Gianni Brera, Storia critica del calcio italiano, Baldini&Castoldi, 1998

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copertinaCi sono libri che non compaiono nei manuali ufficiali, ma che appartengono di diritto alla storia della letteratura italiana, almeno a quella del loro secolo.

Uno di questi  è senz'altro la Storia critica del calcio italiano di Gianni Brera, il principe del giornalismo sportivo di casa nostra.
Il suo libro è letteralmente saccheggiato da chiunque ancor oggi scriva di calcio, fosse pure uno scrittore importante.

Si tratta di un compendio, ma anche di un romanzo, di un'opera sociologica, di una saga epica.

Brera fu il profeta del "calcio all'italiana", del catenaccio. Convinto dell'inferiorità atletica degli italiani, le uniche risorse a cui i nostri connazionali potevano attingere, per battere avversari più forti, erano, secondo lui, l'astuzia, la difesa accorta e il contropiede malandrino e micidiale.
Soltanto in questo modo i più deboli potevano sconfiggere i più forti, come l'Uruguay, che nel 1950 piegò ai mondiali il favoritissimo Brasile dal calcio bailado, come il Padova di Rocco che, imbottito di oscuri pedatori, riusciva a battere in campionato l'Inter di Helenio Herrera, come cento, mille altre volte successe nella storia del calcio: la concretizzazione del mito biblico di Davide che sconfigge Golia

Di Brera era la celebre definizione di "abatini" riservata a molti dei giocatori italiani più in vista degli anni Sessanta, in primis Gianni Rivera che fu, per tutto l'arco della sua carriera sportiva, l'antagonista che Brera si era scelto, forse con un po' di furbizia, una specie di prototipo di quello che un calciatore non doveva essere.

Gli "abatini", secondo Brera, erano quei giocatori atleticamente scarsi, caratterialmente poco coraggiosi, che avevano sempre bisogno di uno o due compagni di squadra che corressero al loro posto e recuperassero palloni che poi dovevano recapitare al campione acclamato.

A Brera si contrapponeva la scuola napoletana (Gino Palumbo, Aldo Bardelli), che propugnava un calcio d'attacco, dove le nostre squadre assumessero l'iniziativa del gioco, anziché subire quella degli altri.

Ricordo perfettamente lo scetticismo con cui, nell' ultima parte della sua vita, Brera accolse dapprima l'avvento dell'Olanda di Cruyff, poi il calcio dinamico di Arrigo Sacchi, caratterizzato da pressing, squadra corta, tecnica del fuorigioco, marcatura a zona, ripartenze, da quello insomma che, con una punta di disprezzo, lo scrittore e giornalista lombardo definiva "eretismo podistico".

Tornando al libro di Brera, vi contano sì la tattica e la tecnica calcistiche, ma vi hanno rilievo soprattutto gli uomini, i loro caratteri spesso così divergenti da provocare lo scontro, gli individuali destini imperscrutabili che aprono la strada al successo o alla disfatta. E si respira, palpabile tra le righe, l'atmosfera storica e culturale, che fa da importante sfondo alle partite. Partite che sono descritte con grande attenzione ai fatti e alle statistiche, ma il cui racconto lascia filtrare il fango, la nebbia, il sudore, la fatica dello sforzo agonistico, l'iniziativa del singolo, la giocata geniale, il gesto prodigioso, l'aura portentosa, misteriosa e pagana che circonda la vittoria e la sconfitta.

Tutte notazioni degne di un vero scrittore.

Il linguaggio di Brera, poi, è particolare e inconfondibile. Umberto Eco lo stroncò definendolo "Gadda spiegato al popolo". Eppure, i soprannomi che egli affibbiò ai vari protagonisti delle tenzoni calcistiche, sopravvivono ancor oggi: "Bonimba", "Rombo di tuono", "Dottor pedata", "Accaccone". Quel mischiare alla lingua italiana neologismi e dialettalismi ammalia il lettore di oggi, come aveva catturato la fantasia e il consenso degli sportivi di ieri.

Un'esperienza, quella della frequentazione dei libri di Gianni Brera, che non può mancare al bagaglio di esperienze di un lettore colto.

I libri di Gianni Brera

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Pagina aggiornata il 27.09.06
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