutto quello insomma che vien coi danari, e fedelmente con essi pur se
ne va. In mezzo a questo vortice nuovo e fervente, ed in età di anni quattordici e mezzo,
io non era con tutto ciò né discolo né sragionevole quanto avrei potuto e dovuto
fors'essere. Di tempo in tempo aveva in me stesso dei taciti richiami a un qualche studio,
ed un certo ribrezzo ed una mezza vergogna per l'ignoranza mia, su la quale non mi veniva
fatto d'ingannare me stesso, né tampoco mi attentava di cercar d'ingannare gli altri. Ma
non fondato in nessuno studio, non diretto da nessuno, non sapendo nessuna lingua bene, io
non sapeva a quale applicazione darmi, né come. La lettura di molti romanzi francesi
(ché degli italiani leggibili non ve n'è); il continuo conversare con forestieri, e il
non aver occasione mai né di parlare né di sentir parlare italiano, mi andavano a poco a
poco scacciando dal capo quel poco di tristo toscano ch'io avessi potuto intromettervi in
quei due o tre anni di studi buffoni di umanità e rettoriche asinine. E sottentrava nel
mio vuoto capo il francese a tal segno, che in un accesso di studio ch'io ebbi per due o
tre mesi in quel prim'anno del Primo Appartamento, m'ingolfai nei trentasei volumi della Storia
ecclesiastica del Fleury, e li lessi quasi tutti con furore; e mi accinsi a farne
anche degli estratti in lingua francese, e di questi arrivai sino al libro diciottesimo;
fatica sciocca, noiosa, e risibile, che pure feci con molta ostinazione, ed anche con un
qualche diletto, ma con quasi nessunissimo utile. Fu quella lettura che cominciò a farmi
cader di credito i preti, e le loro cose. Ma presto posi da parte il Fleury, e non ci
pensai più. E que' miei estratti che non ho buttati sul fuoco sin a questi anni addietro,
mi hanno fatto ridere assai quando li riscorsi un pocolino, circa venti anni dopo averli
stesi. Dall'istoria ecclesiastica mi ringolfai nei romanzi, e rileggeva molte volte gli
stessi, tra gli altri, Les Mille et une Nuit.
Intanto, essendomi stretto d'amicizia con
parecchi giovanotti della città che stavano sotto l'aio, ci vedevamo ogni giorno, e si
facevano delle gran cavalcate su certi cavallucci d'affitto, cose pazze da fiaccarcisi il
collo migliaia di volte non che una; come quella di far a correre all'ingiù dall'Eremo di
Camaldoli fin a Torino, ch'è una pessima selciata erta a picco, che non l'avrei fatta poi
neppure con ottimi cavalli per nessun conto; e di correre pe' boschi che stanno tra il Po
e la Dora, dietro a quel mio cameriere, tutti noi come cacciatori, ed egli sul suo ronzino
faceva da cervo; oppure si sbrigliava il di lui cavallo scosso, e si inseguiva con
grand'urli, e scoppietti di fruste, e corni artefatti con la bocca, saltando fossi
smisurati, rotolandovi spesso in bel mezzo, guadando spessissimo la Dora, e principalmente
nel luogo dove ella mette nel Po e facendo insomma ogni sorte di simili scappataggini, e
tali che nessuno più ci voleva affittar dei cavalli, per quanto si volessero strapagare.
Ma questi stessi strapazzi mi rinforzavano notabilmente il corpo, e m'innalzavano molto la
mente; e mi andavano preparando l'animo al meritare e sopportare, e forse a ben valermi
col tempo dell'acquistata mia libertà sì fisica che morale.
CAPITOLO OTTAVO
Ozio totale. Contrarietà incontrate, e fortemente sopportate.
Non aveva altri allora che s'ingerisse de' fatti miei, fuorché quel nuovo cameriere, datomi dal curatore, quasi come un semi-aio, ed aveva ordine di accompagnarmi sempre dapertutto. Ma a dir vero, siccome egli era un buon sciocco ed anche interessatuccio, io col dargli molto ne faceva assolutamente ogni mio piacere, ed egli non ridiceva nulla. Con tutto ciò, l'uomo per natura non si contentando mai, ed io molto meno che niun altro, mi venne presto a noia anche quella piccola suggezione dell'avermi sempre il cameriere alle reni, dovunque i' m'andassi. E tanto più mi riusciva gravosa questa servitù, quanto ch'ella era una particolarità usata a me solo di quanti ne fossero in quel Primo Appartamento; poiché tutti gli altri uscivano da sé, e quante volte il giorno volevano. Né mi capacitai punto della ragione che mi si dava di questo, ch'io era il più ragazzo di tutti, essendo sotto ai quindici anni. Onde m'incocciai in quell'idea di voler uscir solo anche io, e senza dir nulla al cameriere, né a chi che sia, cominciai a uscir da me. Da prima fui ripreso dal governatore; e ci tornai subito; la seconda volta fui messo in arresto in casa, e poi liberato dopo alcuni giorni, fui da capo all'uscir solo. Poi riarrestato più strettamente, poi liberato, e riuscito di nuovo; e sempre così a vicenda più volte, il che durò forse un mese, crescendomisi sempre il gastigo, e sempre inutilmente. Alla per fine dichiarai in uno degli arresti, che mi ci doveano tenere in perpetuo, perché appena sarei stato liberato, immediatamente sarei tornato fuori da me; non volendo io nessuna particolarità né in bene né in male, che mi facesse essere o più o meno o diverso da tutti gli altri compagni; che codesta distinzione era ingiusta ed odiosa, e mi rendeva lo scherno degli altri; che se pareva al signor governatore ch'io non fossi d'età né di costumi da poter far come gli altri del Primo, egli mi poteva rimettere nel Secondo Appartamento. Dopo tutte queste mie arroganze mi toccò un arresto così lungo, che ci stetti da tre mesi e più, e fra gli altri tutto l'intero carnevale del 1764. Io mi ostinai sempre più a non voler mai domandare d'esser liberato, e così arrabbiando e persistendo, credo che vi sarei marcito, ma non piegatomi mai. Quasi tutto il giorno dormiva; poi verso la sera mi alzava da letto, e fattomi portare una materassa vicino al caminetto, mi vi sdraiava su per terra; e non volendo più ricevere il pranzo solito dell'Accademia, che mi facevano portar in camera, io mi cucinava da me a quel fuoco della polenta, e altre cose simili. Non mi lasciava più pettinare, né mi vestiva ed era ridotto come un ragazzo salvatico. Mí era inibito l'uscire di camera; ma lasciavano pure venire quei miei amici di fuori a visitarmi; i fidi compagni di quelle eroiche cavalcate. Ma io allora sordo e muto, e quasi un corpo disanimato, giaceva sempre, e non rispondeva niente a nessuno qualunque cosa mi si dicesse. E stava così delle ore intere, con gli occhi conficcati in terra, pregni di pianto, senza pur mai lasciare uscir una lagrima.
CAPITOLO NONO
Matrimonio della sorella. Reintegrazione del mio onore. Primo cavallo.
Da questa vita di vero bruto bestia,
mi liberò finalmente la congiuntura del matrimonio di mia sorella Giulia, col conte
Giacinto di Cumiana. Seguì il dì primo maggio 1764, giorno che mi restò impresso nella
mente essendo andato con tutto lo sposalizio alla bellissima villeggiatura di Cumiana
distante dieci miglia da Torino; dove passai più d'un mese allegrissimamente, come dovea
essere di uno scappato di carcere, detenutovi tutto l'inverno. Il mio nuovo cognato avea
impetrata la mia liberazione, ed a più equi patti fui ristabilito nei dritti innati dei
primi appartamentisti dell'Accademia; e così ottenni l'eguaglianza con i compagni
mediante più mesi di durissimo arresto. Coll'occasione di queste nozze aveva anche
ottenuto molto allargamento nella facoltà di spendere il mio, il che non mi si poteva
oramai legalmente negare. E da questo ne nacque la compra del mio primo cavallo, che venne
anche meco nella villeggiatura di Cumiana. Era questo cavallo un bellissimo sardo, di
mantello bianco, di fattezze distinte, massime la testa, l'incollatura ed il petto. Lo
amai con furore, e non me lo rammento mai senza una vivissima emozione. La mia passione
per esso andò al segno di guastarmi la quiete, togliermi la fame ed il sonno, ogni qual
volta egli aveva alcuno incommoduccio; il che succedeva assai spesso, perché egli era
molto ardente e delicato ad un tempo; e quando poi l'aveva fra le gambe, il mio affetto
non m'impediva di tormentarlo e malmenarlo anche tal volta quando non volea fare a modo
mio. La delicatezza di questo prezioso animale mi servì ben tosto di pretesto per volerne
un altro di più, e dopo quello due altri di carrozza, e poi uno di calessetto, e poi due
altri di sella, e così in men d'un anno arrivai sino a otto, fra gli schiamazzi del
tenacissimo curatore, ch'io lasciava pur cantare a suo piacimento. E superato così
l'argine della stitichezza e parsimonia di codesto mio curatore; tosto traboccai in ogni
sorte di spesa, e principalmente negli abiti, come già mi par d'avere più sopra
accennato. Verano alcuni di quegli inglesi miei compagni, che spendevano assai; onde
io non volendo essere soverchiato, cercava pure e mi riusciva di soverchiare costoro. Ma,
per altra parte, quei giovinotti miei amici di fuori dall'Accademia, e coi quali io
conviveva assai più che coi forestieri di dentro, per essere soggetti ai lor padri,
avevano pochi quattrini; onde benché a loro mantenimento fosse decentissimo, essendo essi
dei primi signori di Torino, pure le loro spese di capriccio venivano ad essere
necessariamente tenuissime. A risguardo dunque di questi, io debbo per amor del vero
confessare ingenuamente di aver allora praticata una virtù, ed appurato che ella era in
me naturale, ed invincibile: ed era di non volere né potere soverchiar mai in nessuna
cosa chi che sia, ch'io conoscessi o che si tenesse per minore di me in forza di corpo,
d'ingegno, di generosità, d'indole, o di borsa. Ed in fatti, ad ogni abito nuovo, e ricco
o di ricami, o di nappe, o di pelli ch'io m'andava facendo, se mi veniva fatto di
vestirmelo la mattina per andare a corte, o a tavola con i compagni d'Accademia, che
rivaleggiavano in queste vanezze con me, io poi me lo spogliava subito al dopo pranzo,
ch'era l'ora in cui venivano quegli altri da me; e li faceva anzi nascondere perché non
li vedessero, e me ne vergognava in somma con essi, come di un delitto; e tale in fatti
nel mio cuore mi pareva, e l'avere, e molto più il farne pompa, delle cose che gli amici
ed eguali miei non avessero. E così pure, dopo avere con molte risse ottenuto dal
curatore di farmi fare una elegante carrozza, cosa veramente inutilissima e ridicola per
un ragazzaccio di sedici anni in una città così microscopica come Torino, io non vi
saliva quasi mai, perché gli amici non l'avendo se ne dovevano andare a sante gambe
sempre. E quanto ai molti cavalli da sella, io me li facea perdonare da loro,
accomunandoli con essi; oltre che essi pure ne aveano ciascuno il suo, e mantenuto dai
loro rispettivi genitori. Perciò questo ramo di lusso mi dilettava anche più di tutti
altri, e con meno misto di ribrezzo, perché in nulla veniva ad offendere gli amici miei.
Esaminando io spassionatamente e con
l'amor del vero codesta mia prima gioventù, mi pare di ravvisarci fra le tante storture
di un'età bollente, oziosissima, ineducata, e sfrenata, una certa naturale pendenza alla
giustizia, all'eguaglianza, ed alla generosità d'animo, che mi paiono gli elementi d'un
ente, libero, o degno di esserlo.
CAPITOLO DECIMO
Primo amoruccio. Primo viaggetto. Ingresso nelle truppe.
In una villeggiatura ch'io feci di
circa un mese colla famiglia di due fratelli, che erano dei principali miei amici, e
compagni di cavalcate, provai per la prima volta sotto aspetto non dubbio la forza d'amore
per una loro cognata, moglie del loro fratello maggiore. Era questa signorina, una
brunetta piena di brio, e di una certa protervia che mi facea grandissima forza. I sintomi
di quella passione, di cui ho provato dappoi per altri oggetti così lungamente tutte le
vicende, si manifestarono in me allora nel seguente modo. Una malinconia profonda e
ostinata; un ricercar sempre l'oggetto amato, e trovatolo appena, sfuggirlo; un non saper
che le dire, se a caso mi ritrovava alcuni pochi momenti (non solo mai, che ciò non mi
veniva fatto mai, essendo ella assai strettamente custodita dai suoceri) ma alquanto in
disparte con essa; un correre poi dei giorni interi (dopo che si ritornò di villa) in
ogni angolo della città, per vederla passare in tale o tal via, nelle passeggiate
pubbliche del Valentino e Cittadella; un non poterla neppure udir nominare, non che parlar
mai di essa; ed in somma tutti, ed alcuni più, quegli effetti sì dottamente e
affettuosamente scolpiti dal nostro divino maestro di questa divina passione, il Petrarca.
Effetti, che poche persone intendono, e pochissime provano; ma a quei soli pochissimi è
concesso l'uscir dalla folla volgare in tutte le umane arti. Questa prima mia fiamma, che
non ebbe mai conclusione nessuna, mi restò poi lungamente semiaccesa nel cuore, ed in
tutti i miei lunghi viaggi fatti poi negli anni consecutivi, io sempre senza volerlo, e
quasi senza avvedermene l'avea tacitamente per norma intima d'ogni mio operare; come se
una voce mi fosse andata gridando nel più segreto di esso: "Se tu acquisti tale, o
tal pregio, tu potrai al ritorno tuo piacer maggiormente a costei; e cangiate le
circostanze, potrai forse dar corpo a quest'ombra".
Nell'autunno dell'anno 1765 feci un
viaggietto di dieci giorni a Genova col mio curatore; e fu la mia prima uscita dal paese.
La vista del mare mi rapì veramente l'anima, e non mi poteva mai saziare di contemplarlo.
Così pure la posizione magnifica e pittoresca di quella superba città, mi riscaldò
molto la fantasia. E se io allora avessi saputa una qualche lingua, ed avessi avuti dei
poeti per le mani, avrei certamente fatto dei versi; ma da quasi due anni io non apriva
più nessun libro, eccettuati di radissimo alcuni romanzi francesi, e qualcuna delle prose
di Voltaire, che mi dilettavano assai. Nel mio andare a Genova ebbi un sommo piacere di
rivedere la madre e la città mia, di dove mancava già da sette anni, che in quell'età
paiono secoli. Tornato poi di Genova, mi pareva di aver fatta una gran cosa, e d'aver
visto molto. Ma quanto io mi teneva di questo mio viaggio cogli amici di fuori
dell'Accademia (benché non lo dimostrassi loro, per non mortificarli), altrettanto poi mi
arrabbiava e rimpiccioliva in faccia ai compagni di dentro, che tutti venivano di paesi
lontani, come inglesi, tedeschi, i polacchi, russi, etc.; ed a cui il mio viaggio di
Genova pareva, com'era in fatti, una babbuinata. E questo mi dava una frenetica voglia di
viaggiare, e di vedere da me i paesi di tutti costoro.
In quest'ozio e dissipazione continua,
presto mi passarono gli ultimi diciotto mesi ch'io stetti nel Primo Appartamento. Ed
essendomi io fatto inscrivere nella lista dei postulanti impiego nelle truppe sin dal
prim'anno ch'io v'era entrato, dopo esservi stato tre anni, in quel maggio del 1766,
finalmente fui compreso in una promozione generale di forse centocinquanta altri
giovanotti. E benché io da più d'un anno, mi fossi intiepidito moltissimo in questa
vocazione militare, pure non avendo io ritrattata la mia petizione, mi convenne accettare;
ed uscii porta-insegna nel Reggimento Provinciale d'Asti. Da prima io aveva chiesto
d'entrare nella cavalleria, per l'amore innato dei cavalli; poi di lì a qualche tempo,
aveva cambiata la domanda, bastandomi di entrare in uno di quei Reggimenti Provinciali, i
quali in tempo di pace non si radunando all'insegne se non se due volte l'anno, e per
pochi giorni, lasciavano così una grandissima libertà di non far nulla, che era appunto
la sola cosa ch'io mi fossi determinato di voler fare. Con tutto ciò, anche questa
milizia di pochi giorni mi spiacque moltissimo; e tanto più, perché l'aver avuto
quell'impiego mi costringeva di uscire dall'Accademia, dove io mi trovava assai bene, e ci
stava altrettanto volentieri allora, quanto ci era stato male e a contragenio nei due
altri Appartamenti, e i Primi diciotto mesi del Primo. Bisognò pure ch'io m'adattassi, e
nel corrente di quel maggio lasciai l'Accademia, dopo esservi stato quasi ott'anni. E nel
settembre mi presentai alla prima rassegna del mio reggimento in Asti, dove compiei
esattissimamente ogni dovere del mio impieguccio, abborrendolo; e non mi potendo
assolutamente adattare a quella catena di dipendenze gradate, che si chiama
subordinazione; ed è veramente l'anima della disciplina militare; ma non poteva esser
l'anima mai d'un futuro poeta tragico. All'uscire dell'Accademia, aveva appigionato un
piccolo ma grazioso quartiere nella casa stessa di mia sorella; e là attendeva a spendere
il più che potessi, in cavalli, superfluità d'ogni genere, e pranzi che andava facendo
ai miei amici, ed ai passati compagni dell'Accademia. La smania di viaggiare,
accresciutasi in me smisuratamente col conversare moltissimo con codesti forestieri,
m'indusse contro la mia indole naturale ad intelaiare un raggiretto per vedere di
strappare una licenza di viaggiare a Roma e a Napoli almeno per un anno. E siccome era
troppo certa cosa, che in età di anni diciassette e me sì ch'io allora mi aveva, non mi
avrebbero mai lasciato andar solo, m'ingegnai con un aio inglese cattolico, che guidava un
fiammingo, ed un olandese a far questo giro, e coi quali era stato già più d'un anno
nell'Accademia, a vedere s'egli voleva anche incaricarsi di me, e così fare il sudetto
viaggio noi quattro. Tanto feci insomma, che invogliai anche questi di avermi per
compagno, e servitomi poi del mio cognato per ottenermi dal re la licenza di partire sotto
la condotta del sudetto aio inglese, uomo più che maturo, e di ottimo grido, finalmente
restò fissata la partenza per i primi di ottobre di quell'anno. E questo fu il primo, e
in seguito poi l'uno dei pochi raggiri ch'io abbia intrapresi con sottigliezza, e
ostinazione di maneggio, per persuadere quell'aio, e il cognato, e più di tutti lo
stitichissimo curatore. La cosa riuscì, ma in me mi vergognava e irritava moltissimo di
tutte le pieghevolezze, e simulazioni, e dissimulazioni che mi conveniva porre in opera
per ispuntarla. Il re, che nel nostro piccolo paese di ogni piccolissima cosa s'ingerisce,
non si trovava essere niente propenso ai viaggi de' suoi nobili; e molto meno poi di un
ragazzo uscito allora del guscio, e che indicava un certo carattere. Bisognò insomma
ch'io mi piegassi moltissimo. Ma grazie alla mia buona sorte, questo non mi tolse poi di
rialzarmi in appresso interissimo.
E qui darò fine a questa seconda parte;
nella quale m'avvedo benissimo che avendovi io intromesso con più minutezza cose forse
anco più insipide che nella prima, consiglierò anche al lettore di non arrestarvisi
molto, o anche di saltarla a piè pari; poiché, a tutto ristringere in due parole, questi
otto anni della mia adolescenza altro non sono che infermità, ed ozio, e ignoranza.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 16 ottobre, 1999