Ci
sono libri che non compaiono nei manuali ufficiali, ma che
appartengono di diritto alla storia della letteratura italiana, almeno
a quella del loro secolo.Uno di questi è senz'altro la Storia critica del calcio
italiano di Gianni Brera, il principe del giornalismo sportivo di
casa nostra.
Il suo libro è letteralmente saccheggiato da chiunque ancor oggi
scriva di calcio, fosse pure uno scrittore importante.
Si tratta di un compendio, ma anche di un romanzo, di un'opera
sociologica, di una saga epica.
Brera fu il profeta del "calcio all'italiana", del
catenaccio. Convinto dell'inferiorità atletica degli italiani, le
uniche risorse a cui i nostri connazionali potevano attingere, per
battere avversari più forti, erano, secondo lui, l'astuzia, la difesa
accorta e il contropiede malandrino e micidiale.
Soltanto in questo modo i più deboli potevano sconfiggere i più
forti, come l'Uruguay, che nel 1950 piegò ai mondiali il
favoritissimo Brasile dal calcio bailado, come il Padova di
Rocco che, imbottito di oscuri pedatori, riusciva a battere in
campionato l'Inter di Helenio Herrera, come cento, mille altre volte
successe nella storia del calcio: la concretizzazione del mito biblico
di Davide che sconfigge Golia
Di Brera era la celebre definizione di "abatini"
riservata a molti dei giocatori italiani più in vista degli anni Sessanta, in primis
Gianni Rivera che fu, per tutto l'arco della sua carriera sportiva,
l'antagonista che Brera si era scelto, forse con un po' di furbizia,
una specie di prototipo di quello che un calciatore non doveva essere.
Gli "abatini", secondo Brera, erano quei giocatori
atleticamente scarsi, caratterialmente poco coraggiosi, che avevano
sempre bisogno di uno o due compagni di squadra che corressero al loro
posto e recuperassero palloni che poi dovevano recapitare al campione
acclamato.
A Brera si contrapponeva la scuola napoletana (Gino Palumbo, Aldo
Bardelli), che propugnava un calcio d'attacco, dove le nostre squadre
assumessero l'iniziativa del gioco, anziché subire quella degli
altri.
Ricordo perfettamente lo scetticismo con cui, nell' ultima parte
della sua vita, Brera accolse dapprima l'avvento dell'Olanda di Cruyff,
poi il calcio dinamico di Arrigo Sacchi, caratterizzato da pressing,
squadra corta, tecnica del fuorigioco, marcatura a zona, ripartenze,
da quello insomma che, con una punta di disprezzo, lo scrittore e
giornalista lombardo definiva "eretismo podistico".
Tornando al libro di Brera, vi contano sì la tattica e la tecnica
calcistiche, ma vi hanno rilievo soprattutto gli uomini, i loro
caratteri spesso così divergenti da provocare lo scontro, gli
individuali destini imperscrutabili che aprono la strada al successo o
alla disfatta. E si respira, palpabile tra le righe, l'atmosfera
storica e culturale, che fa da importante
sfondo alle partite. Partite che sono descritte con grande attenzione
ai fatti e alle statistiche, ma il cui racconto lascia filtrare il fango, la nebbia,
il
sudore, la fatica dello sforzo agonistico,
l'iniziativa del singolo, la giocata geniale, il gesto prodigioso, l'aura portentosa, misteriosa e pagana che circonda la vittoria
e la sconfitta.
Tutte notazioni degne di un vero scrittore.
Il linguaggio di Brera, poi, è particolare e inconfondibile.
Umberto Eco lo stroncò definendolo "Gadda spiegato al
popolo". Eppure, i soprannomi che egli affibbiò ai vari
protagonisti delle tenzoni calcistiche, sopravvivono ancor oggi:
"Bonimba", "Rombo di tuono", "Dottor
pedata", "Accaccone". Quel mischiare alla lingua
italiana neologismi e dialettalismi ammalia il lettore di oggi, come
aveva catturato la fantasia e il consenso degli sportivi di ieri.
Un'esperienza, quella della frequentazione dei libri di Gianni
Brera, che non può mancare al bagaglio di esperienze di un lettore
colto.
I
libri di Gianni Brera