Vittorio Alfieri
Della Tirannide
Capitolo Decimoterzo
DEL LUSSO
Non credo, che mi
sarà difficile il provare, che il moderno lusso in Europa sia una delle principalissime
cagioni, per cui la servitù, gravosa e dolce ad un tempo, vien poco sentita dai nostri
popoli, i quali perciò non pensano né si attentano di scuoterla veramente. Né intendo
io di trattare la questione, oramai da tanti egregj scrittori esaurita, se sia il lusso da
proscriversi o no. Ogni privato lusso eccedente, suppone una mostruosa diseguaglianza di
ricchezze fra' cittadini, di cui la parte ricca già necessariamente è superba,
necessitosa e avvilita la povera, e corrottissime tutte del pari. Onde, posta questa
disuguaglianza, sarà inutilissimo e forse anche dannoso il voler proscrivere il lusso:
né altro rimedio rimane contr'esso, che il tentare d'indirizzarlo per vie meno ree ad un
qualche scopo men reo. M'ingegnerò io bensì di provare in questo capitolo; che il lusso,
conseguenza naturalissima della ereditaria nobiltà, nelle tirannidi riesce anch'egli una
delle principalissime basi di esse; e che dove ci è molto lusso non vi può sorgere
durevole libertà; e che dove ci è libertà, introducendovisi moltissimo lusso, questo in
brevissimo tempo corromperla dovrà, e quindi annullarla.
Il primo e il più mortifero effetto del
privato lusso, si è; che quella pubblica stima che nella semplicità del modesto vivere
si suole accordare al più eccellente in virtù, nello splendido vivere vien trasferita al
più ricco. Né d'altronde si ricerchi la cagione della servitù, in tutti quei popoli,
fra cui le ricchezze danno ogni cosa. Ma pure, la uguaglianza dei beni di fortuna essendo
presso ai presenti europei una cosa chimerica affatto, si dovrà egli conchiudere che non
vi può essere libertà in Europa, perché le ricchezze vi sono tanto disuguali? e possono
elle non esserlo, atteso il commercio, e il lucro delle pubbliche cariche? Rispondo; che
difficilmente vi può essere o durare una vera politica libertà, là dove la disparità
delle ricchezze sia eccessiva; ma che pure, due mezzi vi sono per andarla strascinando
(dove ella già fosse allignata) in mezzo a una tale disparità, ancorché il lusso
sterminatore tutto dì la libertà vi combatta. Il primo di questi mezzi sarà, che le
buone leggi abbiano provveduto, o provvedano, che la eccessiva disuguaglianza delle
ricchezze provenga anzi dalla industria, dal commercio, e dall'arti, che non dall'inerte
accumulamento di moltissimi beni di terra in pochissime persone, alle quali non possono
questi beni pervenire in tal copia, senza che infiniti altri cittadini non siano spogliati
della parte loro. Con un tale compenso le ricchezze dei pochi non occasionando allora la
povertà totale dei più, verrà pure ad esservi un certo stato di mezzo, per cui quel tal
popolo sarà diviso in pochi ricchissimi, in moltissimi agiati, ed in pochi pezzenti.
Tuttavia, questa divisione non può quasi mai nascere, o almeno sussistere, se non in una
repubblica; in vece che la divisione in alcuni ricchissimi, e in moltissimi pezzenti, dee
nascere, e tutto dì si vede sussistere, nelle tirannidi, le quali di una tale
disproporzione si corroborano. Il secondo mezzo di rettificare il lusso, e diminuirne la
maligna influenza sul dritto vivere civile, sarà di non permetterlo nelle cose private, e
d'incoraggirlo e onorarlo nelle pubbliche. Di questi due mezzi le poche repubbliche
d'Europa si vanno pur prevalendo, ma debolmente ed invano; come quelle che sono
corrottissime anch'esse dal fastoso e pestifero vivere delle vicine tirannidi. E questi
altresì sono i due mezzi, che i nostri tiranni non adoprano, e non debbono adoprar mai
contro al lusso; come quelli che in esso ritrovano uno dei più fidi satelliti della
tirannide. Un popolo misero e molle, che si sostenta col tessere drappi d'oro e di seta,
onde si cuoprano poi i pochi ricchi orgogliosi; di necessità un tal popolo viene a stimar
maggiormente coloro, che più consumandone, gli dan più guadagno. Così, viceversa, il
popolo romano che solea ritrarre il suo vitto dalle terre conquistate coll'armi, e fra lui
distribuite poi dal senato, sommamente stimava quel console o quel tribuno, per le di cui
vittorie più larghi campi gli venivano compartiti.
Essendo dunque dal privato lusso
sovvertite in tal modo le opinioni tutte del vero e del retto; un popolo, che onora e
stima maggiormente coloro, che con maggiore ostentazione di lusso lo insultano, e che
effettivamente lo spogliano, benché in apparenza lo pascano; un tal popolo, potrà egli
avere idea, desiderio, diritto, e mezzi, di riassumere libertà?
E que' grandi, (cioè chiamati tali) che
i loro averi a gara profondono, e spesso gli altrui, per vana pompa assai più, che per
vero godimento; quei grandi, o sia ricchi, a cui tante superfluità si son fatte insipide,
ma necessarie; que' ricchi in somma, che a mensa, a veglia, a' festini, ed a letto,
traggono fra gli orrori della sazietà la loro effemminata, tediosa, ed inutile vita; que'
ricchi, potrann' eglino, più che la vilissima feccia del popolo, innalzarsi a conoscere,
a pregiare, desiderare, e volere la libertà? Costoro primi ne piangerebbero; e assumere
non saprebbero esistenza nessuna, se non avessero un intero ed unico tiranno, che
perpetuando il dolce loro ozio, alla lor dappocaggine comandasse.
Inevitabile dunque, e necessario è il
lusso nelle tirannidi. E crescono in esse tutti i vizj in proporzione del lusso, che è il
principe loro; del lusso, che tutti li nobilita, coll'addobbarli; che a tal segno confonde
i nomi delle cose, che la disonestà dei costumi chiamasi fra' ricchi, galanteria;
l'adulare, un saper vivere; l'esser vile, prudenza; l'essere infame, necessità. E di
questi vizj tutti, e dei molti più altri ch'io taccio, i quali hanno tutti per base, e
per immediata cagione il lusso, chi maggiormente ne gode, chi ne ricava più manifesto e
immenso il vantaggio? I tiranni, che da essi ricevono, e per via di essi in eterno si
assicurano, il pacifico ed assoluto comando.
Il lusso dunque (che io definirei; L'immoderato
amore ed uso degli agj superflui e pomposi) corrompe in una nazione ugualmente tutti i
ceti diversi. Il popolo, che ne ritrae anch'egli qualche apparente vantaggio, e che non sa
e non riflette, che per lo più la pompa dei ricchi non è altro che il frutto delle
estorsioni fatte a lui, passate nelle casse del tiranno, e da esso quindi profuse fra
questi secondi oppressori; il popolo, è anch'egli necessariamente corrotto dal tristo
esempio dei ricchi, e dalle vili oziose occupazioni con che si guadagna egli a stento il
suo vitto. Perciò quel fasto dei grandi che dovrebbe sì ferocemente irritarlo, al popolo
piace non poco, e stupidamente lo ammira. Che gli altri ceti debbano essere corrottissimi
dal lusso che praticano, inutile mi pare il dimostrarlo.
Corrotti in una nazione tutti i diversi
ceti, è manifestamente impossibile che ella diventi o duri mai libera, se da prima il
lusso che è il più feroce corruttore di essa, non si sbandisce. Principalissima cura
perciò del tiranno debb'essere, ed è, (benché alle volte la stolta ostentazione del
contrario ei vada facendo) l'incoraggire, propagare, ed accarezzare il lusso, da cui egli
ritrae più assai giovamento che da un esercito intero. E il detto fin qui, basti per
provare che non v'ha cosa nelle nostre tirannidi, che ci faccia più lietamente sopportare
e anche assaporare la servitù, che l'uso continuo e smoderato del lusso: come pure, a
provare ad un tempo, che dove radicata si è questa peste, non vi può sorgere od allignar
libertà.
Si esamini ora, se là, dove già è
stabilita una qualunque libertà, possa allignare il lusso; e qual dei due debba cedere il
campo. S'io bado alle storie, in ogni secolo, in ogni contrada, vedo sempre sparire la
libertà da tutti quei governi che han lasciato introdurre il lusso dei privati; e mai non
la vedo robustamente risorgere fra quei popoli, che son già corrotti dal lusso. Ma,
siccome la storia di tutto ciò che è stato non è forse assolutamente la prova
innegabile di tutto ciò che può essere; a me pare, che alla disuguaglianza delle
ricchezze nei cittadini non ancora interamente corrotti, in quel brevissimo intervallo in
cui possono essi mantenersi tali, i governi liberi non abbiano altro rimedio da opporre
più efficace che la semplice opinione. Quindi volendo essi concedere a queste mal
ripartite ricchezze uno sfogo che ad un tempo circolare le faccia, e non distrugga del
tutto la libertà, persuaderanno ai ricchi d'impiegarle in opere pubbliche; onoreranno
questo solo loro fasto, annettendo un'idea di disprezzo a qualunque altro uso che ne
facessero i ricchi nella loro privata vita, oltre quella decenza e quegli agj ragionevoli,
richiesti dal loro stato, e compatibili colla pubblica decenza. I liberi governi
persuaderanno ad un tempo agli uomini poveri, (non intendo con ciò dire, ai pezzenti) che
non è delitto né infamia l'esser tali; e lo persuaderan facilmente, coll'accordare a
questi non meno che agli altri l'adito a tutti gli onori ed uffizj. E non per insultare
alla miseria escludo io principalmente i necessitosi; ma perché costoro, come troppo
corrottibili, e per lo più vilmente educati, non sono meno lontani dalla possibilità del
dritto pensare e operare, di quel che lo siano, per le ragioni appunto contrarie, i
ricchissimi.
Ma queste saggie cautele riusciranno pur
anche inutili a lungo andare. La natura dell'uomo non si cangia; dove ci sono ricchezze
grandi e disugualmente ripartite, o tosto o tardi dee sorgere un gran lusso fra i privati,
e quindi una gran servitù per tutti. Questa servitù difficilmente da prima si può
allontanare da un popolo dove alcuni ricchissimi siano, e poverissimi i più; ma quando
poi ella si è cominciata a introdurre, provato che hanno i ricchissimi quanto la
universal servitù riesca favorevole al loro lusso, vivamente poi sempre si adoprano
affinch'ella non si possa più scuoter mai.
Sarebbe dunque mestieri, a voler
riacquistare durevole libertà nelle nostre tirannidi, non solamente il tiranno
distruggere, ma pur troppo anche i ricchissimi, quali che siano; perché costoro, col
lusso non estirpabile, sempre anderan corrompendo se stessi ed altrui.
Capitolo Decimoquarto
DELLA MOGLIE E PROLE DELLA TIRANNIDE
Come in un mostruoso
governo, dove niun uomo vive sicuro né del suo, né di se stesso, ve ne siano pure alcuni
che ardiscano scegliere una compagna della propria infelicità, e perpetuare ardiscano la
propria e l'altrui servitù col procrearvi dei figli, difficil cosa è ad intendersi,
ragionando; ed impossibile parrebbe a credersi, se tutto dì nol vedessimo. Dovendone
addur le ragioni, direi; che la natura, in ciò più possente ancora che non è la
tirannide, spinge gl'individui ad abbracciar questo conjugale stato con una forza più
efficace di quella con cui la tirannide da esso gli stoglie. E non volendo io ora
distinguere se non in due soli ceti questi uomini soggiogati da un tale governo, cioè in
poveri e ricchi; direi, che si ammogliano nella tirannide i ricchi, per una loro stolta
persuasione che la stirpe loro, ancorché inutilissima al mondo e spesso anche oscura, vi
riesca nondimeno necessaria, e gran parte del di lui ornamento componga; i poveri, perché
nulla sanno, nulla pensano, e in nulla possono oramai peggiorare il loro infelicissimo
stato.
Lascio per ora da parte i poveri; non
già perché sprezzabili siano, ma perché ad essi nuoce assai meno il far come fanno.
Parlerò espressamente de' ricchi; non per altra ragione, se non perché essendo, o
dovendo costoro essere meglio educati; avendo essi in qualche picciola parte conservato il
diritto di riflettere; e non potendo quindi non sentire la loro servitù; debbono i
ricchi, quando non siano del tutto stolidi, moltissimo riflettere alle conseguenze del
pigliar moglie nella tirannide. E per fare una distinzione meno spiacente, o meno
oltraggiosa per gli uomini, che non è quella di poveri e ricchi, la farò tra gli enti
pensanti, ed i non pensanti. Dico dunque, che chi pensa, e può campare senza guadagnarsi
il vitto, non dee mai pigliar moglie nella tirannide; perché, pigliandovela, egli
tradisce il proprio pensare, la verità, se stesso, e i suoi figli. Non è difficile di
provare quanto io asserisco. Suppongo, che l'uomo pensante dee conoscere il vero; quindi
indubitabilmente si dee dolere non poco in se stesso di esser nato nella tirannide;
governo, in cui nulla d'uomo si conserva oltre la faccia. Ora, colui che si duole di
esservi nato, avrà egli il coraggio, o per dir meglio, la crudeltà, di farvisi rinascere
in altrui? di aggiungere al timore che egli ha per se stesso, l'avere a temere per la
moglie, e quindi pe' figli? Parmi ciò un moltiplicare i mali a tal segno, che io non
potrò pur mai credere, che chi piglia moglie nella tirannide, pensi, e conosca pienamente
il vero.
Il primo oggetto del matrimonio egli è,
senza dubbio, di avere una fedele e dolce compagna delle private vicende, la quale dalla
morte soltanto ci possa esser tolta. Supponendo ora il non supponibile, cioè che in una
tirannide non fossero corrotti i costumi, onde questa compagna potesse non aver altra cura
né desiderio, che di piacere al marito; chi può assicurare costui, che ella dal tiranno,
o dai suoi tanti potenti satelliti, non gli verrà sedotta, corrotta, o anche tolta?
Collatino, parmi, è un esempio chiaro abbastanza per dimostrare la possibilità di un tal
fatto: ma gli alti effetti che da quello stupro ne nacquero, sono ai tempi nostri assai
meno sperabili, benché le cagioni tutto dì ne sussistano. Mi odo già dire; Che il
tiranno non può voler la moglie di tutti; che è caso anche raro nei nostri presenti
costumi, ch'egli cerchi a sedurne due o tre; e che questo farà egli con promesse, doni,
ed onori ai mariti, ma non mai con l'aperta violenza. Ecco le scellerate ragioni che
rassicurano il cuore dei presenti mariti, i quali niun'altra cosa temono al mondo, che di
non esser essi quei felici che compreranno a prezzo della propria infamia il diritto di
opprimere i meno vili di loro. Molti secoli dopo Collatino, nelle Spagne, rozze ancora e
quindi non molto corrotte, un altro regio stupro ne facea cacciare i tiranni indigeni, e
chiamarne de' nuovi stranieri. Ma nei tempi nostri illuminati e dolcissimi, uno stupro con
violenza accader non potrebbe, perché non v'è donna che si negasse al tiranno; e la
vendetta qualunque, se egli pure accadesse, ne riuscirebbe impossibile; perché non v'è
padre o fratello o marito, che non si stimasse onorato di un tal disonore. E la verità
qui mi sforza a dir cosa, che nelle tirannidi moverà al riso il più degli schiavi, ma
che in qualche altro cantuccio del globo, dove i costumi e la libertà rifugiati si siano,
moverà ad un tempo dolore, maraviglia, e indegnazione; ed è, che se pure ai dì nostri
vi fosse quel tale insofferente e magnanimo, che con memorabile vendetta facesse ripentire
il tiranno di avergli fatto un così grave oltraggio, l'universale lo tratterebbe di
stolido, d'insensato, e di traditore; e stranezza chiamerebbero in lui il non voler con
molti manifesti vantaggi sopportar dal tiranno quella ingiuria stessa, che tutto dì si
suole, senza utile niuno, ricevere e sopportar dai privati. Inorridisco io stesso nel
dover riferire queste argute viltà, che sono il più elegante condimento del moderno
pensare; e che, con vocabolo francese, lietamente chiamansi SPIRITO: ma nella forza del
vero talmente confido, che io ardisco sperare che tornerà pure un tal giorno, in cui, non
meno ch'io nello scrivere di tali costumi, inorridiranno i molti nel leggerli.
Se nell'ammogliarsi dunque il primo scopo
si è d'aver moglie; ove non si voglia pure confondere (come di tante altre cose si fa) il
mantenerla coll'averla; avere non si può, perché se non la tolgono al marito il tiranno,
o alcuno de' tanti suoi sgherri, ai quali invano si resisterebbe, gliela tolgono
infallibilmente i corrotti scellerati universali costumi, conseguenza necessarissima
dell'universal servitù.
Ora, che dirò io dei figli? Quanto più
cari essere sogliono i figli che la moglie, tanto più grave e funesto è l'errore di chi
procreandoli somministra al tiranno un sì possente mezzo di più per offenderlo,
intimorirlo, ed opprimerlo; come a se stesso procaccia un mezzo di più per esserne offeso
ed oppresso. E da una delle due susseguenti sventure è impossibile cosa di preservarsi. O
i figli dell'uomo pensante si educheranno simili al padre; e perciò, senza dubbio,
infelicissimi anch'essi: o dal padre riescon dissimili, e infelicissimo lui renderanno.
Nati per le triste loro circostanze al servire, non si possono, senza tradirgli, educare
al pensare; ma, nati pur sempre per natura al pensare, non può lo sventurato padre, senza
tradire la verità il suo onore e se stesso, educargli al servire.
Qual partito rimane adunque nella
tirannide all'uomo pensante, quando egli, per somma sfortuna e inescusabile
sconsideratezza, ha dato pur l'essere ad altri infelici? È di tal sorta l'errore, che il
pentimento non vale; così terribili ne sono gli effetti e così inevitabili, che le vie
di mezzo non bastano. Bisognerebbe dunque nelle tirannidi, o soffocare i proprj figliuoli
appena son nati, o abbandonargli alla pubblica educazione ed al volgar non-pensare. Questo
partito da quasi tutti i moderni padri si siegue, e non è men crudele dell'altro, ma
molto è più vile bensì. E, a chi mi dicesse (ciò che anch'io pur troppo so, ancorch'io
padre non sia) che troppo alla natura ripugna il trucidare i proprj figliuoli,
risponderei; che ripugna alla natura nostra non meno il ciecamente servire all'arbitrio e
alla violenza d'un solo: e se poi così bene al servir ci avvezziamo, questo infame pregio
in noi non si accresce, se non se in proporzione che si scemano in noi tutti gli altri
naturali e veri pregi dell'uomo. Quindi è, che i filosofi pensatori fra i popoli liberi
nessuna differenza, o pochissima, han posto infra la vita d'un bruto, e quella d'un uomo,
che non sia per aver mai libertà, volontà, sicurezza, costumi, ed onore verace. E tali
pur troppo debbono riuscire quei figli, che stoltamente procreati si sono nella tirannide;
a cui se il padre non toglie la vita del corpo, necessariamente toglie loro una più
nobile vita, quella dell'intelletto e dell'animo: ovvero, se sventuratamente l'una e
l'altra in essi del pari coltiva, altro non fa un tal misero padre, che educar vittime per
la tirannide.
Conchiudo; che chi ha moglie e prole nella tirannide, tante più volte è replicatamente
schiavo, e avvilito, quanti più sono gl'individui per cui egli è sforzato sempre a
tremare.
Capitolo Decimoquinto
DELL'AMOR DI SE STESSO NELLA TIRANNIDE
La tirannide è tanto contraria alla nostra natura, ch'ella sconvolge, indebolisce, od annulla nell'uomo presso che tutti gli affetti naturali. Quindi non si ama da noi la patria, perché ella non ci è; non si amano i parenti, la moglie, ed i figli, perché son cose poco nostre e poco sicure; non vi sono veri amici, perché l'aprire interamente il suo cuore nelle cose importanti, può sempre trasmutare un amico in un delatore premiato, e spesso anche (pur troppo!) in un delatore onorato. L'effetto necessario, che risulta nel cuor dell'uomo dal non potere amar queste cose su mentovate, si è, di amare smoderatamente se stesso. E parmi, che ne sia questa una delle principali ragioni: dal non essere securo, nasce nell'uomo il timore; dal continuo temere, nascono i due contrarj eccessi; o un soverchio amore, o una soverchia indifferenza per quella cosa che sta in pericolo: nella tirannide, temendo sempre noi tutti per le cose nostre e per noi, ma amando (perché così vuol natura) prima d'ogni altra cosa noi stessi, ne veniamo a poco a poco a temere sommamente per noi, e ogni dì meno per quelle cose nostre, che non fanno parte immediata di noi. Nelle repubbliche vere, amavano i cittadini prima la patria, poi la famiglia, quindi se stessi: nelle tirannidi all'incontro, sempre si ama la propria esistenza sopra ogni cosa. Perciò l'amor di se stesso nella tirannide non è già l'amore dei proprj diritti, né della propria gloria, né del proprio onore; ma è semplicemente l'amor della vita animale. E questa vita, per una non so qual fatalità, nello stesso modo che la vediamo tenersi tanto più cara dai vecchj, i quali oramai l'han perduta, che non dai giovani, a cui tutta rimane; così tanto più riesce cara a chi serve, quanto ella è men sicura, e val meno.
Capitolo Decimosesto
SE SI POSSA AMARE IL TIRANNO, E DA CHI
Colui che potrà
impunemente offendere tutti, e non essere mai impunemente offeso da chi che sia, sarà per
necessità temutissimo, e quindi per necessità abborrito da tutti. Ma costui potendo
altresì beneficare, arricchire, onorare chi più gli piace, chiunque riceve favori da lui
non può senza una vile ingratitudine, e senza essere assai peggiore di lui, non amarlo.
Rispondo a ciò, che il tutto è verissimo; e più d'ogni cosa vero è, che chiunque
riceve favori dal tiranno suol essergli sempre ingrato nel cuore; ed è quasi sempre assai
peggiore di lui.
Dovendone assegnar le ragioni, direi; che
il troppo immenso divario fra le cose che il tiranno può dare e quelle che può togliere,
rende necessario ed estremo lo abborrimento nei molti oltraggiati, e finto e stentato
l'amore nei pochi beneficati. Egli può dare ricchezze, autorità, e onori supposti; ma
egli può togliere tutto ciò ch'ei dà, e di più la vita, e il vero onore; cose, che non
è in sua possanza di dare egli mai a nessuno.
Con tutto ciò, la totale ignoranza dei
proprj diritti può benissimo far nascere in alcuni uomini questo funesto errore, di amare
in un certo modo colui che spogliandoli delle loro più sacre prerogative d'uomo, non
toglie però loro la proprietà di alcune altre cose minori; il che, a parer di costoro,
egli potrebbe pur anche legittimamente, o almeno con impunità, praticare. E certo uno
stranissimo amore fia questo, e in tutto per l'appunto paragonabile a quell'amore che si
verrebbe ad aver per una tigre, che non ti divorasse potendolo. Cadranno in questo stupido
affetto le genti rozze e povere, che non hanno altra felicità, se non quella di non
vedere mai il tiranno, e di neppure conoscerlo; e costoro assai poco verranno a temerlo,
perché pochissimo a loro rimane da perdere: onde una certa tal quale giustizia venendo
loro amministrata in nome di esso, la loro irriflessiva ignoranza fa loro credere, che
senza il tiranno neppur quella semi-giustizia otterrebbero. Ma non potranno certamente mai
pensare in tal modo coloro, che tutto dì se gli accostano, e che ne conoscono
l'incapacità o la reità; ancorché ne ritraggano essi splendore, onori, e ricchezze.
Troppo è nota a questi pochi la immensa potenza del tiranno, troppo care tengono essi
quelle ricchezze che ne han ricevute, per non temere sommamente colui che le può loro
nello stesso modo ritogliere: e il temere e l'odiare sono interamente sinonimi.
Ma pure, il timore, pigliando nelle corti
la maschera dell'amore, vi si viene a comporre un misto mostruosissimo affetto, degno
veramente dei tiranni che lo ispirano, e degli schiavi che lo professano. Quello stesso
Sejano, che nella grotta crollante e vicinissima a rovinare, salvava la vita a Tiberio con
manifesto pericolo della propria, avendone egli dappoi ricevuti infiniti altri favori,
congiurava pur contro lui. Sejano, amava egli Tiberio in quel punto in cui pose se stesso
a un così evidente pericolo per salvarlo? certo no: Sejano in quel punto serviva dunque
alla propria sua ambizione, nello stesso modo che ogni giorno vediamo nei nostri eserciti
i più splendidi e molli e corrotti officiali di essi affrontare la morte, non per altro
se non per far progredire la loro ambizioncella, e per maggiormente acquistarsi la grazia
del tiranno. Sejano, abborriva egli maggiormente Tiberio quando gli congiurò contra, che
quando il salvò? assai più certamente abborrivalo dopo, perché la immensità delle cose
da lui ricevute, gli facea più da presso e con maggior terrore rimirare la immensità,
più grande ancora, delle cose che quello stesso Tiberio gli poteva ritogliere. Quindi,
non si credendo Sejano in sicuro, se egli non ispegneva quella sola potenza che avrebbe
potuto trionfar della sua, non dubitò poscia punto, anzi con lungo e premeditato disegno,
imprese a togliersi il tiranno dagli occhi. Né ai Tiberj, in qualunque tempo o luogo essi
nascano e regnino, toccar mai potranno altri amici se non i Sejani. Se dunque il tiranno
è sommamente abborrito da quegli stessi ch'egli benefica, che sarà egli poi da quei
tanti che direttamente o indirettamente egli offende o dispoglia?
La sola intera stupidità dei poveri e
rozzi e lontani, può dunque (come ho di sopra dimostrato) amare il tiranno, appunto
perché nessuno di questi lo vede né lo conosce; e questo amarlo va interpretato, il non
affatto abborrirlo. Da ogni altra persona qualunque, nella tirannide, si può fingere
bensì e anche far pompa di amare il tiranno; ma veramente amarlo, non mai. Questa servile
bugiarda ed infame pompa verrà per lo più praticata dai più vili; e da quelli perciò,
i quali maggiormente temendolo, maggiormente lo abborriscono.
Capitolo Decimosettimo
SE IL TIRANNO POSSA AMARE I SUOI SUDDITI, E COME
Nello stesso
modo con cui si è di sopra dimostrato, che i sudditi non possono amare il tiranno,
perché essendo egli troppo smisuratamente maggiore di loro non corre proporzione nessuna
fra il bene ed il male che ne possono essi ricevere; nel modo stesso mi sarà facile il
dimostrare, che il tiranno non può amare i suoi sudditi; perché, essendo essi tanto
smisuratamente minori di lui, non ne può egli ricevere alcuna specie di bene spontaneo,
riputandosi egli in dritto di prendere qualunque cosa essi volessero dargli. E si noti
così alla sfuggita, che lo amare, o sia egli di amicizia, o d'amore, o di benignità, o
di gratitudine, o d'altro; lo amare si è uno degli umani affetti, che più di tutti
richiede, se non perfettissima uguaglianza, rapprossimazione almeno e comunanza, e
reciprocità fra gli individui. Ammessa questa definizione dell'amare umano, ciascuno
rimane giudice, se niuna di tutte queste cose sussistere possa infra il tiranno e i suoi
schiavi; cioè, fra la parte sforzante e la parte sforzata.
Corre nondimeno una gran differenza, in
questa reciproca maniera del non-amarsi, infra il tiranno ed i sudditi. Questi, come
tutti, (qual più qual meno, quale direttamente quale indirettamente, quale in un tempo e
quale nell'altro) come offesi tutti e costretti dal tiranno, tutti lo abborriscono per lo
più, e così dev'essere: ma il tiranno, come un ente non offendibile dall'universale,
fuorché per manifesta ribellione contra di lui; il tiranno non abborrisce se non se quei
pochissimi che egli vede o suppone essere nel loro cuore insofferenti del giogo; che se
costoro mai si attentassero di mostrarlo, la vendetta del tiranno immediatamente verrebbe
ad estinguerne l'odio. Non odia dunque il tiranno i suoi sudditi, perché in veruna
maniera essi non l'offendono: e qualora si ritrova in trono per caso un qualche tiranno
d'indole mite ed umana, egli si può pur anche usurpare la fama di amarli; né in tal
caso, da altro una tal fama proviene, se non dall'essere la natura di quel principe, per
se stessa, men rea di quel che lo sia per se stessa l'autorità e la possibilità impunita
del nuocere, che è posta in lui. Ma io, sbadatamente, quasi ometteva una validissima
ragione per cui il tiranno dee anch'egli (e non poco) se non abborrire, disprezzare almeno
quella parte de' suoi sudditi che egli vede abitualmente e conosce; ed è questa; che
quella parte di essi che gli si fa innanzi, e che cerca di avere alcuna comunicazione col
tiranno, ella è certamente la più rea di tutte; ed egli, dopo una certa esperienza di
regno, ne viene manifestamente convinto. Quanto alla parte ch'egli non conosce né vede, e
che in veruna maniera non lo offende, io mi fo a credere che il tiranno dotato di umana
indole la possa benissimo amare: ma questo indefinibile amore di colui che può giovare e
nuocere sommamente, per quelli che non possono a lui giovare né nuocere, non si può
assomigliare ad alcun altro amore, che a quello con cui gli uomini amano i loro cani e
cavalli; cioè, in proporzione della loro docilità, ubbidienza, e perfetta servitù. Ma
certamente assai minor differenza soglion porre i padroni fra essi e i loro cani e
cavalli, di quella che ponga il tiranno, ancorché moderato, infra se stesso e i suoi
sudditi. Cotesto suo amore per essi non sarà dunque altro, che un oltraggio di più da
lui fatto alla trista specie degli uomini.
Capitolo Decimottavo
DELLE TIRANNIDI AMPIE, PARAGONATE COLLE RISTRETTE
Che siano più orgogliosi e superbi i tiranni delle estese
tirannidi, come assai più potenti, la intendo: ma, che gli schiavi delle estese tirannidi
ardiscano reputarsi da più che gli schiavi delle ristrette, parmi esser questo il più
espresso delirio che possa entrare nella mente dell'uomo; ed una evidentissima prova mi
pare, che gli schiavi non pensano e non ragionano. Se la ragione potesse ammettere alcuna
differenza fra schiavo e schiavo, ella sarebbe certamente in favore del minor gregge.
Quanti più sono gli uomini che ciecamente obbediscono ad un solo, tanto più vili e
stupidi ed infami riputare si debbono, vie più sempre scemandosi la proporzione tra
l'oppressore e gli oppressi. Quindi nell'udire io le millanterie d'un Francese, o d'uno
Spagnuolo, che riputar si vorrebbe un ente maggiore di un Portoghese, o di un Napoletano,
parmi di udire una pecora del regio armento schernire la pecora d'un contadino, perché
questa pasce in una mandra di dieci, ed ella in una mandra di mille.
Se dunque differenza alcuna vi passa fra le tirannidi grandi e le picciole, ella non istà
nella essenza della cosa, che una sola è per tutto; ma nella persona bensì del tiranno.
Qualunque di essi si troverà soverchiare oltremodo in potenza i vicini tiranni, ne
diverrà verisimilmente più prepotente coi sudditi, dovendo egli nelle sue ampie
circostanze molto minori rispetti adoprare: ma per altra parte, avendo egli più numero di
sudditi, più importanti affari, più onori da distribuire, più ricchezze da pigliarsi e
da dare, (e non avendo con tutto ciò maggior senno) quella sua autorità riuscirà
alquanto men fastidiosa nelle cose minute, ma egualmente inetta, ed assai più gravosa,
nelle importanti. Il tiranno picciolo dovendo all'incontro usare infiniti rispetti co'
suoi vicini, sforzato sarà di rimbalzo ad osservarne anche qualcuno più co' suoi
sudditi: onde egli nell'offenderli, massimamente nella roba, dovrà procedere alquanto
più guardingo. Ma, volendo egli pur dare sfogo alla sua autorità soverchiante,
facilmente verrà ad impacciarsi nei più minuti affari dei privati; ed affacciandosi,
direi così, allo sportello di ogni casa, vorrà saperne, e frammettersi nei più minimi
pettegolezzi di quelle.
Nelle tirannidi ampie i miseri sudditi saranno dunque maggiormente angariati, nelle
ristrette più infastiditi; ed ugualmente infelici in entrambe: perché agli uomini non
arreca minor danno e dolore la noja, che l'oppressione.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 16 ottobre, 1999