Vittorio Alfieri
Della Tirannide
Capitolo Quinto
DELL'AMBIZIONE
Quel possente
stimolo, per cui tutti gli uomini, qual più, qual meno, ricercando vanno di farsi
maggiori degli altri, e di sé; quella bollente passione, che produce del pari e le più
gloriose e le più abbominevoli imprese; l'ambizione in somma, nella tirannide non perde
punto della sua attività, come tante altre nobili passioni dell'uomo, che in un tal
governo intorpidite rimangono e nulle. Ma, l'ambizione nella tirannide, trovandosi
intercette tutte le vie e tutti i fini virtuosi e sublimi, quanto ella è maggiore,
altrettanto più vile riesce e viziosa.
Il più alto scopo dell'ambizione in chi
è nato non libero, si è di ottenere una qualunque parte della sovrana autorità: ma in
ciò quasi del tutto si assomigliano e le tirannidi e le più libere e virtuose
repubbliche. Tuttavia, quanto diversa sia quell'autorità parimente desiata, quanto
diversi i mezzi per ottenerla, quanto diversi i fini allor quando ottenuta siasi, ciascuno
per se stesso lo vede. Si perviene ad un'assoluta autorità nella tirannide, piacendo,
secondando, e assomigliandosi al tiranno: un popolo libero non concede la limitata e
passeggera autorità, se non se a una certa virtù, ai servigj importanti resi alla
patria, all'amore del ben pubblico in somma, attestato coi fatti. Né i tutti possono
volere altro utile mai, che quello dei tutti; né altri premiare, se non quelli che
arrecano loro quest'utile. È vero nondimeno, che possono i tutti alle volte ingannarsi,
ma per breve tempo; e l'ammenda del loro errore sta in essi pur sempre. Ma il tiranno, che
è uno solo, ed un contra tutti, ha sempre un interesse non solamente diverso, ma per lo
più direttamente opposto a quello di tutti: egli dee dunque rimunerare chi è utile a
lui; e quindi, non che premiare, perseguitare e punire debb'egli chiunque veramente
tentasse di farsi utile a tutti.
Ma, se il caso pure volesse che il bene
di quell'uno fosse ad un tempo in qualche parte il bene di tutti, il tiranno nel
rimunerarne l'autore pretesterebbe forse il ben pubblico; ma, in essenza, egli
ricompenserebbe il servigio prestato al suo privato interesse. E così colui, che avrà
per caso servito lo stato (se pure una tirannide può dirsi mai stato, e se giovar si può
ai servi, non liberandoli prima d'ogni cosa dalla lor servitù) colui pur sempre dirà,
ch'egli ha servito il tiranno; svelando con queste parole o il vile suo animo, o il suo
cieco intelletto. Ed il tiranno stesso, ove la paura sua, e la dissimulazione che n'è
figlia, non gli vadano rammentando che si dee pur nominare, almeno per la forma, lo stato;
il tiranno anch'egli dirà, per innavvertenza, di aver premiato i servigj prestati a lui
stesso.
Così Giulio Cesare scrittore, parlando
di Giulio Cesare capitano, e futuro tiranno, si lasciava sfuggir dalla penna le seguenti
parole: Scutoque ad eum (ad Caesarem) relato Scaevae Centurionis, inventa sunt
in eo foramina CCXXX: quem Caesar, ut erat DE SE meritus et de republica, donatum millibus
ducentis, etc. Si vede in questo passo dalle parole, DE SE meritus, quanto il
buon Cesare, essendosi pure prefisso nei suoi commentarj di non parlar di se stesso se non
alla terza persona, ne parlasse qui inavvertentemente alla prima; e talmente alla prima,
che la parola de republica non veniva che dopo la parola DE SE, quasi per
formoletta di correzione. In tal modo scriveva e pensava il più magnanimo di tutti i
tiranni, allor quando non si era ancor fatto tale; quando egli stava ancora in dubbio se
potrebbe riuscir nella impresa: ed era costui nato e vissuto cittadino fino a ben oltre
gli anni quaranta. Ora, che penserà e dirà egli su tal punto un volgare tiranno? colui,
che nato, educato tale, certo di morire sul trono, se ne vive fino alla sazietà nauseato
di non trovar mai ostacoli a qualunque sua voglia?
Risulta, mi pare, da quanto ho detto fin
qui; che l'ottenere il favore di un solo attesta pur sempre più vizj che virtù in colui
che l'ottiene; ancorché quel solo che lo accorda, potesse esser virtuoso; poiché, per
piacere a quel solo, bisogna pur essere o mostrarsi utile a lui, mentre la virtù vuole
che l'uomo pubblico evidentemente sia utile al pubblico. E parimente risulta dal fin qui
detto; che l'ottenere il favore di un popolo libero, ancorché corrotto sia egli, attesta
nondimeno necessariamente in chi l'ottiene, alcuna capacità e virtù; poiché, per
piacere a molti ed ai più, bisogna manifestamente essere, o farsi credere, utile a tutti;
cosa, che, o da vera o da finta intenzione ella nasca, sempre a ogni modo richiede una tal
quale capacità e virtù. In vece che il mostrarsi piacevole ed utile a un solo potente
col fine di usurparsi una parte della di lui potenza, richiede sempre e viltà di mezzi, e
picciolezza di animo, e raggiri, e doppiezze, e iniquità moltissime, per competere e
soverchiare i tanti altri concorrenti per lo stesso mezzo ad una cosa stessa.
E quanto asserisco, mi sarà facile il
provar con esempj. Erano già molto corrotti i Romani, e già già vacillava la lor
libertà, allorché Mario, guadagnati a sé i suffragj del popolo, si facea console a
dispetto di Silla e dei nobili. Ma si consideri bene quale si fosse codesto Mario; quali e
quante virtù egli avesse già manifestate e nel foro e nel campo; e tosto si vedrà che
il popolo giustamente lo favoriva, poiché (secondo le circostanze ed i tempi) le virtù
sue soverchiavano di molto i suoi vizj. Erano i Francesi, non liberi, (che stati fino ai
dì nostri non lo sono pur mai) ma in una crisi favorevole a far nascere libertà, ed a
fissare per sempre i giusti limiti di un ragionevole principato, allorché saliva sul
trono Arrigo quarto, quell'idolo dei Francesi un secolo dopo morte. Sully,
integerrimo ministro di quell'ottimo principe, ne godeva in quel tempo, e ne meritava, il
favore. Ma, se si vuole per l'appunto appurare qual fosse la politica virtù di codesti
due uomini, ella si giudichi da quello che fecero. Sully, ebbe egli mai la virtù e
l'ardire di prevalersi di un tal favore, e di sforzare con evidenza di ragioni
inespugnabili quell'ottimo re, a innalzare per sempre le stabili e libere leggi sopra di
sé e dei suoi successori? e se egli ne avesse avuto l'ardire, si può egli presumere, che
avrebbe conservato il favore di Arrigo? Dunque codesto favore di un tiranno anche ottimo,
non si può assolutamente acquistar dal suo suddito per via di vera politica virtù; né
si può (molto meno) per via di vera politica virtù conservare.
Esaminiamo ora da prima i fonti
dell'autorità. I mezzi per ottenerla nelle repubbliche, sono il difenderle e
l'illustrarle; lo accrescerne l'impero e la gloria; l'assicurarne la libertà, ove sane
elle siano; il rimediare agli abusi, o tentarlo, se corrotte elle sono; e in fine, il
dimostrar loro sempre la verità, per quanto spiacevole ed oltraggiosa ella paja.
I mezzi per ottenere autorità dal
tiranno, sono il difenderlo, ma più ancora dai sudditi che non dai nemici; il laudarlo;
il colorirne i difetti; lo accrescerne l'impero e la forza; l'assicurarne l'illimitato
potere apertamente, s'egli è un tiranno volgare; lo assicurarglielo sotto apparenza di
ben pubblico, s'egli è un accorto tiranno: e a ogni modo, il tacere a lui sempre, e sovra
tutte le altre, questa importantissima verità: Che sotto l'assoluto governo di un solo
ogni cosa debb'essere indispensabilmente sconvolta e viziosa. Ed una tal verità è
impossibile a dirsi da chi vuol mantenersi il favor del tiranno; ed è forse impossibile a
pensarsi e sentirsi da chi lo abbia ricercato mai, e ottenuto. Ma, questa manifesta e
divina verità, riesce non meno impossibile a tacersi da chi vuol veramente il bene di
tutti: e impossibile finalmente riesce a soffrirsi dal tiranno, che vuole, e dee volere,
prima d'ogni altra cosa, il privato utile di se stesso.
Le corti tutte son dunque per necessità
ripienissime di pessima gente; e, se pure il caso vi ha intruso alcun buono, e che tale
mantenervisi ardisca, e mostrarsi, dee tosto o tardi costui cader vittima dei tanti altri
rei che lo insidiano, lo temono, e lo abborriscono, perché sono vivamente offesi dalla di
lui insopportabil virtù. Quindi è, che dove un solo è signore di tutto e di tutti, non
può allignare altra compagnia, se non se scellerata. Di questa verità tutti i secoli, e
tutte le tirannidi, han fatto e faranno indubitabile fede; e con tutto ciò, in ogni
secolo, in ogni tirannide, da tutti i popoli servi ella è stata e sarà pochissimo
creduta, e meno sentita. Il tiranno, ancorché d'indole buona sia egli, rende
immediatamente cattivi tutti coloro che a lui si avvicinano; perché la sua sterminata
potenza, di cui (benché non ne abusi) mai non si spoglia, vie maggiormente riempie di
timore coloro che più da presso la osservano: dal più temere nasce il più simulare; e
dal simulare e tacere, l'esser pessimo e vile.
Ma, dall'ambizione nella tirannide ne
ridonda spesso all'ambizioso un potere illimitato non meno che quello del tiranno; e tale,
che nessuna repubblica mai, a nessuno suo cittadino, né può né vuole compatirne un sì
grande. Perciò pare ai molti scusabile colui, che essendo nato in servaggio, ardisce pure
proporsi un così alto fine; di farsi più grande che lo stesso tiranno, all'ombra della
di lui imbecillità, o della di lui non curanza. Risponda ciascuno a questa obiezione, col
domandare a se stesso: "Un'autorità ingiusta, illimitata, rapita, e precariamente
esercitata sotto il nome d'un altro, ottener si può ella giammai, senza inganno? Può
ella esercitarsi mai, senza nuocere a molti, e per lo meno ai concorrenti ad essa?
Può ella finalmente mai
conservarsi, senza frode crudeltà e prepotenza nessuna?"
Si ambisce dunque l'autorità nelle repubbliche, perché ella in chi l'acquista fa fede di
molte virtù, e perch'ella presta largo campo ad accrescersi quell'individuo la propria
gloria coll'util di tutti. Si ambisce nelle tirannidi, perché ella vi somministra i mezzi
di soddisfare alle private passioni; di sterminatamente arricchire; di vendicare le
ingiurie e di farne, senza timor di vendetta; di beneficare i più infami servigj; e di
fare in somma tremare quei tanti che nacquero eguali, o superiori, a colui che la
esercita. Né si può in verun modo dubitare, che nella repubblica, e nella tirannide, gli
ambiziosi non abbiano questi fra loro diversi disegni. Già prima di acquistare
l'autorità il repubblicano benissimo sa che non potrà egli sempre serbarla; che non
potrà abusarne, perché dovrà dar conto di sé rigidissimo ai suoi eguali; e che
l'averla acquistata è una prova che egli era migliore, o più atto da ciò, che non i
competitori suoi. Così, nella tirannide, non ignora lo schiavo, che quella autorità
ch'egli ambisce, non avrà nessun limite; ch'ella è perciò odiosissima a tutti; che lo
abusarne è necessario per conservarla; che il ricercarla attesta la pessima indole del
candidato; che l'ottenerla chiaramente dimostra ch'egli era tra i concorrenti tutti il
più reo. Eppure codesti due ambiziosi, queste cose tutte sapendo già prima, senza punto
arrestarsi corrono entrambi del pari la intrapresa carriera. Ora, chi potrà pure asserire
che l'ambizioso in repubblica non abbia per meta la gloria più assai che la potenza? e
che l'ambizioso nella tirannide si proponga altra meta, che la potenza, la ricchezza, e la
infamia?
Ma, non tutte le ambizioni, hanno per
loro scopo la suprema autorità. Quindi, nell'uno e nell'altro governo, si trova poi
sempre un infinito numero di semi-ambiziosi, a cui bastano i semplici onori senza potenza;
ed un numero ancor più infinito di vili, a cui basta il guadagno senza potenza né onori.
E milita anche per costoro, nell'uno e nell'altro governo, la stessa differenza e ragione.
Gli onori nelle repubbliche non si rapiscono coll'ingannare un solo, ma si ottengono col
giovare o piacere ai più: ed i più non vogliono onorare quell'uno, se egli non lo merita
affatto; perché facendolo, disonorano pur troppo se stessi. Gli onori nella tirannide (se
onori chiamar pur si possono) vengono distribuiti dall'arbitrio d'un solo; si accordano
alla nobiltà del sangue per lo più; alla fida e total servitù degli avi; alla perfetta
e cieca obbedienza, cioè all'intera ignoranza di se stesso; al raggiro; al favore; e
alcune volte, al valore contra gli esterni nemici.
Ma, gli onori tutti (qualunque siano)
sempre per loro natura diversi in codesti diversi governi, sono pur anche, come ognun
vede, per un diverso fine ricercati. Nella tirannide, ciascuno vuol rappresentare al
popolo una anche menoma parte del tiranno. Quindi un titolo, un nastro, o altra simile
inezia, appagano spesso l'ambizioncella d'uno schiavicello; perché questi onorucci fan
prova, non già ch'egli sia veramente stimabile, ma che il tiranno lo stima; e perché
egli spera, non già che il popolo l'onori, ma che lo rispetti e lo tema. Nella
repubblica, manifesta e non dubbia cosa è, per qual ragione gli onori si cerchino;
perché veramente onorano chi li riceve.
L'ambizione d'arricchire, chiamata più
propriamente CUPIDIGIA, non può aver luogo nelle repubbliche, fin ch'elle corrotte non
sono; e quando anche il siano, i mezzi per arricchirvi essendo principalmente la guerra,
il commercio, e non mai la depredazione impunita del pubblico erario, ancorché il
guadagno sia uno scopo per se stesso vilissimo, nondimeno per questi due mezzi egli viene
ad essere la ricompensa di due sublimi virtù; il coraggio, e la fede. L'ambizione
d'arricchire è la più universale nelle tirannidi; e quanto elle sono più ricche ed
estese, tanto più facile a soddisfarsi per vie non legittime da chiunque vi maneggia
danaro del pubblico. Oltre questo, molti altri mezzi se ne trovano; e altrettanti esser
sogliono, quanti sono i vizj del tiranno, e di chi lo governa.
Lo scopo, che si propongono gli uomini
nello straricchire, è vizioso nell'uno e nell'altro governo; e più ancora nelle
repubbliche che nelle tirannidi; perché in quelle si cercano le ricchezze eccessive, o
per corrompere i cittadini, o per soverchiar l'uguaglianza; in queste, per godersele nei
vizj e nel lusso. Con tutto ciò, mi pare pur sempre assai più escusabile l'avidità di
acquistare, in quei governi dove i mezzi ne son men vili, dove l'acquistato è sicuro, e
dove in somma lo scopo (ancorché più reo) può essere almeno più grande. In vece che
nei governi assoluti, quelle ricchezze che sono il frutto di mille brighe, di mille
iniquità e viltà, e dell'assoluto capriccio di un solo, possono essere in un momento
ritolte da altre simili brighe, iniquità e viltà, o dal capriccio stesso che già le
dava, o che rapire lasciavale.
Parmi d'aver parlato di ogni sorta
d'ambizione, che allignare possa nella tirannide. Conchiudo; che questa stessa passione,
che è stata e può essere la vita dei liberi stati, la più esecrabil peste si fa dei non
liberi.
Capitolo Sesto
DEL PRIMO MINISTRO
Ad consulatum non nisi per Sejanum aditus:
neque Sejani voluntas nisi scelere quaerebatur.
E fra le più
atroci calamità pubbliche, cagionate dall'ambizione nella tirannide, si dee, come
atrocissima e massima, reputar la persona del primo ministro, da me nel precedente
capitolo soltanto accennata, e di cui credo importante ora, e necessarissimo, il
discorrere a lungo.
Questa fatal dignità altrettanto maggior
lustro acquista a chi la possiede, quanto è maggiore la incapacità del tiranno, che la
comparte. Ma siccome il solo favore di esso la crea; siccome, ad un tiranno incapace non
è da presumersi che possa piacere pur mai un ministro illuminato e capace; ne risulta per
lo più, che costui non meno inetto al governare che lo stesso tiranno, gli rassomiglia
interamente nella impossibilità del ben fare, e di gran lunga lo supera nella capacità
desiderio e necessità del far male. I tiranni d'Europa cedono a codesti loro primi
ministri l'usufrutto di tutti i loro diritti; ma niuno ne vien loro accordato dai sudditi
con maggiore estensione e in più supremo grado, che il giusto abborrimento di tutti. E
questo abborrimento sta nella natura dell'uomo, che male può comportare, che altri, nato
suo eguale, rapisca ed eserciti quella autorità caduta in sorte a chi egli crede nato suo
maggiore: autorità, che per altre illegittime mani passando, viene a duplicare per lo
meno la sua propria gravezza.
Ma questo primo ministro, dal sapersi
sommamente abborrito, ne viene egli pure ad abborrire altrui sommamente; ond'egli gastiga,
e perseguita, e opprime, ed annichila chiunque l'ha offeso; chiunque può offenderlo;
chiunque ne ha, o glie ne viene imputato, il pensiero; e chiunque finalmente, non ha la
sorte di andargli a genio. Il primo ministro perciò facilmente persuade poi a quel
tiranno di legno, di cui ha saputo farsi l'anima egli, che tutte le violenze e crudeltà
ch'egli adopera per assicurare se stesso, necessarie siano per assicurare il tiranno.
Accade alle volte, che, o per capriccio, o per debolezza, o per timore, il tiranno
ritoglie ad un tratto il favore e l'autorità al ministro; lo esiglia dalla sua presenza;
e gli lascia, per singolare benignità, le predate ricchezze e la vita. Ma questa
mutazione non è altro, che un aggravio novello al misero soggiogato popolo. Il che
facilmente dimostrasi. Il ministro anteriore, benché convinto di mille rapine, di mille
inganni, di mille ingiustizie, non discade tuttavia quasi mai dalla sua dignità, se non
in quel punto, ove un altro più accorto di lui gli ha saputo far perdere il favor del
tiranno. Ma, comunque egli giunga, ei giunge pure in somma quel giorno, in cui al ministro
è ritolta l'autorità e il favore. Allora bisogna, che lo stato si prepari a sopportare
il ministro successore, il quale dee pur sempre essere di alcun poco più reo del
predecessore; ma, volendosi egli far credere migliore, innova e sovverte ogni cosa
stabilita dall'altro, ed in tutto se gli vuole mostrare dissimile. Eppure costui vuole, e
dee volere (come il predecessore) ed arricchirsi, e mantenersi in carica, e vendicarsi, e
ingannare, ed opprimere, ed atterrire. Ogni mutazione dunque nella tirannide, così di
tiranno, che di ministro, altro non è ad un popolo infelicemente servo, che come il
mutare fasciatura e chirurgo ad una immensa piaga insanabile, che ne rinnuova il fetore e
gli spasimi.
Ma, che il ministro successore debba
esser poi di alcun poco più reo dell'antecessore, colla stessa facilità si dimostra. Per
soverchiare un uomo cattivo accorto e potente, egli è pur d'uopo vincerlo in cattività e
accortezza. Un ministro di tiranno per lo più non precipita, senza che alcuno di quelli
che direttamente o indirettamente erano autori della sua rovina, a lui non sottentri. Ora,
come seppe egli costui atterrare quei tanti ripari, che avea fatti quel primo per
assicurarsi nel seggio suo? certamente, non per fortuna lo vinse, ma per arte maggiore.
Domando: "Se nelle corti una maggior arte possa supporre minori vizj in chi la
possiede e felicemente la esercita".
La non-ferocia dei moderni tiranni, che
in essi non è altro che il prodotto della non-ferocia dei moderni popoli, non comporta
che agli ex-ministri venga tolta la vita, e neppure le ricchezze, ancorch'elle siano per
lo più il frutto delle loro iniquità e rapine: né soffrono costoro alcun altro gastigo,
che quello di vedersi lo scherno e l'obbrobrio di tutti, e massime di quei vili che
maggiormente sotto essi tremavano. Alcuni di questi vicetiranni smessi, hanno la
sfacciataggine di far pompa di animo tranquillo nella loro avversa fortuna; e ardiscono
stoltamente arrogarsi il nome di filosofi disingannati. E costoro fanno ridere davvero gli
uomini savj, che ben sapendo cosa sia un filosofo, chiaramente veggono ch'egli non è, né
può essere mai stato, un vicetiranno.
Ma perderei le parole, il tempo, e la
maestà da un così alto tema richiesta, se dimostrar io volessi che un ente cotanto vile
ed iniquo non può né essere stato mai, né divenire, un filosofo. Proverò bensì, (come
cosa assai più importante) che un primo ministro del tiranno non è mai, né può essere,
un uomo buono ed onesto: intendendo io da prima per politica onestà e vera essenza
dell'uomo, quella per cui la persona pubblica antepone il bene di tutti al bene d'un solo,
e la verità ad ogni cosa. E, nell'avere io definita la politica onestà, parmi di aver
largamente provato il mio assunto. Se il tiranno stesso non vuole, e non può volere, il
vero ed intero ben pubblico, il quale sarebbe immediatamente la distruzione della sua
propria potenza, è egli credibile che lo potrà mai volere, ed operare, colui che
precariamente lo rappresenta? colui, che un capriccio ed un cenno aveano quasi collocato
sul trono, e che un capriccio ed un cenno ne lo precipitano?
Che il ministro poi non può essere
privatamente uomo onesto, intendendo per privata onestà la costumatezza e la fede, si
potrebbe pur anche ampiamente provare, e con ragioni invincibili: ma i ministri stessi,
colle loro opere, tutto dì ce lo provano assai meglio che nessuno scrittore provarlo
potrebbe con le parole. Si osservi soltanto, che non esiste ministro nessuno che voglia
perder la carica; che niuna carica è più invidiata della sua; che niun uomo ha più
nemici di lui, né più calunnie, o vere accuse, da combattere: ora, se la virtù per se
stessa possa in un governo niente virtuoso resistere con una forza non sua al vizio, al
raggiro, e all'invidia, ne lascio giudice ognuno.
Dalla potenza illimitata del tiranno
trasferita nel di lui ministro, si viene a produrre la prepotenza; cioè l'abuso di un
potere abusivo già per se stesso. Crescono la potenza e l'abuso ogniqualvolta vengono
innestati nella persona di un suddito, perché questo tiranno elettivo e casuale si trova
costretto a difendere con quella potenza il tiranno ereditario e se stesso. Una persona di
più da difendersi, richiede necessariamente più mezzi di difesa; e un'autorità più
illegittima, richiede mezzi più illegittimi. Perciò la creazione, o l'intrusione di
questo personaggio nella tirannide, si dee senza dubbio riputare come la più sublime
perfezione di ogni arbitraria potestà.
Ed eccone in uno scorcio la prova. Il
tiranno, che non si è mai creduto né visto nessun eguale, odia per innato timore
l'universale dei sudditi suoi; ma non ne avendo egli mai ricevuto ingiurie private,
gl'individui non odia. La spada sta dunque, fin ch'egli stesso la tiene, in mano di un
uomo, che per non essere stato offeso, non sa cui ferire. Ma, tosto ch'egli cede questo
prezioso e terribile simbolo dell'autorità ad un suddito, che si è veduto degli eguali,
e dei superiori; ad uno, che, per essere sommamente iniquo ed odioso, dee sommamente
essere odiato dai molti e dai più; chi ardirà mai credere allora, o asserire, o sperare
che costui non ferisca?
Capitolo Settimo
DELLA MILIZIA
Ma, o regni il
tiranno stesso, o regni il ministro, a ogni modo sempre i difensori delle loro inique
persone, gli esecutori ciechi e crudeli delle loro assolute volontà, sono i mercenarj
soldati. Di questi ve ne ha nei moderni tempi di più specie; ma tutte però ad un
medesimo fine destinate.
In alcuni paesi d'Europa si arruolano gli
uomini per forza; in altri, con minor violenza, e maggior obbrobrio per quei popoli, si
offrono essi spontaneamente di perdere la lor libertà, o (per meglio dire) ciò che essi
stoltamente chiamano di tal nome. Costoro s'inducono a questo traffico di se stessi,
spinti per lo più dalla lor dappocaggine e vizj, e lusingati dalla speranza di
soverchiare ed opprimere i loro eguali. Molti tiranni usano anche d'avere al lor soldo
alcune milizie straniere, nelle quali maggiormente si affidano. E, per una strana
contraddizione, che molto disonora gli uomini, gli Svizzeri, che sono il popolo quasi il
più libero dell'Europa, si lasciano prescegliere e comprare, per servir di custodi alla
persona di quasi tutti i tiranni di essa.
Ma, o straniere siano o nazionali, o
volontarie o sforzate, le milizie a ogni modo son sempre il braccio, la molla, la base, la
ragione sola, e migliore, delle tirannidi e dei tiranni. Un tiranno di nuova invenzione
cominciò in questo secolo a stabilire e mantenere un esercito intero e perpetuo in armi.
Costui, nel volere un esercito, allorché non avea nemici al di fuori, ampiamente provò
quella già nota asserzione; che il tiranno ha sempre in casa i nemici.
Non era però cosa nuova, che i tiranni
avessero per nemici i loro sudditi tutti; e non era nuovo neppure, che senza aver essi
quei tanto formidabili eserciti, sforzassero nondimeno i lor sudditi ad obbedire e
tremare. Ma, tra l'idea che si ha delle cose, e le cose stesse, di mezzo vi entrano i
sensi; ed i sensi, nell'uomo, son tutto. Quel tiranno che nei secoli addietro se ne stava
disarmato, se gli sopravveniva allora il capriccio o il bisogno di aggravare oltre l'usato
i suoi sudditi, soleva per lo più astenersene; perché mormorandone essi o resistendogli,
pensava che gli sarebbe necessario di armarsi per fargli obbedire e tacere. Ma ai tempi
nostri, quell'autorità e forza, che il padre o l'avo del presente tiranno sapeano bensì
d'avere, ma non se la vedeano sempre sotto gli occhi; quell'autorità e forza viene ora
ampiamente dimostrata al regnante da quelle tante sue schiere, che non solo lo assicurano
dalle offese dei sudditi, ma che ad offenderli nuovamente lo invitano. Onde, fra l'idea
del potere nei passati tiranni, e la effettiva realità del potere nei presenti, corre per
l'appunto la stessa differenza, che passa tra la possibilità ideale d'una cosa, e la
palpabile esecuzione di essa.
La moderna milizia, colla sua perpetuità, annulla nelle moderne tirannidi l'apparenza
stessa del viver civile; di libertà seppellisce il nome perfino; e l'uomo invilisce a tal
segno, che cose politicamente virtuose, giuste, giovevoli, ed alte, non può egli né
fare, né dire, né ascoltar, né pensare. Da questa infame moltitudine di oziosi soldati,
vili nell'obbedire, insolenti e feroci nell'eseguire, e sempre più intrepidi contro alla
patria che contro ai nemici, nasce il mortale abuso dell'esservi uno stato di più nello
stato; cioè un corpo permanente e terribile, che ha opinioni ed interessi diversi e in
tutto contrarj a quelli del pubblico; e un corpo, che per la sua illegittima e viziosa
istituzione, porta in se stesso la impossibilità dimostrata di ogni civile ben vivere.
L'interesse di tutti o dei più, fra i popoli di ogni qualunque governo, si è di non
essere oppressi, o il meno che il possono: nella tirannide i soldati, che non debbono aver
mai interesse diverso da quello del tiranno che li pasce e che la loro superba pigrizia
vezzeggia; i soldati, hanno necessariamente interesse di opprimere i popoli quanto più il
possono; poiché quanto più opprimono, tanto più considerati sono essi, e necessarj, e
temuti.
Non accade nella tirannide, come nelle
vere repubbliche, che le interne dissensioni vengano ad esservi una parte di vita; e che,
saggiamente mantenutevi ed adoprate, vi accrescano libertà. Ogni diversità di interesse
nella tirannide, accresce al contrario la pubblica infelicità, e la universal servitù: e
quindi bisogna che il debole per così dire si annichili, e che il forte si insuperbisca
oltre ogni misura. Nella tirannide perciò le soldatesche son tutto, ed i popoli nulla.
Questi prepotenti, o siano
volontariamente o sforzatamente arruolati, sogliono essere, quanto ai costumi, la più
vile feccia della feccia della plebe: e sì gli uni che gli altri, appena hanno investita
la livrea della loro duplicata servitù, fattisi orgogliosi, come se fossero meno schiavi
che i loro consimili; spogliatisi del nome di contadini di cui erano indegni, sprezzano i
loro eguali, e li reputano assai da meno di loro. E in fatti, i veri contadini coltivatori
nella tirannide si dichiarano assai minori dei contadini soldati, poiché sopportano essi
questa genia militante, che ardisce disprezzargli, insultargli, spogliargli, ed
opprimerli. E a questa sì fatta genia potrebbero lievemente resistere i popoli, se
volessero pure conoscere un solo istante la loro forza, poiché si troverebbero tuttavia
mille contr'uno.
E se tanta pur fosse la viltà degli
oppressi, che colla forza aperta non ardissero affrontare questi loro oppressori,
potrebbero anche facilmente con arte e doni corrompergli e comprarli; che quel loro valore
sta per chi meglio lo paga. Ma da un sì fatto mezzo ne ridonderebbero in appresso più
mali; tra cui non è il menomo, il ritrovarsi poscia fra il popolo una sì gran
moltitudine d'enti, che soldati non potrebbero esser più, e che cittadini (ove anco il
volessero) divenir non saprebbero.
Vero è, che il popolo li teme e quindi
gli odia; ma non gli odia pur mai quanto egli abborrisce il tiranno, e non quanto costoro
sel meritano. Questa non è una delle più leggiere prove, che il popolo nella tirannide
non ragiona, e non pensa: che se egli osservasse, che senza codesti soldati non potrebbe
oramai più sussistere tiranno nessuno, gli abborrirebbe assai più; e da quest'odio
estremo perverrebbe il popolo assai più presto allo spegnere affatto cotali soldati.
E non paja contraddizione il dire; che senza soldati non sussisterebbe il tiranno, dopo
aver detto di sopra, che non sempre i tiranni hanno avuto eserciti perpetui.
Coll'accrescere i mezzi di usare la forza, hanno i tiranni accresciuta la violenza in tal
modo, che se ora quei mezzi scemassero, verrebbe di tanto a scemare nei popoli il timore,
che si distruggerebbe forse la tirannide affatto. Perciò quegli eserciti, che non erano
necessarj prima che si oltrepassassero certi limiti, e prima che il popolo fosse
intimorito e rattenuto da una forza effettiva e palpabile, vengono ad essere
necessarissimi dopo: perché natura dell'uomo è, che chiunque per molti anni ha avuto
davanti agli occhi e ceduto ad una forza effettiva, non si lasci più intimorire da una
forza ideale. Quindi, nel presente stato delle tirannidi europee, al cessare dei perpetui
eserciti, immantinente cesseran le tirannidi.
Il popolo non può dunque mai con
verisimiglianza sperare di vedersi diminuito o tolto questo continuo aggravio ed
obbrobrio, dello stipendiare egli stesso i suoi proprj carnefici, tratti dalle sue proprie
viscere, e così tosto immemori affatto dei loro più sacri e naturali legami. Ma il
popolo ha pur sempre, non la speranza soltanto, ma la piena e dimostrata certezza di torsi
egli stesso questo aggravio ed obbrobrio, ogniqualvolta egli veramente volendolo non
chiederà ad altrui ciò che sta soltanto in sua mano di prendersi.
Ogni tiranno europeo assolda quanti più
può di questi satelliti, e più assai che non può; egli se ne compiace, se ne trastulla,
e ne va oltre modo superbo. Sono costoro il vero e primo giojello delle loro corone: e,
mantenuti a stento dai sudori e digiuni del popolo, preparati son sempre a beverne il
sangue, ad ogni minimo cenno del tiranno. Si accorda, in ragione del numero dei loro
soldati, un diverso grado di considerazione ai diversi tiranni. E siccome non possono essi
diminuire i satelliti loro senza che scemi l'opinione che si ha della loro potenza; e
siccome una persona abborrita, ove ella mai cessi di essere temuta, apertamente si
dileggia da prima, e tosto poscia si spegne; egli è da credersi, che i tiranni non
aspetteranno mai questo manifesto disprezzo precursore infallibile della loro intera
rovina, e che sempre dissangueranno il popolo per mantenere coi molti soldati se stessi.
I tiranni, padroni pur anche per alcun
tempo dell'opinione, hanno tentato di persuadere in Europa, ed hanno effettivamente
persuaso ai più stupidi fra i loro sudditi, così plebei come nobili, che ella sia
onorevole cosa la loro milizia. E col portarne essi stessi la livrea, coll'impostura di
passare essi stessi per tutti i gradi di quella, coll'accordarle molte prerogative
insultanti ed ingiuste sopra tutte le altre classi dello stato, e massime sopra i
magistrati tutti, hanno con ciò offuscato gl'intelletti, ed invogliato gli stoltissimi
sudditi di questo mestiere esecrabile.
Ma una sola osservazione basta a
distruggere questa loro scurrile impostura. O tu reputi i soldati come gli esecutori della
tirannica volontà al di dentro; e allora può ella mai parerti onorevol cosa lo
esercitare contra il padre, i fratelli, i congiunti, e gli amici, una forza illimitata ed
ingiusta? O tu li reputi come i difensori della patria; cioè di quel luogo dove per tua
sventura sei nato; dove per forza rimani; dove non hai né libertà, né sicurezza, né
proprietà nessuna inviolabile; e allora, onorevol cosa ti può ella parere il difendere
codesto tuo sì fatto paese, e il tiranno che continuamente lo distrugge ed opprime quanto
e assai più, che nol farebbe il nemico? e l'impedire in somma un altro tiranno di
liberarti dal tuo? Che ti può egli togliere oramai quel secondo, che non ti sia stato
già tolto dal primo? Anzi, potrà il nuovo tiranno, per necessaria accortezza, trattarti
da principio molto più umanamente che il vecchio.
Conchiudo adunque; Che, non si potendo
dir patria là dove non ci è libertà e sicurezza, il portar l'armi dove non ci è patria
riesce pur sempre il più infame di tutti i mestieri: poiché altro non è, se non vendere
a vilissimo prezzo la propria volontà, e gli amici, e i parenti, e il proprio interesse,
e la vita, e l'onore, per una causa obbrobriosa ed ingiusta.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 16 ottobre, 1999