Vittorio Alfieri

La Vita scritta da esso

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EPOCA SECONDA

ADOLESCENZA
Abbraccia otto anni d'ineducazione.

CAPITOLO PRIMO
Partenza dalla casa materna, ed ingresso
nell'Accademia di Torino, e descrizione di essa.

         Eccomi or dunque per le poste correndo a quanto più si poteva; in grazia che io al pagar della prima posta aveva intercesso presso al pagante fattore a favore del primo postiglione per fargli dar grassa mancia; il che mi avea tosto guadagnato il cuor del secondo. Onde costui andava come un fulmine, accennandomi di tempo in tempo con l'occhio e un sorriso, che gli farei anche dare lo stesso dal fattore; il quale per esser egli vecchio ed obeso, esauritosi nella prima posta nel raccontarmi delle sciocche storiette per consolarmi, dormiva allora tenacissimamente e russava come un bue. Quel volar del calesse mi dava intanto un piacere, di cui non avea mai provato l'eguale; perché nella carrozza di mia madre, dove anche di radissimo avea posto il sedere, si andava di un quarto di trotticello da far morire; ed anche in carrozza chiusa, non si gode niente dei cavalli; ma all'incontro nel calesse nostro italiano uno ci si trova quasi su la groppa di essi, e si gode moltissimo anche della vista del paese. Così dunque di posta in posta, con una continua palpitazione di cuore pel gran piacere di correre, e per la novità degli oggetti, arrivai finalmente a Torino verso l'una o le due dopo mezzo giorno. Era una giornata stupenda, e l'entrata di quella città per la Porta Nuova, e la piazza di San Carlo fino all'Annunziata presso cui abitava il mio zio, essendo tutto quel tratto veramente grandioso, e lietissimo all'occhio, mi aveva rapito, ed era come fuor di me stesso. Non fu poi così lieta la sera; perché ritrovandomi in nuovo albergo, tra visi sconosciuti, senza la madre, senza il maestro, con la faccia dello zio che appena aveva visto una altra volta, e che mi riusciva assai meno accarezzante, e amoroso della madre; tutto questo mi fece ricadere nel dolore, e nel pianto, e nel desiderio vivissimo di tutte quelle cose da me abbandonate il giorno antecedente. Dopo alcuni dì, avvezzatomi poi alla novità, ripigliai e l'allegria e la vivacità in un grado assai maggiore ch'io non avessi mostrata mai; ed anzi fu tanta, che allo zio parve assai troppa; e trovandomi essere un diavoletto, che gli metteva a soqquadro la casa, e che per non avere maestro che mi facesse far nulla, io perdeva assolutamente il mio tempo, in vece di aspettare a mettermi in Accademia all'ottobre come s'era detto, mi v'ingabbiò fin dal dì primo d'agosto dell'anno 1758.
         In età di nove anni e mezzo io mi ritrovai dunque ad un tratto traspiantato in mezzo a persone sconosciute, allontanato affatto dai parenti, isolato, ed abbandonato per così dire a me stesso; perché quella specie di educazione pubblica (se chiamarla pur vorremo educazione) in nessuna altra cosa fuorché negli studi, e anche Dio sa come, influiva su l'animo di quei giovinetti. Nessuna massima di morale mai, nessun ammaestramento della vita ci veniva dato. E chi ce l'avrebbe dato, se gli educatori stessi non conoscevano il mondo né per teoria né per pratica?
          Era quell'Accademia un sontuosissimo edificio diviso in quattro lati, in mezzo di cui un immenso cortile. Due di essi lati erano occupati dagli educandi; i due altri lati dal Regio teatro, e dagli archivi del re. In faccia a questi per l'appunto era il lato che occupavamo noi, chiamati del Secondo e Terzo Appartamento; in faccia al teatro stavano quei del Primo, di cui parlerò a suo tempo. La galleria superiore del lato nostro, chiamavasi Terzo Appartamento, ed era destinata ai più ragazzi, ed alle scuole inferiori; la galleria del primo piano, chiamata Secondo, era destinata ai più adulti; de' quali una metà od un terzo studiavano all'Università, altro edificio assai prossimo all'Accademia; gli altri attendevano in casa agli studi militari. Ciascuna galleria conteneva almeno quattro camerate di undici giovani ciascheduna, cui presiedeva un pretuccio chiamato assistente, per lo più un villan rivestito, a cui non si dava salario nessuno; e con la tavola sola e l'alloggio si tirava innanzi a studiare anch'egli la teologia, o la legge all'Università; ovvero se non erano anch'essi studenti, erano dei vecchi ignorantissimi e rozzissimi preti. Un terzo almeno del lato ch'io dissi destinato al Primo Appartamento, era occupato dai paggi del re in numero di venti o venticinque, che erano totalmente separati da noi, all'angolo opposto del vasto, cortile, ed attigui agli accennati archivi.
         Noi dunque giovani studenti eramo assai male collocati così: fra un teatro, che non ci toccava di entrarvi se non se cinque o sei sere in tutto il carnovale; fra i paggi, che atteso il servizio di corte, le caccie, e le cavalcate, ci pareano godere di una vita tanto più libera e divagata della nostra; e tra i forestieri finalmente che occupavano il Primo Appartamento, quasi ad esclusione dei paesani, essendo una colluvie di tutti i boreali, inglesi principalmente, russi, e tedeschi, e d'altri stati d'Italia; e questa era più una locanda che una educazione, poiché a niuna regola erano astretti, se non se al ritrovarsi la sera in casa prima della mezza notte. Del resto, andavano, e a corte, e ai teatri, e nelle buone e nelle cattive compagnie, a loro intero piacimento. E per supplizio maggiore di noi poverini del Secondo e Terzo Appartamento, la distribuzione locale portava che ogni giorno per andare alla nostra cappella alla messa, ed alle scuole di ballo, e di scherma, dovevamo passare per le gallerie del Primo Appartamento, e quindi vederci continuamente in su gli occhi la sfrenata e insultante libertà di quegli altri; durissimo paragone colla severità del nostro sistema, che chiamavamo andantemente galera. Chi fece quella distribuzione era uno stolido, e non conosceva punto il cuore dell'uomo; non si accorgendo della funesta influenza che doveva avere in quei giovani animi quella continua vista di tanti proibiti pomi.

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CAPITOLO SECONDO
Primi, studi, pedanteschi, e malfatti.

         Io era dunque collocato nel Terzo Appartamento, nella camerata detta di mezzo; affidato alla guardia di quel servitore Andrea, che trovatosi così padrone di me senza avere né la madre, né lo zio, né altro mio parente che lo frenasse, diventò un diavolo scatenato. Costui dunque mi tiranneggiava per tutte le cose domestiche a suo pieno arbitrio. E così l'assistente poi faceva di me, come degli altri tutti, nelle cose dello studio, e della condotta usuale. Il giorno dopo il mio ingresso nell'Accademia, venne da quei professori esaminata la mia capacità negli studi, e fui giudicato per un forte quartano, da poter facilmente in tre mesi di assidua applicazione entrare in terza. Ed in fatti mi vi accinsi di assai buon animo, e conosciuta ivi per la prima volta l'utilissima gara dell'emulazione, a competenza di alcuni altri anche maggiori di me per età, ricevuto poi un nuovo esame nel novembre, fui assunto alla classe di terza. Era il maestro di quella un certo don Degiovanni; prete, di forse minor dottrina del mio buon Ivaldi; e che aveva inoltre assai minore affetto e sollecitudine per i fatti miei, dovendo egli badare alla meglio, e badandovi alla peggio, a quindici, o sedici suoi scolari, che tanti ne avea.
         Tirandomi così innanzi in quella scoluccia, asino, fra asini, e sotto un asino, io vi spiegava il Cornelio Nipote, alcune egloghe di Virgilio, e simili; vi si facevano certi temi sguaiati e sciocchissimi; talché in ogni altro collegio di scuole ben dirette, quella sarebbe stata al più più una pessima quarta. Io non era mai l'ultimo fra i compagni; l'emulazione mi spronava finché avessi o superato o agguagliato quel giovine che passava per il primo; ma pervenuto poi io al primato, tosto mi rintiepidiva e cadea nel torpore. Ed era io forse scusabile, in quanto nulla poteva agguagliarsi alla noia e insipidità di così fatti studi. Si traducevano le Vite di Cornelio Nipote, ma nessuno di noi, e forse neppure il maestro, sapeva chi si fossero stati quegli uomini di cui si traducevan le vite, né dove fossero i loro paesi, né in quali tempi, né in quali governi vivessero, né cosa si fosse un governo qualunque. Tutte le idee erano o circoscritte, o false, o confuse; nessuno scopo in chi insegnava; nessunissimo allettamento in chi imparava. Erano insomma dei vergognosissimi perdigiorni; non c'invigilando nessuno; o chi lo faceva, nulla intendendovi. Ed ecco in qual modo si viene a tradire senza rimedio la gioventù.
Passato quasi che tutto l'anno 1759 in simili studi, verso il novembre fui promosso all'Umanità. Il maestro di essa, don Amatis, era un prete di molto ingegno e sagacità, e di sufficiente dottrina. Sotto di questo, io feci assai maggior profitto; e per quanto quel metodo di mal intesi studi lo comportasse, mi rinforzai bastantemente nella lingua latina. L'emulazione mi si accrebbe, per l'incontro di un giovine che competeva con me nel fare il tema; ed alcuna volta mi superava; ma vieppiù poi mi vinceva sempre negli esercizi della memoria, recitando egli sino a seicento versi delle Georgiche di Virgilio d'un fiato, senza sbagliare una sillaba, e non potendo io arrivare neppure a quattrocento, ed anche non bene; cosa, di cui mi angustiava moltissimo. E per quanto mi vo ora ricordando dei moti del mio animo in quelle battaglie puerili, mi pare che la mia indole non fosse di cattiva natura; perché nell'atto dell'essere vinto da quei dugento versi di più, io mi sentiva bensì soffocar dalla collera, e spesso prorompeva in un dirottissimo pianto, e talvolta anche in atrocissime ingiurie contro al rivale; ma pure poi, o sia ch'egli si fosse migliore di me, o anch'io mi placassi non so come, essendo noi di forza di mano uguali all'incirca, non ci disputavamo quasi mai, e sul totale eramo quasi amici. Io credo, che la mia non piccola ambizioncella ritrovasse consolazione e compenso dell'inferiorità della memoria, nel premio del tema, che quasi sempre era mio; ed inoltre, io non gli poteva portar odio, perché egli era bellissimo; ed io, anche senza secondi fini, sempre sono stato assai propenso per la bellezza, sì degli animali che degli uomini, e d'ogni cosa; a segno che la bellezza per alcun tempo nella mia mente preoccupa il giudizio, e pregiudica spesso al vero.
         In tutto quell'anno dell'Umanità, i miei costumi si conservarono ancora innocenti e purissimi; se non in quanto la natura da sé stessa senza ch'io nulla sapessi, me li andava pure sturbando. Mi capitò in quell'anno alle mani, e non mi posso ricordare il come, un Ariosto, l'opere tutte in quattro tometti. Non lo comprai certo, perché danari non avea; non lo rubai, perché delle cose rubate ho conservata memoria vivissima; ho un certo barlume, che lo acquistassi ad un tomo per volta per via di baratto da un altro compagno, che lo scambiasse meco col pollo che ci era dato per lo più ogni domenica, un mezzo a ciascuno; sicché il mio primo Ariosto mi sarebbe costato la privazione di un par di polli in quattro settimane. Ma tutto questo non lo posso accertare a me stesso per l'appunto. E mi spiace; perché avrei caro di sapere se io ho bevuto i primi primi sorsi di poesia a spese dello stomaco, digiunando del miglior boccone che ci toccasse mai. E non era questo il solo baratto ch'io mi facessi, perché quel benedetto semipollo domenicale, io mi ricordo benissimo di non lo aver mangiato mai per dei se' mesi continui, perché lo avea pattuito in iscambio di certe storie che ci raccontava un certo Lignàna, il quale essendo un divoratore, aguzzavasi l'intelletto per ritondarsi la pancia; e non ammetteva ascoltatori dei suoi racconti, se non se a retribuzione di vettovaglie. Comunque accadesse dunque questa mia acquisizione, io m'ebbi un Ariosto. Lo andava leggendo qua e là senza metodo, e non intendeva neppur per metà quel ch'io leggeva. Si giudichi da ciò quali dovessero essere quegli studi da me fatti fin a quel punto; poiché io, il principe di codesti umanisti, che traduceva per le Georgiche, assai più difficili dell'Eneide, in prosa italiana, era imbrogliato d'intendere il più facile dei nostri poeti. Sempre mi ricorderò, che nel canto d'Alcina, a quei bellissimi passi che descrivono la di lei bellezza io mi andava facendo tutto intelletto per capir bene: ma troppi dati mi mancavano di ogni genere per arrivarci. Onde i due ultimi versi di quella stanza, Non così strettamente edera preme, non mi era mai possibile d'intenderli; e tenevamo consiglio col mio competitore di scuola, che non li penetrava niente più di me, e ci perdevamo in un mare di congetture. Questa furtiva lettura e commento su l'Ariosto finì, che l'assistente essendosi avvisto che andava per le mani nostre un libruccio il quale veniva immediatamente occultato al di lui apparire, lo scoprì, lo confiscò, e fattisi dar gli altri tomi, tutti li consegnò al sottopriore, e noi poetini restammo orbati d'ogni poetica guida, e scornati.

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CAPITOLO TERZO
A quali de' miei parenti in Torino
venisse affidata la mia adolescenza.

         Nello spazio di questi due primi anni d'Accademia, io imparai dunque pochissimo, e di gran lunga peggiorai la salute del corpo, stante la total differenza e quantità di cibi, ed il molto strapazzo, e il non abbastanza dormire; cose in tutto contrarie al primo metodo tenuto sino ai nove anni nella casa materna. Io non cresceva punto di statura, e pareva un candelotto di cera sottilissimo e pallidissimo. Molti malanni successivamente mi andarono travagliando. L'uno, tra gli altri, cominciò con lo scoppiarmi in più di venti luoghi la testa, uscendone un umore viscoso e fetente, preceduto da un tale dolor di capo, che le tempie mi si annerirono, e la pelle come incarbonita sfogliandosi più volte in diversi tempi mi si cambiò tutta in su la fronte e le tempie. E mio zio paterno il cavalier Pellegrino Alfieri, era stato fatto governatore della città di Cuneo, dove risiedeva almeno otto mesi dell'anno; onde non mi rimaneva in Torino altri parenti che quei della madre, la casa Tornone, ed un cugino di mio padre, mio semi-zio, chiamato il conte Benedetto Alfieri. Era questi il primo architetto del re; ed alloggiava contiguamente a quello stesso Regio teatro da lui con tanta eleganza e maestria ideato, e fatto eseguire. Io andava qualche volta a pranzo da lui, ed alcune volte a visitarlo; il che stava totalmente nell'arbitrio di quel mio Andrea, che dispoticamente mi governava, allegando sempre degli ordini e delle lettere dello zio di Cuneo.
         Era quel conte Benedetto un veramente degn'uomo, ed ottimo di visceri. Egli mi amava ed accarezzava moltissimo; era appassionatissimo dell'arte sua; semplicissimo di carattere, e digiuno quasi d'ogni altra cosa, che non spettasse le belle arti. Tra molte altre cose, io argomento quella sua passione smisurata per l'architettura, dal parlarmi spessissimo, e con entusiasmo, a me ragazzaccio ignorante d'ogni arte ch'io m'era, del divino Michelangelo Buonarroti, ch'egli non nominava mai senza o abbassare il capo, o alzarsi la berretta, con un rispetto ed una compunzione che non mi usciranno mai della mente. Egli aveva fatta gran parte della vita in Roma; era pieno del bello antico; ma pure poi alle volte del suo architettare prevaricò dal buon gusto per adattarsi ai moderni. E di ciò fa fede quella sua bizzarra chiesa di Carignano, fatta a foggia di ventaglio. Ma tali picciole macchie ha egli ben ampiamente cancellate col teatro sopracitato, la volta dottissima ed audacissima della Cavallerizza del re, il Salone di Stupinigi, e la soda e dignitosa facciata del tempio di San Pietro in Ginevra. Mancava forse soltanto alla di lui facoltà architettonica una più larga borsa di quel che si fosse quella del re di Sardegna e ciò testimoniano i molti e grandiosi disegni ch'egli lasciò morendo, e che furono dal re ritirati, in cui v'erano dei progetti variatissimi per diversi abbellimenti da farsi in Torino, e tra gli altri per rifabbricare quel muro sconcissimo, che divide la piazza del Castello dalla piazza del Palazzo Reale; muro che si chiama, non so perché, il Padiglione.
         Mi compiaccio ora moltissimo nel parlar di quel mio zio, che sapea pure far qualche cosa; ed ora soltanto ne conosco tutto il pregio. Ma quando io era in Accademia, egli, benché amorevolissimo per me, mi riusciva pure noiosetto anzi che no; e, vedi stortura di giudizio, e forza di false massime, la cosa che di esso mi seccava il più era il suo benedetto parlar toscano, ch'egli dal suo soggiorno in Roma in poi mai più non avea voluto smettere; ancorché il parlare italiano sia un vero contrabbando in Torino, città anfibia. Ma tanta è però la forza del bello e del vero, che la gente stessa che al principio quando il mio zio ripatriò, si burlava del di lui toscaneggiare, dopo alcun tempo avvistisi poi ch'egli veramente parlava una lingua, ed essi smozzicavano un barbaro gergo, tutti poi a prova favellando con lui andavano anch'essi balbettando il loro toscano; e massimamente quei tanti signori, che volevano rabberciare un poco le loro case e farle assomigliar dei palazzi: opere futili in cui gratuitamente per amicizia quell'ottimo uomo buttava la metà del suo tempo compiacendo ad altrui, e spiacendo, come gli sentii dire tante volte, a sé stesso ed all'arte. Onde molte e molte case dei primi di Torino da lui abbellite o accresciute, con atri, e scale, e portoni, e comodi interni, resteranno un monumento della facile sua benignità nel servire gli amici o quelli che se gli dicevano tali.
         Questo mio zio aveva anche fatto il viaggio di Napoli insieme con mio padre suo cugino, circa un par d'anni prima che questi si accasasse con mia madre; e da lui seppi poi varie cose concernenti mio padre. Tra l'altre, che essendo essi andati al Vesuvio, mio padre a viva forza si era voluto far calar dentro sino alla crosta del cratere interno, assai ben profonda; il che praticavasi allora per mezzo di certe funi maneggiate da gente che stava sulla sommità della voragine esterna. Circa vent'anni dopo, ch'io ci fui per la prima volta, trovai ogni cosa mutata, ed impossibile quella calata. Ma è tempo, ch'io ritorni a bomba.

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CAPITOLO QUARTO
Continuazione di quei non-studi.

         Non c'essendo quasi dunque nessuno de' miei che badasse altrimenti a me, io andava perdendo i miei più begli anni non imparando quasi che nulla, e deteriorando di giorno in giorno in salute; a tal segno, ch'essendo sempre infermiccio, e piagato or qua or là in varie parti del corpo, io era fatto lo scherno continuo dei compagni, che mi denominavano col gentilissimo titolo di carogna; ed i più spiritosi ed umani ci aggiungevano anco l'epiteto di fradicia. Quello stato di salute mi cagionava delle fierissime malinconie, e quindi si radicava in me sempre più l'amore della solitudine. Nell'anno 1760 passai con tutto ciò in Rettorica, perché quei mali tanto mi lasciavano di quando in quando studicchiare, e poco ci volea per far quelle classi. Ma il maestro di Rettorica trovandosi essere assai meno abile di quello d'Umanità, benché ci spiegasse l'Eneide, e ci facesse far dei versi latini, mi parve, quanto a me, che sotto di lui io andassi piuttosto indietro che innanzi nell'intelligenza della lingua latina. Ma pure, poiché io non era l'ultimo tra quegli altri scolari, da ciò argomento che dovesse esser lo stesso di loro. In quell'anno di pretesa rettorica, mi venne fatto di ricuperare il mio Ariostino, rubandolo a un tomo per volta al sottopriore, che se l'era innestato fra gli altri suoi libri in un suo scaffale esposto alla vista. E mi prestò opportunità di ciò fare, il tempo in cui andavamo in camera sua alcuni privilegiati, per vedere dalle di lui finestre giuocare al pallon grosso, perché dalla camera sua situata di faccia al battitore, si godeva assai meglio il giuoco che non dalle gallerie nostre che stavangli di fianco. Io aveva l'avvertenza di ben restringere i tomi vicini, tosto che ne avea levato uno; e così mi riuscì in quattro giorni consecutivi di riavere i miei quattro tometti, dei quali fece gran festa in me stesso, ma non lo dissi a chi che si fosse. Ma trovo pure, riandando quei tempi fra me, che da quella ricuperazione in poi, non lo lessi quasi più niente; e le due ragioni (oltre forse quella della poca salute che era la principale) per cui mi pare che lo trascurassi, erano la difficoltà dell'intenderlo piuttosto accresciuta che scemata (vedi rettorico!) e l'altra era quella continua spezzatura delle storie ariostesche, che nel meglio del fatto ti pianta lì con un palmo di naso; cosa che me ne dispiace anco adesso, perché contraria al vero, e distruggitrice dell'effetto prodotto innanzi. E siccome io non sapeva dove andarmi a raccapezzare il seguito del fatto, finiva col lasciarlo stare. Del Tasso, che al carattere mio si sarebbe adattato assai meglio, io non ne sapeva neppure il nome. Mi capitò allora, e non mi sovviene neppure come, l'Eneide dell'Annibal Caro, e la lessi con avidità e furore più d'una volta, appassionandomi molto per Turno, e Camilla. E me ne andava poi anche prevalendo di furto, per la mia traduzione scolastica del tema datomi dal maestro; il che sempre più mi teneva indietro nel mio latino. Di nessun altro poi de' poeti nostri aveva io cognizione; se non se di alcune opere del Metastasio, come il Catone, l'Artaserse, l'Olimpiade, ed altre che ci capitavano alle mani come libretti dell'opera di questo, o di quel carnovale. E queste mi dilettavano sommamente; fuorché al venir dell'arietta interrompitrice dello sviluppo degli affetti, appunto quando mi ci cominciava a internare io provava un dispiacere vivissimo; e più noia ancora ne riceveva, che dagli interrompimenti dell'Ariosto. Mi capitarono anche allora varie commedie del Goldoni, e queste me le prestava il maestro stesso; e mi divertivano molto. Ma il genio per le cose drammatiche, di cui forse il germe era in me, si venne tosto a ricoprire o ad estinguersi in me, per mancanza di pascolo, d'incoraggiamento, e d'ogni altra cosa. E, somma fatta, la ignoranza mia e di chi mi educava, e la trascuraggine di tutti in ogni cosa non potea andar più oltre.
         In quegli spessi e lunghi intervalli in cui per via di salute io non poteva andare alla scuola con gli altri, un mio compagno, maggiore di età, e di forze, e di asinità ancor più, si faceva fare di quando in quando il suo componimento da me, che era o traduzione, o amplificazione, o versi ecc.; ed egli mi ci costringeva con questo bellissimo argomento. Se tu mi vuoi fare il componimento, io ti do due palle da giuocare; e me le mostrava, belline, di quattro colori, di un bel panno, ben cucite, ed ottimamente rimbalzanti; se tu non me lo vuoi fare, ti do due scappellotti, ed alzava in ciò dire la prepotente sua mano, lasciandomela pendente sul capo. Io pigliava le due palle, e gli faceva il componimento. Da principio glie lo facea fedelmente quanto meglio sapessi; e il maestro si stupiva un poco dei progressi inaspettati di costui, che erasi fin allora mostrato una talpa. Ma io teneva religiosamente il segreto; più ancora perché la natura mia era di esser poco comunicativo, che non per la paura che avessi di quel ciclope. Con tutto ciò, dopo avergli fatto molte composizioni, e sazio di tante palle, e noiato di quella fatica, e anche indispettito un tal poco che colui si abbellisse del mio, andai a poco a poco deteriorando in tal guisa il componimento, che finii col frapporvi di quei tali solecismi, come il potebam, e simili, che ti fanno far le fischiate dai colleghi, e dar le sferzate dai maestri. Costui dunque, vistosi così sbeffato in pubblico, e rivestito per forza della sua natural pelle d'asino, non osò pure apertamente far gran vendetta di me; non mi fece più lavorare per lui, e rimase frenato e fremente dalla vergogna che gli avrei potuta fare scoprendolo. Il che non feci pur mai; ma io rideva veramente di cuore nel sentire raccontare dagli altri come era accaduto il fatto del potebam nella scuola; nessuno però dubitava ch'io ci avessi avuto parte. Ed io verisimilmente era anche contenuto nei limiti della discrezione, da quella vista della mano alzatami sul capo, che mi rimaneva tuttora sugli occhi, e che doveva essere il naturale ricatto di tante palle mal impiegate per farsi vituperare. Onde io imparai sin da allora, che la vicendevole paura era quella che governava il mondo.
         Fra queste puerili insipide vicende, io spesso infermo, e sempre mal sano, avendo anche consumato quell'anno di Rettorica, chiamato poi al solito esame fui giudicato capace di entrare in Filosofia. Gli studi di codesta filosofia si facevano fuori dell'Accademia, nella vicina Università, dove si andava due volte il giorno; la mattina era la scuola di geometria; il giorno, quella di filosofia, o sia logica. Ed eccomi dunque in età di anni tredici scarsi diventato filosofo; del qual nome io mi gonfiava tanto più, che mi collocava già quasi nella classe detta dei grandi; oltre poi il piacevolissimo balocco dell'uscire di casa due volte il giorno; il che poi ci somministrava spesso l'occasione di fare delle scorsarelle per le strade della città così alla sfuggita, fingendo di uscire di scuola per qualche bisogno. Benché dunque io mi trovassi il più piccolo di tutti quei grandi fra quali era sceso nella galleria del Secondo Appartamento, quella mia inferiorità di statura, di età e di forze mi prestava per l'appunto più animo ed impegno di volermi distinguere.
         Ed in fatti da prima studiai quanto bisognava per figurare alle ripetizioni che si facevano poi in casa la sera dai nostri ripetitori accademici. Io rispondeva ai quesiti quanto altri, e anche meglio talvolta; il che doveva essere in me un semplice frutto di memoria, e non d'altro; perché a dir vero io certamente non intendeva nulla di quella filosofia pedantesca, insipida per sé stessa, ed avviluppata poi nel latino, col quale mi bisognava tuttavia contrastare, e vincerlo alla meglio a forza di vocabolario. Di quella geometria, di cui io feci il corso intero, cioè spiegati i primi sei libri di Euclide, io non ho neppur rnai intesa la quarta proposizione; come neppure la intendo adesso; avendo io sempre avuta la testa assolutamente anti-geometrica. Quella scuola poi di filosofia peripatetica che si faceva il dopo pranzo, era una cosa da dormirvi in piedi. Ed in fatti, nella prima mezz'ora si scriveva il corso a dettatura dei professore; e nei tre quarti d'ora rimanenti, dove si procedeva poi alla spiegazione fatta in latino, Dio sa quale, dal catedratico, noi tutti scolari, inviluppati interamente nei rispettivi mantelloni, saporitissimamente dormivamo; né altro suono si sentiva tra quei filosofi, se non se la voce del professore languente, che dormicchiava egli pure, ed i diversi tuoni dei russatori, chi alto, chi basso, e chi medio; il che faceva un bellissimo concerto. Oltre il potere irresistibile di quella papaverica filosofia, contribuiva anche molto farci dormire, principalmente noi accademisti, che avevamo due o tre panche distinte alla destra del professore, l'aver sempre i sonni interrotti la mattina dal doverci alzar troppo presto. E ciò, quanto a me, era la principal cagione di tutti i miei incomodi, perché lo stomaco non aveva tempo di smaltir la cena dormendo. Del che poi avvistisi a mio riguardo i superiori, mi concederono finalmente in quest'anno di Filosofia di poter dormire fino alle sette, in vece delle cinque e tre quarti, che era l'ora fissata del doversi alzare, anzi essere alzati, per scendere in camerata a dire le prime orazioni, e tosto poi mettersi allo studio fino alle sette e mezzo.

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CAPITOLO QUINTO
Varie insulse vicende,
su lo stesso andamento del precedente.

         Nell'inverno di quell'anno 1762, il mio zio, il governatore di Cuneo, tornò per alcuni mesi in Torino; e vistomi così tisicuzzo, mi ottenne anche alcuni piccoli privilegi quanto al mangiare un po' meglio, cioè più sanamente. Il che aggiunto ad alquanta più dissipazione che mi procacciava quell'uscire ogni giorno di casa per andare all'Università, e nei giorni di vacanza qualche pranzuccio dallo zio, e quel sonnetto periodico di tre quarti d'ora nella scuola; tutto questo contribuì a rimpannucciarmi un pochino, e cominciai allora a svilupparmi ed a crescere. Il mio zio pensò anche, come nostro tutore, di far venire in Torino la mia sorella carnale, Giulia, che era la sola di padre; e di porla nel monastero di Santa Croce, cavandola da quello di Sant'Anastasio in Asti, dove era stata per più di sei anni sotto gli auspici di una nostra zia, vedova del marchese Trotti, che vi si era ritirata. La Giulietta cresceva in codesto monastero di Asti, ancor più ineducata di me; stante l'imperio assoluto, ch'ella si era usurpato su la buona zia, che non se ne potea giovare in nessuna maniera, amandola molto, e guastandola moltissimo. La ragazza si avvicinava ai quindici anni, essendomi maggiore di due e più anni. E quell'età, nelle nostre contrade per lo più non è muta, ed altamente anzi già parla d'amore al facile e tenero cuore delle donzelle. Un qualche suo amoruccio, quale può aver luogo in un monastero, ancorché fosse pure verso persona che convenientemente l'avrebbe potuta sposare, dispiacque allo zio, e lo determinò a farla venire in Torino; affidandola alla zia materna, monaca in Santa Croce. La vista di questa sorella, già da me tanto amata, come accennai, e che ora tanto era cresciuta in bellezza, mi rallegrò anche molto; e confortandomi il cuore e lo spirito, mi restituì anche molto in salute. E la compagnia, o per dir meglio il rivedere di tempo in tempo la sorella, mi riusciva tanto più grato, quanto mi pareva che io la sollevassi alcun poco dalla sua afflizione d'amore; essendo stata così divisa dal suo innamorato, che pure si ostinava in dire di volerlo assolutamente in isposo. Io andava dunque ottenendo dal mio custode Andrea, di visitare la mia sorella quasi tutte le domeniche e giovedì, che erano i nostri due giorni di riposo. E assai spesso io passava tutta la mia visita di un'ora e più, a pianger con essa alla grata; e quel piangere, parea che mi giovasse moltissimo; sicché io tornava sempre a casa più sollevato, benché non lieto. Ed io, da quel filosofo ch'io m'era, le dava anche coraggio, e l'incitava a persistere in quella sua scelta; e che finalmente essa poi la spunterebbe con lo zio, che era quello che assolutamente vi si opponeva il più. Ma il tempo, che tanto opera anco su i più saldi petti, non tardò poi moltissimo a svolgere quello di una giovanetta; e la lontananza, gl'impedimenti, le divagazioni, e oltre ogni cosa quella nuova educazione di gran lunga migliore della prima sotto la zia paterna, la guarirono e la consolarono dopo alcuni mesi.
         Nelle vacanze di quell'anno di Filosofia, mi toccò di andare per la prima volta al Teatro di Carignano, dove si davano le opere buffe. E questo fu un segnalato favore che mi volle fare lo zio architetto, che mi dové albergare quella notte in casa sua; stante che codesto teatro non si poteva assolutamente combinare con le regole della nostra Accademia, per cui ogni individuo dev'essere restituito in casa al più tardi a mezz'ora di notte; e nessun altro teatro ci era permesso fuorché quello del re, dove andavamo in corpo una volta per settimana nel solo carnevale. Quell'opera buffa ch'io ebbi dunque in sorte di sentire, mediante il sotterfugio del pietoso zio, che fece dire ai superiori che mi porterebbe per un giorno e una notte in una sua villa, era intitolata il Mercato di Malmantile, cantata dai migliori buffi d'Italia, il Carratoli, il Baglioni, e le di lui figlie; composta da uno dei più celebri maestri. Il brio, e la varietà di quella divina musica mi fece una profondissima impressione, lasciandomi per così dire un solco di armonia negli orecchi e nella imaginativa, ed agitandomi ogni più interna fibra, a tal segno che per più settimane io rimasi immerso in una malinconia straordinaria ma non dispiacevole; dalla quale mi ridondava una totale svogliatezza e nausea per quei miei soliti studi, ma nel tempo stesso un singolarissimo bollore d'idee fantastiche, dietro alle quali avrei potuto far dei versi se avessi saputo farli, ed esprimere dei vivissimi affetti, se non fossi stato ignoto a me stesso ed a chi dicea di educarmi. E fu questa la prima volta che un tale effetto cagionato in me dalla musica, mi si fece osservare, e mi restò lungamente impresso nella memoria, perch'egli fu assai maggiore d'ogni altro sentito prima. Ma andandomi poi ricordando dei miei carnovali, e di quelle recite dell'opera seria ch'io aveva sentite, e paragonandone gli effetti a quelli che ancora provo tuttavia, quando divezzatomi dal teatro ci ritorno dopo un certo intervallo, ritrovo sempre non vi essere il più potente e indomabile agitatore dell'animo, cuore, ed intelletto mio, di quel che lo siano i suoni tutti e specialmente le voci di contralto e di donna. Nessuna cosa mi desta più affetti, e più vari, e terribili. E quasi tutte le mie tragedie sono state ideate da me o nell'atto del sentir musica, o poche ore dopo.
         Essendo scorso così il mio primo anno di studi nell'Università, nel quale si disse, dai ripetitori (ed io non saprei né come né perché) aver io studiato assai bene, ottenni dallo zio di Cuneo la licenza di venirlo trovare in codesta città per quindici giorni nel mese d'agosto. Questo viaggetto, da Torino a Cuneo per quella fertilissima ridente pianura del bel Piemonte, essendo il secondo ch'io faceva da che era al mondo, mi dilettò, e giovò moltissimo alla salute, perché l'aria aperta ed il moto mi sono sempre stati elementi di vita. Ma il piacere di questo viaggio mi venne pure amareggiato non poco dall'esser costretto di farlo coi vetturini a passo a passo, io, che quattro o cinque anni prima, alla mia prima uscita di casa, aveva così rapidamente percorso quelle cinque poste che stanno tra Asti e Torino. Onde, mi pareva di essere tornato indietro invecchiando, e mi teneva molto avvilito di quella ignobile e gelida tardezza del passo d'asino di cui si andava; onde all'entrare in Carignano, Racconigi, Savigliano, ed in ogni anche minimo borguzzo, io mi rintuzzava ben dentro nel più intimo del calessaccio, e chiudeva anche gli occhi per non vedere, né esser visto; quasi che tutti mi dovessero conoscere per quello che avea altre volte corsa la posta con tanto brio, e sbeffarmi ora come condannato a sì umiliante lentezza. Erano eglino in me questi moti il prodotto d'un animo caldo e sublime, oppure leggiero e vanaglorioso? Non lo so; altri potrà giudicarlo dagli anni miei susseguenti. Ma so bene, che se io avessi avuto al fianco una qualche persona che avesse conosciuto il cuor dell'uomo in esteso, egli avrebbe forse potuto cavare fin da allora qualche cosa da me, con la potentissima molla dell'amore di lode e di gloria.
         In quel mio breve soggiorno in Cuneo, io feci il primo sonetto, che non dirò mio, perché egli era un rifrittume di versi o presi interi, o guastati, e riannestati insieme, dal Metastasio, e l'Ariosto, che erano stati i due soli poeti italiani di cui avessi un po' letto. Ma credo, che non vi fossero né le rime debite, né forse i piedi; stante che, benché avessi fatti dei versi latini esametri, e pentametri, niuno però mi avea insegnato mai niuna regola del verso italiano. Per quanto io ci abbia fantasticato poi per ritornarmene in mente almeno uno o due versi, non mi è mai più stato possibile. Solamente so, ch'egli era in lode d'una signora che quel mio zio corteggiava, e che piaceva anche a me. Codesto sonetto, non poteva certamente esser altro che pessimo. Con tutto ciò mi venne lodato assai, e da quella signora, che non intendeva nulla, e da altri simili; onde io già già quasi mi credei un poeta. Ma lo zio, che era uomo Militare, e severo, e che bastantemente notiziato delle cose storiche e politiche nulla intendeva né curava di nessuna poesia, non incoraggì punto questa mia Musa nascente; e disapprovando anzi il sonetto e burlandosene mi disseccò tosto quella mia poca vena fin da radice; e non mi venne più voglia di poetare mai, sino all'età di venticinque anni passati. Quanti buoni o cattivi miei versi soffocò quel mio zio, insieme con quel mio sonettaccio primogenito!
         A quella bestiale filosofia, succedé, l'anno dopo, lo studio 1763 della fisica, e dell'etica; distribuite parimente come le due altre scuole anteriori; la fisica la mattina, e la lezione di etica per far la siesta. La fisica un cotal poco allettavami; ma il continuo contrasto con la lingua latina, e la mia totale ignoranza della studiata geometria, erano impedimenti invincibili ai miei progressi. Onde con mia perpetua vergogna confesserò per amor del vero, che avendo io studiato un anno intero la fisica sotto il celebre padre Beccaria, neppure una definizione me n'è rimasta in capo; e niente affatto so né intendo del suo dottissimo corso su l'elettricità, ricco di tante nobilissime di lui scoperte. Ed al solito accadde qui come mi era accaduto in geometria, che per effetto di semplice memoria, io mi portava benissimo alle ripetizioni, e riscuoteva dai ripetitori più lode che biasimo. Ed in fatti, in quell'inverno del 1763 lo zio si propose di farmi un regaluccio; il che non m'era accaduto mai; e ciò, in premio di quel che gli veniva detto, che io studiava così bene. Questo regalo mi fu annunziato tre mesi prima con enfasi profetica dal servitore Andrea; dicendomi che egli sapeva di buon luogo che lo riceverei poi continuando a portarmi bene; ma non mi venne mai individuato cosa sarebbe.
         Questa speranza indeterminata, ed ingranditami dalla fantasia, mi riaccese nello studio, e rinforzai molto la mia pappagallesca dottrina. Un giorno finalmente mi fu poi mostrato dal camerier dello zio, quel famoso regalo futuro; ed era una spada d'argento non mal lavorata. Me ne invogliai molto dopo averla veduta; e sempre la stava aspettando, parendomi di ben meritarla; ma il dono non venne mai. Per quanto poi intesi, o combinai, in appresso, volevano che io la domandassi allo zio; ma quel mio carattere stesso, che tanti anni prima nella casa materna mi aveva inibito di chiedere alla nonna qualunque cosa volessi, sollecitato caldamente da lei di ciò fare, mi troncò anco qui la parola; e non vi fu mai caso ch'io domandassi la spada allo zio; e non l'ebbi.

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Ultimo aggiornamento: 16 ottobre, 1999