Vittorio Alfieri
Della Tirannide
Cuncti se scire fatentur |
Impune quaelibet facere id est
regem esse |
PREVIDENZA
DELL'AUTORE |
Dir più d'una si
udrà lingua maligna, (Il dirlo è lieve; ogni più stolto il puote) Che in carte troppe, e di dolcezza vuote, Altro mai che tiranni io non dipigna:
Che tinta in fiel la penna mia sanguigna Non io per ciò da un sì sublime
scopo Né mie voci fien sempre al vento
sparte, |
LIBRO PRIMO
ALLA LIBERTÀ
Soglionsi per lo
più i libri dedicare alle persone potenti, perché gli autori credono ritrarne chi
lustro, chi protezione, chi mercede. Non sono, o DIVINA LIBERTÀ, spente affatto in tutti
i moderni cuori le tue cocenti faville: molti ne'loro scritti vanno or qua or là
tasteggiando alcuni dei tuoi più sacri e più infranti diritti. Ma quelle carte, ai di
cui autori altro non manca che il pienamente e fortemente volere, portano spesso in fronte
il nome o di un principe, o di alcun suo satellite; e ad ogni modo pur sempre, di un
qualche tuo fierissimo naturale nemico. Quindi non è meraviglia, se tu disdegni finora di
volgere benigno il tuo sguardo ai moderni popoli, e di favorire in quelle contaminate
carte alcune poche verità avviluppate dal timore fra sensi oscuri ed ambigui, ed
inorpellate dall'adulazione.
Io, che in tal guisa scrivere non
disdegno; io, che per nessun'altra cagione scriveva, se non perché i tristi miei tempi mi
vietavan di fare; io, che ad ogni vera incalzante necessità, abbandonerei tuttavia la
penna per impugnare sotto il tuo nobile vessillo la spada; ardisco io a te sola dedicar
questi fogli. Non farò in essi pompa di eloquenza, che in vano forse il vorrei; non di
dottrina, che acquistata non ho; ma con metodo, precisione, semplicità, e chiarezza,
anderò io tentando di spiegare i pensieri, che mi agitano; di sviluppare quelle verità,
che il semplice lume di ragione mi svela ed addita; di sprigionare in somma quegli
ardentissimi desiderj, che fin dai miei anni più teneri ho sempre nel bollente mio petto
racchiusi.
Io, pertanto, questo libercoletto, qual
ch'egli sia, concepito da me il primo d'ogni altra mia opera, e disteso nella mia
gioventù, non dubito punto nella matura età (rettificandolo alquanto) di pubblicar come
l'ultimo. Che se io non ritroverei forse più in me stesso a quest'ora il coraggio, o, per
dir meglio, il furore necessario per concepirlo, mi rimane pure ancora il libero senno per
approvarlo, e per dar fine con esso per sempre ad ogni mia qualunque letteraria
produzione.
Capitolo Primo
COSA SIA IL TIRANNO
Il definire le
cose dai nomi, sarebbe un credere, o pretendere che elle fossero inalterabilmente durabili
quanto essi; il che manifestamente si vede non essere mai stato. Chi dunque ama il vero,
dee i nomi definire dalle cose che rappresentano; e queste variando in ogni tempo e
contrada, niuna definizione può essere più permanente di esse; ma giusta sarà, ogni
qualvolta rappresenterà per l'appunto quella cosa, qual ella si era sotto quel dato nome
in quei dati tempi e luoghi. Ammesso questo preamboletto, io mi era già posta insieme una
definizione bastantemente esatta e accurata del tiranno, e collocata l'avea in testa di
questo capitolo: ma, in un altro mio libercolo, scritto dopo e stampato prima di questo,
essendomi occorso dappoi di dover definire il principe, mi son venuto (senza accorgermene)
a rubare a me stesso la mia definizione del tiranno. Onde, per non ripetermi, la
ommetterò qui in parte; né altro vi aggiungerò, che quelle particolarità
principalmente spettanti al presente mio tema, diverso affatto da quell'altro
DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE; ancorché tendente pur questo allo stesso
utilissimo scopo, di cercare il vero, e di scriverlo.
TIRANNO, era il nome con cui i Greci
(quei veri uomini) chiamavano coloro che appelliamo noi re. E quanti, o per forza, o per
frode, o per volontà pur anche del popolo o dei grandi, otteneano le redini assolute del
governo, e maggiori credeansi ed erano delle leggi, tutti indistintamente a vicenda o re o
tiranni venivano appellati dagli antichi.
Divenne un tal nome, coll'andar del
tempo, esecrabile; e tale necessariamente farsi dovea. Quindi ai tempi nostri, quei
principi stessi che la tirannide esercitano, gravemente pure si offendono di essere
nominati tiranni. Questa sì fatta confusione dei nomi e delle idee, ha posto una tale
differenza tra noi e gli antichi, che presso loro un Tito, un Trajano, o qual altro più
raro principe vi sia stato mai, potea benissimo esser chiamato tiranno; e così presso
noi, un Nerone, un Tiberio, un Filippo secondo, un Arrigo ottavo, o qual altro mostro
moderno siasi agguagliato mai agli antichi, potrebbe essere appellato legittimo principe,
o re. E tanta è la cecità del moderno ignorantissimo volgo, con tanta facilità si
lascia egli ingannare dai semplici nomi, che sotto altro titolo egli si va godendo i
tiranni, e compiange gli antichi popoli che a sopportare gli aveano.
Tra le moderne nazioni non si dà dunque
il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e tremando) a quei soli principi, che
tolgono senza formalità nessuna ai lor sudditi le vite, gli averi, e l'onore. Re
all'incontro, o principi, si chiamano quelli, che di codeste cose tutte potendo pure ad
arbitrio loro disporre, ai sudditi non dimanco le lasciano; o non le tolgono almeno, che
sotto un qualche velo di apparente giustizia. E benigni, e giusti re si estimano questi,
perché, potendo essi ogni altrui cosa rapire con piena impunità, a dono si ascrive tutto
ciò ch'ei non pigliano.
Ma la natura stessa delle cose
suggerisce, a chi pensa, una più esatta e miglior distinzione. Il nome di tiranno,
poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non si dee dare se non a coloro, (o
sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno, comunque se l'abbiano, una
facoltà illimitata di nuocere: e ancorché costoro non ne abusassero, sì fattamente
assurdo e contro a natura è per se stesso lo incarico loro, che con nessuno odioso ed
infame nome si possono mai rendere abborevoli abbastanza. Il nome di re, all'incontro,
essendo finora di qualche grado meno esecrato che quel di tiranno, si dovrebbe dare a quei
pochi, che frenati dalle leggi, e assolutamente minori di esse, altro non sono in una data
società che i primi e legittimi e soli esecutori imparziali delle già stabilite leggi.
Questa semplice e necessaria distinzione
universalmente ammessa in Europa, verrebbe ad essere la prima aurora di una rinascente
libertà. È il vero, che nessuna cosa poi tra gli uomini riesce permanente e perpetua; e
che (come già il dissero tanti savj) la libertà pendendo tuttora in licenza, degenera
finalmente in servaggio; come il regnar d'un solo pendendo sempre in tirannide,
rigenerarsi finalmente dovrebbe in libertà. Ma siccome per quanto io stenda in Europa lo
sguardo, quasi in ogni sua contrada rimiro visi di schiavi; siccome non può oramai la
universale oppressione più ascendere, ancorché la non mai fissabile ruota delle umane
cose appaja ora immobile starsi in favor dei tiranni, ogni uomo buono dee credere, e
sperare, che non sia oramai molto lontana quella necessaria vicenda, per cui sottentrare
al fin debba all'universale servaggio una quasi universal libertà
Capitolo Secondo
COSA SIA LA TIRANNIDE
TIRANNIDE
indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla
esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle,
sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge
sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a
ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni
società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.
E, viceversa, tirannide parimente si dee
riputar quel governo, in cui chi è preposto al creare le leggi, le può egli stesso
eseguire. E qui è necessario osservare, che le leggi, cioè gli scambievoli e solenni
patti sociali, non debbono essere che il semplice prodotto della volontà dei più; la
quale si viene a raccogliere per via di legittimi eletti del popolo. Se dunque gli eletti
al ridurre in leggi la volontà dei più le possono a lor talento essi stessi eseguire,
diventano costoro tiranni; perché sta in loro soltanto lo interpretarle, disfarle,
cangiarle, e il male o niente eseguirle. Che la differenza fra la tirannide e il giusto
governo, non è posta (come alcuni stoltamente, altri maliziosamente, asseriscono)
nell'esservi o il non esservi delle leggi stabilite; ma nell'esservi una stabilita
impossibilità del non eseguirle.
Non solamente dunque è tirannide ogni
governo, dove chi eseguisce le leggi, le fa; o chi le fa, le eseguisce: ma è tirannide
piena altresì ogni qualunque governo, in cui chi è preposto all'eseguire le leggi non
dà pure mai conto della loro esecuzione a chi le ha create.
Ma, tante specie di tirannidi essendovi,
che sotto diversi nomi conseguono tutte uno stesso fine, non imprendo io qui a
distinguerle fra loro, né, molto meno, a distinguerle dai tanti altri moderati e giusti
governi: distinzioni, che a tutti son note.
Se più sopportabili siano i molti tiranni, o l'un solo, ella è questione problematica
assai. La lascierò anche in disparte per ora, perché essendo io nato e cresciuto nella
tirannide d'un solo, ed essendo questa la più comune in Europa, di essa più volentieri e
con minore imperizia mi avverrà forse di ragionare; e con utile maggiore fors'anco pe'
miei cotanti conservi. Osserverò soltanto di passo, che la tirannide di molti, benché
per sua natura maggiormente durevole (come ce lo dimostra Venezia) nondimeno a chi la
sopporta ella sembra assai men dura e terribile, che quella di un solo. Di ciò ne
attribuisco la cagione alla natura stessa dell'uomo, in cui l'odio ch'egli divide contro
ai molti, si scema; come altresì il timore che si ha dei molti, non agguaglia mai quello
che si ha riunitamente di un solo; ed in fine, i molti possono bensì essere continuamente
ingiusti oppressori dell'universale, ma non mai, per loro privato capriccio, dei diversi
individui. In codesti governi di più, che la corruzione dei tempi, lo avere scambiato
ogni nome, e guasta ogni idea, hanno fatto chiamar repubbliche; il popolo in codesti
governi, non meno schiavo che nella mono-tirannide, gode nondimeno di una certa apparenza
di libertà, ed ardisce profferirne il nome senza delitto: e, pur troppo il popolo, allor
quando corrotto è, ignorante, e non libero, egli si appaga della sola apparenza.
Ma, tornando io alla tirannide di un
solo, dico; che di questa ve n'ha di più sorti. Ereditaria può essere, ed anche
elettiva. Di questa seconda specie sono, fra i moderni, lo stato pontificio, e molti degli
altri stati ecclesiastici. Il popolo, in tali governi, pervenuto all'ultimo grado di
politica stupidità, vede a ogni tratto, per la morte del celibe tiranno, ricadere in sua
mano la propria libertà, che egli non conosce, né cura; quindi se la vede tosto
ritogliere dai pochi elettori che gli ricompongono un altro tiranno, il quale ha per lo
più tutti i vizj degli ereditarj tiranni, e non ne ha la forza effettiva per costringere
i sudditi a sopportarlo. E questa tirannide pure tralascerò, come toccata in sorte a
pochissimi uomini; e, per la loro smisurata viltà, indegni interamente di un tal nome.
Intendo io dunque di ragionare oramai di
quella ereditaria tirannide, che da lunghi secoli in varie parti del globo più o meno
radicata, non mai, o rarissimamente o passeggeramente, ricevea danni dalla risorta
libertà; e non veniva alterata o distrutta, se non se da un'altra tirannide. In questa
classe annovero io tutti i presenti regni dell'Europa, eccettuandone soltanto finora quel
d'Inghilterra e la Pollonia ne eccettuerei, se alcuna parte di essa salvandosi dallo
smembramento, e persistendo pure nel volere aver servi e chiamarsi repubblica, servi ne
divenissero i nobili, e libero il popolo.
MONARCHIA,
è il dolce nome che la ignoranza, l'adulazione, e il timore, davano e danno a questi sì
fatti governi. A dimostrarne la insussistenza, credo che basti la semplice interpretazione
del nome. O monarchia vuol dire, la esclusiva e preponderante autorità d'un solo; e
monarchia allora è sinonimo di tirannide: o ella vuol dire, l'autorità di un solo,
raffrenato da leggi; le quali, per poter raffrenare l'autorità e la forza, debbono
necessariamente anch'esse avere una forza ed autorità effettiva, eguale per lo meno a
quella del monarca; e in quel punto stesso in cui si trovano in un governo due forze e
autorità in bilancia fra loro, egli manifestamente cessa tosto di essere monarchia.
Questa greca parola non significa altro in somma, fuorché Governo ed autorità d'uno
solo; e con leggi; s'intende; perché niuna società esiste senza alcuna legge tal
quale: ma, ci s'intende pur anco Autorità di un solo sopra alle leggi; perché
niuno è monarca, là dove esiste un'autorità maggiore, o eguale, alla sua.
Ora, io
domando in qual cosa differisca il governo e autorità di un solo nella tirannide, dal
governo e autorità d'un solo nella monarchia. Mi si risponde: "Nell'abuso". Io
replico: "E chi vi può impedire quest'abuso?" Mi si soggiunge: "Le
leggi". Ripiglio: "Queste leggi hanno elle forza ed autorità per se stesse,
indipendente affatto da quella del principe?" Nessuno più a questa obiezione mi
replica. Dunque, all'autorità d'un solo, potente ed armato, andando annessa l'autorità
di queste pretese leggi (e fossero elle pur anche divine) ogniqualvolta le leggi e costui
non concordano, che faranno le misere, per se stesse impotenti, contro alla potestà
assoluta e la forza? Soggiaceranno le leggi: e tutto giorno, in fatti, soggiacciono. Ma,
se una qualunque legittima forza effettiva verrà intromessa nello stato per creare,
difendere, e mantenere le leggi, chiarissima cosa è che un tale governo non sarà più
monarchia; poiché al fare o disfare le leggi l'autorità d'un solo non vi basterà. Onde,
questo titolo di monarchia, perfettissimo sinonimo di tirannide, ma non così abborrito
finora, non viene adattato ai nostri governi per altro, che per accertare i principi della
loro assoluta signoria; e per ingannare i sudditi, lasciandoli o facendoli dubitare della
loro assoluta servitù.
Di quanto asserisco, se ne osservi
continuamente la prova nella opinione stessa dei moderni re. Si gloriano costoro del nome
di monarchi, e mostrano di abborrire quel di tiranni; ma nel tempo stesso reputano assai
minori di loro quegli altri pochi principi o re, che ritrovando limiti infrangibili al
loro potere, dividono l'autorità colle leggi. Questi assoluti re sanno dunque benissimo,
che fra monarchia e tirannide non passa differenza nessuna. Così lo sapessero i popoli,
che pure tuttora colla loro trista esperienza lo provano! Ma i principi europei, di
tiranni tengono caro il potere, e di monarchi il nome soltanto: i popoli all'incontro,
spogliati, avviliti, ed oppressi dalla monarchia, la sola tirannide stupidamente
abborriscono.
Ma i pochi uomini, che re non sono né
schiavi, ove per avventura non tengano a vile del paro i principi tutti; i monarchi, come
tiranni; ed i principi limitati, come perpetuamente inclinati a divenirlo; i pochi veri
uomini pensanti, si avveggono pure quanto sia più onorevole, più importante, e più
gloriosa dignità il presiedere con le leggi ad un libero popolo d'uomini, che il
malmenare a capriccio un vile branco di pecore.
Tralascio
ogni ulteriore prova (che necessaria non è) per dimostrare che una monarchia limitata non
vi può essere, senza che immediatamente cessi la monarchia; e che ogni monarchia non
limitata è tirannide, ancorché il monarca in qualche istante, non abusando egli in
nessun modo del suo poter nuocere, tiranno non sia. E tali prove tralascio, per amor di
brevità, e perché intendo di parlare a lettori, a cui non è necessario il dir tutto.
Passerò quindi ad analizzare la natura della mono-tirannide, e quai siano i mezzi per
cui, così ben radicatasi nell'Europa, inespugnabile ella vi si tiene oramai.
Capitolo Terzo
DELLA PAURA
I Romani liberi,
popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come sagaci conoscitori del cuor
dell'uomo, eretto aveano un tempio alla Paura; e, creatala Dea, le assegnavano sacerdoti,
e le sagrificavano vittime. Le corti nostre a me pajono una viva immagine di questo culto
antico, benché per tutt'altro fine instituite. Il tempio è la reggia; il tiranno n'è
l'idolo; i cortigiani ne sono i sacerdoti; la libertà nostra, e quindi gli onesti
costumi, il retto pensare, la virtù, l'onor vero, e noi stessi; son queste le vittime che
tutto dì vi s'immolano.
Disse il dotto Montesquieu, che base e molla della monarchia ella era l'onore. Non
conoscendo io, e non credendo a codesta ideale monarchia, dico, e spero di provare; Che
base e molla della tirannide ella è la sola paura.
E da prima, io distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, sì nella
cagione che negli effetti; la paura dell'oppresso, e la paura dell'oppressore.
Teme l'oppresso, perché oltre quello
ch'ei soffre tuttavia, egli benissimo sa non vi essere altro limite ai suoi patimenti che
l'assoluta volontà e l'arbitrario capriccio dell'oppressore. Da un così incalzante e
smisurato timore ne dovrebbe pur nascere (se l'uom ragionasse) una disperata risoluzione
di non voler più soffrire: e questa, appena verrebbe a procrearsi concordemente in tutti
o nei più, immediatamente ad ogni lor patimento perpetuo fine porrebbe. Eppure, al
contrario, nell'uomo schiavo ed oppresso, dal continuo ed eccessivo temere nasce vie più
sempre maggiore ed estrema la circospezione, la cieca obbedienza, il rispetto e la
sommissione al tiranno; e crescono a segno, che non si possono aver maggiori mai per un
Dio.
Ma, teme altresì l'oppressore. E nasce
in lui giustamente il timore della coscienza della propria debolezza effettiva, e in un
tempo, dell'accattata sterminata sua forza ideale. Rabbrividisce nella sua reggia il
tiranno (se l'assoluta autorità non lo ha fatto stupido appieno) allorché si fa egli ad
esaminare quale smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare nel
cuore di tutti.
La conseguenza del timor del tiranno
riesce affatto diversa da quella del timore del suddito; o, per meglio dire, ella è
simile in un senso contrario; in quanto, né egli, né i popoli, non emendano questo loro
timore come per natura e ragione il dovrebbero; i popoli, col non voler più soggiacere
all'arbitrio d'un solo; i tiranni, col non voler più sovrastare a tutti per via della
forza. Ed in fatti, spaventato dalla propria potenza, sempre mal sicura quando ella è
eccessiva, pare che dovrebbe il tiranno renderla alquanto meno terribile altrui, se non
con infrangibili limiti, almeno coll'addolcirne ai sudditi il peso. Ma, nella guisa stessa
che i sudditi non diventano disperati e feroci, ancorché altro non resti loro da perdere
se non una misera vita; così, neppure il tiranno diventa mite ed umano, ancorché altro
non gli rimanga da acquistare, se non la fama, e l'amore dei sudditi. Il timore e il
sospetto, indivisibili compagni d'ogni forza illegittima (e illegittimo è tutto ciò che
limiti non conosce) offuscano talmente l'intelletto del tiranno anche mite per indole, che
egli ne diviene per forza crudele, e pronto sempre ad offendere, e a prevenire gli effetti
dell'altrui odio meritato e sentito. Egli perciò crudelissimamente suole punire ogni
menomo tentativo dei sudditi contro a quella sua propria autorità ch'egli stesso conosce
eccessiva; e non lo punisce allor quando eseguito sia, o intrapreso, ma quando egli
suppone, o finge anche di supporre, che un tal tentativo possa solamente essere stato
concepito.
La esistenza reale di queste due paure
non è difficile a dimostrarsi. Di quella dei sudditi, argomentando ciascuno di noi dalla
propria, non ne dubiterà certamente nessuno: della paura dei tiranni, assai ne fan fede i
tanti e così diversi sgherri, che giorno e notte li servono e custodiscono.
Ammessa questa reciproca innegabile
paura, esaminiamo quali debbano riuscire questi uomini che sempre tremano: e parliamo da
prima dei sudditi, cioè di noi stessi, che ben ci dobbiamo conoscere; parleremo dei
tiranni, per congettura, dappoi. E scegliamo nella tirannide quei pochi uomini, a cui e la
robustezza delle fibre, e una miglior educazione, e una certa elevazion d'animo (quanta ne
comportino i tempi) e in fine una minor dipendenza, dovrebbero far conoscere più il vero,
e lasciarli tremare assai meno che gli altri: investigati quali siano, e quali possano, e
debbano essere questi, dal loro valore argomenteremo per induzione quali siano ed esser
debbano poi gli altri tutti. Questi pochissimi, degni per certo di miglior sorte, veggono
pure ogni giorno nella tirannide il coltivatore, oppresso dalle arbitrarie gravezze,
menare una vita stentata e infelice. Una gran parte di essi ne veggono estrarre per forza
dai loro tugurj per portar l'armi; e non già per la patria, ma pel loro e suo maggior
nemico, e contro a se stessi: veggono costoro il popolo delle città, l'una metà mendico,
ricchissimo l'altra, e tutto egualmente scostumato; veggono inoltre, la giustizia venduta,
la virtù dispregiata, i delatori onorati, la povertà ascritta a delitto, le cariche e
gli onori rapiti dal vizio sfacciato, la verità severamente proscritta, gli averi la vita
l'onore di tutti nella mano di un solo; e veggono essere incapacissimo di tutto quel solo,
e lasciare egli poi il diritto di arbitrariamente disporne ad altri pochi, non meno
incapaci, e più tristi: tutto ciò veggono palpabilmente ogni giorno quei pochi enti
pensanti, che la tirannide non ha potuti impedire; e in ciò vedere, sommessamente
sospirando, si tacciono. Ma, perché si tacciono? per sola paura. Nella tirannide, è
delitto il dire, non meno che il fare. Da questa feroce massima dovrebbe almeno
risultarne, che in vece di parlare, si operasse; ma (pur troppo!) né l'uno né l'altro si
ardisce.
Se dunque a tal segno avviliti sono i
migliori, quali saranno in un tal governo poi gli altri? qual nome inventar si dovrà per
distinguerli da coloro, che nei ragguardevoli antichi governi cotanto illustravano il nome
di uomo? Si affaticano tutto dì gli scrittori per dimostrarci, che il caso e le
circostanze ci vogliono sì fattamente diversi da quelli; ma nessuno ci insegna in qual
modo si possano dominare il caso e le circostanze, né fino a qual punto questa diversità
intendere e tollerare si debba. Si affaticano per altra parte i tiranni, e i loro tanti
fautori più vili di essi, nel persuaderci che noi non siamo più di quella generosa
specie antica. E, certo, finché sopportiamo il loro giogo tacendo, ella è quasi minore
infamia per noi il credere piuttosto in ciò ai tiranni, che non ai moderni scrittori.
Tutti dunque, e buoni e cattivi, e dotti
e ignoranti, e pensatori e stupidi, e prodi e codardi; tutti, qual più qual meno,
tremiamo nella tirannide. E questa è per certo la vera universale efficacissima molla di
un tal governo; e questo è il solo legame, che tiene i sudditi col tiranno.
Si esamini ora, se il timor del tiranno
sia parimente la molla del suo governare, e il legame che lo tiene coi sudditi. Costui,
vede per lo più gli infiniti abusi dello informe suo reggere; ne conosce i vizj, i
principj distruttivi, le ingiustizie, le rapine, le oppressioni; e tutti in somma i tanti
gravissimi mali della tirannide, meno se stesso. Vede costui, che le troppe gravezze di
giorno in giorno spopolano le desolate provincie; ma tuttavia non le toglie; perché da
quelle enormi gravezze egli ne va ritraendo i mezzi per mantenere l'enorme numero de' suoi
soldati, spie, e cortigiani; rimedj tutti (e degnissimi) alla sua enorme paura. E vede
anch'egli benissimo, che la giustizia si tradisce o si vende; che gli uffizj e gli onori
più importanti cadono sempre ai peggiori; e queste cose tutte, ancorché ben le veda, non
le ammenda pur mai il tiranno. E perché non le ammenda? perché, se i magistrati fossero
giusti, incorrotti, ed onesti, verrebbe tolto a lui primo ogni iniquo mezzo di colorare le
sue private vendette sotto il nome di giustizia. Ne avviene da ciò, e da altre simili
cose, che dovendo egli mal grado suo, e senza avvedersene quasi, reputare se stesso come
il primo vizio dello stato, traluce all'intelletto suo un fosco barlume di verità che
gl'insegna, che se alcuna idea di vera giustizia si venisse a introdurre nel suo popolo,
la prima giustizia si farebbe di lui: appunto perché nessun altr'uomo (per quanto sia
egli scellerato) non può mai in una qualunque società nuocere sì gravemente ed a tanti,
come può nuocere impunemente ogni giorno quest'uno nella propria tirannide. Ciascun
tiranno dunque, al solo nome di vera giustizia, trema: ogni vero lume di sana ragione gli
accresce il sospetto; ogni verità luminosa lo adira; lo spaventano i buoni; e non crede
mai sicuro se stesso, se egli non affida ogni più importante carica a gente ben sua;
cioè venduta e simile a lui, e ciecamente pensante al suo modo: il che importa, una gente
più assai ingiusta, più tremante, e quindi più crudele, e più mille volte opprimente,
ch'egli nol sia.
«Ma, un tal principe si può dare»
(dirammi taluno) «il quale ami gli uomini, aborrisca il vizio, e non lasci trionfare né
rimuneri altro, che la sola virtù». Al che rispondo io, col domandare: «Può egli
esistere un uomo buono ed amico degli uomini, il quale, non essendo stupido, si creda
pure, o finga di credersi, per diritto divino, superiore assolutamente non solo ad ogni
individuo, ma alla massa di tutti riuniti; e stimi non dover dar conto delle opere sue e
di sé, fuorché a Dio?» Io mi farò a credere che un tal ente possa essere un uomo
buono, allor quando avrò visto un solo esempio, per cui, avendo costui voluto veramente
il maggior bene di quegli altri enti suoi, ma di una minore specie di lui, egli avrà
prese le più efficaci misure per impedire che in quella sua società dove egli solo era
il tutto, e gli altri tutti il nulla, un qualche altro eletto da Dio al paro di lui, non
potesse d'allora in poi commettere illimitatamente e impunemente quel male stesso che egli
sapea certamente essersi commesso in quello stesso suo stato prima che ei vi regnasse; e
che egli certamente sapea, attesa la natura dell'uomo, dovervisi poi commettere di bel
nuovo dopo il suo regno. Ma, come potrà egli chiamarsi buono quell'uomo, che dovendo e
potendo fare un così gran bene a un sì fatto numero d'uomini, pure nol fa? E per qual
altra ragione nol fa egli, se non perché un tal bene potrebbe diminuire ai suoi venturi
figli o successori del suo illimitato orribil potere, del nuocere con impunità? E si noti
di più, che costui potrebbe con un tal nobile mezzo acquistare a se stesso, in vece di
quell'infame illimitato potere di nuocere ch'egli avrebbe distrutto, una immensa e non mai
finora tentata gloria; e la più eminente che possa cadere mai nella mente dell'uomo; di
avere, colle proprie legittime privazioni, stabilita la durevole felicità di un popolo
intero. Ora, ch'è egli dunque codesto buon principe, di cui ci vanno ogni giorno
intronando gli orecchi la viltà ed il timore? un uomo, che non si reputa un uomo; (ed
infatti non lo è; ma in tutt'altro senso ch'ei non l'estima) un ente, che forse vuole il
bene del corpo degli altri, cioè che non siano né nudi, né mendici; ma, che volendoli
ciecamente obbedienti all'arbitrio d'un solo, necessariamente li vuole ad un tempo e
stupidi, e vili, e viziosi, e assai men uomini in somma che bruti. Un tale buon principe
(che buono altramente non può esser mai chiunque possiede una usurpata, illegittima,
illimitata autorità) potrà egli giustamente da chi ragiona chiamarsi meno tiranno che il
pessimo, poiché gli stessi pessimi effetti dall'uno come dall'altro ridondano? e, come
tale, si dovrà egli meno abborrire da chi conosce e sente il servaggio? Il conservare, il
difendere ad ogni costo, il reputare come la più nobile sua prerogativa lo sterminato
potere di nuocere a tutti, non è egli sempre uno imperdonabil delitto agli occhi di
tutti, ancorché pure chi è reo di tal pregio in modo nessuno mai non ne abusi? E si può
egli creder mai, che codesto sognato buon principe possa andare esente dalla paura,
poiché egli pure persiste nel rimanere, per via della forza, maggior delle leggi? E può
egli costui, più che gli altri suoi pari, esimere i sudditi dalla paura, poich'essi
all'ombra di leggi in nulla sottoposte a soldati, non possono securamente mai ridersi di
niuno de' suoi assoluti capricci, che volesse (anco istantaneamente) usurparsi il titolo
sacro di legge? Io crederei all'incontro, che per lo più quei tiranni che hanno da natura
una miglior indole, riescano, quanto all'effetto, i peggiori pel popolo. Ed eccone una
prova. Gli uomini buoni suppongono sempre che gli altri sian tali; i tiranni tutti per lo
più niente affatto conoscono gli uomini, presi universalmente; ma niente affatto poi
certamente conoscono quelli che non vedono mai, e pochissimo quelli che vedono. Ora, non
v'ha dubbio, che gli uomini che si accostano a loro son sempre i cattivi, perché un uomo
veramente buono sfuggirà di continuo, come un mostro, la presenza d'ogni altro uomo, la
cui sterminata autorità, oltre al poterlo spogliar di ogni cosa, può anche per
l'influenza dell'esempio e della necessità, costringerlo a cessar di esser buono. Ne
avviene da ciò, che al tiranno cattivo accostandosi i cattivi uomini, vi si fanno l'un
l'altro pessimi; ma i ribaldi accostandosi all'ottimo tiranno, si fingono allora buoni, e
lo ingannano. E questo accade ogni dì; talché la tirannide per lo più non risiede nella
persona del tiranno, ma nell'abusiva e iniqua potenza di lui, amministrata dalla
necessaria tristizia de'cortigiani. Ma, dovunque risieda la tirannide, pe' miseri sudditi
la servitù riesce pur sempre la stessa; e anzi, più dura riesce per l'universale sotto
il tiranno buono, ancorché forse alquanto meno crudele riesca per gl'individui.
Il tiranno buono forse non trema da
principio in se stesso, perché la coscienza non lo rimorde di nessuna usata violenza; o,
per dir meglio, egli trema assai meno del reo: che infin ch'egli tiene un'autorità
illimitata, ch'egli benissimo sa (per quanto ignorante egli sia) non essere legittima mai,
non si può interamente esimere dalla paura. Ed in prova, per quanto sia pacifico e sicuro
al di fuori il tiranno, non annulla pur mai i soldati al di dentro. Ma, anche supponendo
che il mite tiranno non tremi egli stesso, tremano pur sempre in nome di lui per se stessi
quei pochi pessimi che, usurpata sotto l'ombre del nome suo l'autorità principesca, la
esercitano. Quindi la paura vien sempre ad essere la base, la cagione, ed il mezzo di ogni
tirannide, anche sotto l'ottimo tiranno.
E non mi si alleghino Tito, Trajano,
Marc'Aurelio, Antonino; e altri simili, ma sempre pochissimi, virtuosi tiranni. Una prova
invincibile che costoro non andavano mai esenti dalla paura, si è, che nessuno di essi
dava alle leggi autorità sovra la sua propria persona; e non la dava egli, perché
espressamente sapea che ne sarebbe stato offeso egli primo: nessuno di essi annullava i
soldati perpetui, o ardiva sottoporgli ad un'altra autorità che alla propria; perché
convinto era che non rimaneva la persona sua abbastanza difesa senz'essi. Ciascuno dunque
di costoro era pienamente certo in se stesso, che l'autorità sua era illimitata, poiché
sottoporla non voleva alle leggi; e che illegittima ell'era, poiché sussistere non potea
senza il terror degli eserciti. Domando, se un tale ottimo tiranno si possa dagli uomini
reputare e chiamare un uomo buono? colui, che trovandosi in mano un potere ch'egli conosce
vizioso, illegittimo, e dannosissimo, non solamente non se ne spoglia egli stesso, ma non
imprende almeno (potendolo pur fare con laude e gloria immensa) di spogliarne coloro che
verran dopo lui: gente, a cui, per non esserne essi ancora al possesso, nulla affatto si
toglie coll'impedir loro quella usurpazione stessa; e massimamente venendo loro impedita
da quei tiranni che figli non lasciano. Né sotto Tito, Trajano, Marc'Aurelio, e Antonino,
cessava la paura nei sudditi. La prova ne sia, che nessuno dei sudditi ardiva francamente
dir loro, che si facessero (quali esser doveano) minori delle leggi, e che la repubblica
restituissero.
Ma facil cosa è ad intendersi perché
gli scrittori si accordino nel dar tante lodi a codesti virtuosi tiranni; e nel dire, che
se gli altri tutti potessero ad essi rassomigliarsi, il più eccellente governo sarebbe il
principato. Eccone la ragione. Allorché una paura è stata estrema e terribile, il
trovarsela ad un sol tratto scemata dei due terzi, fa sì, che il terzo rimanente si
chiama e si reputa un nulla. Qual ente è egli dunque costui, che dalla sola sua spontanea
e libera benignità possa e debba dipendere assolutamente la felicità o infelicità di
tanti e tanti milioni di uomini? Costui, può egli essere disappassionato interamente?
egli sarebbe stupido affatto. Può egli amar tutti, e non odiar mai nessuno? può egli non
essere ingannato mai? può egli aver la possanza di far tutti i mali, e non ne fare pur
mai nessunissimo? può egli, in somma, reputar sé di una specie diversa e superiore agli
altri uomini, e con tutto ciò anteporre il bene di tutti al ben di se stesso?
Non credo che alcun uomo al mondo vi sia,
che volesse dare al suo più vero e sperimentato amico un arbitrio intero sopra il suo
proprio avere, su la propria vita, ed onore; né, se un tal uom pur ci fosse, quel suo
verace amico vorrebbe mai accettare un così strano pericoloso e odioso incarico. Ora,
ciò che un sol uomo non concederebbe mai per sé solo al suo più intimo amico, tutti lo
concederebbero per se stessi, e pe' lor discendenti, e lo lascierebbero tener colla viva
forza, da un solo, che amico loro non è né può essere? da un solo, che essi per lo più
non conoscono; a cui pochissimi si avvicinano; ed a cui non possono neppure i molti
dolersi delle ingiustizie ricevute in suo nome? Certo, una tal frenesia non è mai caduta,
se non istantaneamente, in pensiero ad una moltitudine d'uomini: o, se pure una tale
stupida moltitudine vi è stata mai, che concedesse ad un solo una sì stravagante
autorità, non potea essa costringer giammai le future generazioni a raffermarla e
soffrirla. Ogni illimitata autorità è dunque sempre, o nella origine sua, o nel
progresso, una manifesta e atrocissima usurpazione sul dritto naturale di tutti. Quindi io
lascio giudice ogni uomo, se quell'uno che la esercita può mai tranquillamente e senza
paura godersi la funesta e usurpata prerogativa di poter nuocere illimitatamente e
impunemente a ciascuno ed a tutti: mentre ogni qualunque onesto privato si riputerebbe
infelicissimo di potere in simil guisa nuocere al miglior suo amico, per dritto
spontaneamente concedutogli: e mentre, certamente, ogni amicizia fra costoro verrebbe a
cessare, all'incominciare della possibilità di esercitar un tal dritto.
La natura dell'uomo è di temere e
perciò di abborrire chiunque gli può nuocere, ancorché giustamente gli nuoca. Ed in
prova, fra que' popoli dove l'autorità paterna e maritale sono eccessive, si ritrovano i
più spessi e terribili esempj della ingratitudine, disamore, disobbedienza, odio, e
delitti delle mogli e dei figli. Quindi è, che il nuocere giustamente a chi male opera,
essendo nelle buone repubbliche una prerogativa delle leggi soltanto; e i magistrati,
semplici esecutori di esse, elettivi essendovi ed a tempo; nelle buone repubbliche si
viene a temer molto le leggi, senza punto odiarle, perché non sono persona; si viene a
rispettarne semplicemente gli esecutori, senza moltissimo odiarli, perché troppi son
essi, e tuttora si vanno cangiando; e si viene finalmente a non odiar né temere individuo
nessuno.
Ma all'incontro la immagine
dell'ereditario tiranno si appresenta sempre ai popoli sotto l'aspetto di un uomo, che
avendo loro involato una preziosissima cosa, audacemente lor nega che l'abbiano essi
posseduta giammai; e tiene perpetuamente sguainata la spada, per impedire che ritolta gli
sia. Può non ferire costui; ma chi può non temerne? Possono i popoli non si curare di
ridomandargliela; ma il tiranno, non potendosi accertar mai della lor non curanza, non si
lascia perciò mai ritrovar senza spada. Non è dunque coraggio contra coraggio, ma paura
contro paura, la molla che questa usurpazione mantiene.
Ma, mentre io della PAURA sì lungamente
favello, già già mi sento gridar d'ogni intorno: «E quando fra due ereditarj tiranni si
combatte, quei tanti e tanti animosi uomini che affrontano per essi la morte, sono eglino
guidati dalla paura, ovver dall'onore?» Rispondo; che di questa specie d'onore parlerò a
suo luogo; che anche gli orientali, popoli sempre servi, i quali a parer nostro non
conoscono onore, e che riputiamo di sì gran lunga inferiori a noi, gli orientali
anch'essi animosissimamente combattono pe' loro tiranni, e danno per quelli la vita. Ne
attribuisco in parte la cagione alla naturale ferocia dell'uomo; al bollore del sangue che
nei pericoli si accresce ed accieca; alla vanagloria ed emulazione, per cui nessun uomo
vuol parere minore di un altro; ai pregiudizj succhiati col latte; ed in ultimo lo
attribuisco, più che ad ogni altra cosa, alla già tante volte nominata PAURA. Questa
terribilissima passione, sotto tanti e così diversi aspetti si trasfigura nel cuor
dell'uomo, ch'ella vi si può per anco travestire in coraggio. Ed i moderni eserciti
nostri, nei quali vengono puniti di morte quelli che fuggono dalla battaglia, ne possono
fare ampia fede. Questi nostri eroi tiranneschi, che per pochi bajocchi il giorno vendono
al tiranno la loro viltà, appresentati dai loro condottieri a fronte del nemico, si
trovano avere alle spalle i loro proprj sergenti con le spade sguainate; e spesso anche
delle artiglierie vi si trovano, affinché, atterriti da tergo, codesti vigliacchi
simulino coraggio da fronte. Senza aver molto onore, potranno dunque cotali soldati
anteporre una morte non certa e onorevole ad una infame e certissima.
Capitolo Quarto
DELLA VILTÀ
Dalla paura di
tutti nasce nella tirannide la viltà dei più. Ma i vili in supremo grado necessariamente
son quelli, che si avvicinano più al tiranno, cioè al fonte di ogni attiva e passiva
paura. Grandissima perciò, a parer mio, passa la differenza fra la viltà e la paura.
Può l'uomo onesto, per le fatali sue natìe circostanze, trovarsi costretto a temere; e
temerà costui con una certa dignità; vale a dire, egli temerà tacendo, sfuggendo sempre
perfino l'aspetto di quell'uno che tutti atterrisce, e fra se stesso piangendo, o con
pochi a lui simili, la necessità di temere, e la impossibilità d'annullare, o di
rimediare a un così indegno timore. All'incontro, l'uomo già vile per propria natura,
facendo pompa del timor suo, e sotto la infame maschera di un finto amore ascondendolo,
cercherà di accostarsi, d'immedesimarsi, per quanto egli potrà, col tiranno: e spererà
quest'iniquo di scemare in tal guisa a se stesso il proprio timore, e di centuplicarlo in
altrui.
Onde, ella mi pare ben dimostrata cosa,
che nella tirannide, ancorché avviliti sian tutti, non perciò tutti son vili.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 16 ottobre, 1999