"Volevamo
braccia, sono arrivati uomini"
(Max Frisch)
Le
persone che emigrano in un paese straniero sono di frequente oggetto di stereotipi, che li rendono
vittime degli autoctoni e impediscono loro di condurre un'esistenza normale.
Spesso i pregiudizi sono talmente forti da determinare vere e proprie
persecuzioni, che possono arrivare a linciaggi, assassini e altre
sanguinarie e repellenti brutalità.
È quanto ci racconta Gian Antonio Stella ne L'orda. quando gli
albanesi eravamo noi. Il saggio, frutto della paziente
consultazione di documenti, cronache, libri soprattutto, parla
dell'emigrazione italiana in tutto il mondo e ci riferisce di
maltrattamenti, violenze, esclusioni, insulti, sofferenze indicibili.
Dal libro di Stella apprendiamo molte cose. Per esempio che il Grand
Tour dell'aristocrazia e della ricca borghesia del Nord, facendo
tappa in Italia, non si proponeva soltanto un'immersione tra le
bellezze artistiche e del paesaggio, ma costituiva una sorta di
iniziazione al sesso, tale era la disponibilità di carne umana per
tutti i gusti e per tutte le perversioni. Insomma l'Italia di ieri
assomigliava un po' alla Thailandia di oggi.
I nostri connazionali emigravano valicando impervi e perigliosi
valichi alpini, ma, più spesso, per mare, un po' come fanno ai nostri
giorni curdi, albanesi e le altre masse di disperati che
"invadono" le nostre coste.
Con onestà, Stella ammette che non sempre gli stereotipi negativi
sugli italiani erano infondati: davvero eravamo povera gente abituata
a vivere, anche nei paesi ospitanti, in condizioni igieniche precarie.
Il tasso di analfabetismo dei nostri emigranti era fra i più alti in
Europa. E alla miseria materiale seguiva sovente quella morale, con il
ricorso, dettato talvolta dalla necessità di sopravvivere, ad
espedienti e stratagemmi riprovevoli: gli italiani alimentavano il
mercato della prostituzione (tristemente famosa la "tratta delle
bianche" e purtroppo anche il traffico di bambini destinati alle
voglie dei pedofili), erano dediti a truffe, furti, rapine, commercio
della droga e ad altre lucrose attività criminali.
La mafia e la camorra, purtroppo, in America le abbiamo esportate noi.
E persino tra i padri più prossimi del terrorismo contemporaneo
figurano gli italiani: i nostri anarchici, spesso imbevuti apparentemente
di alti e nobili ideali.
Ci vendevamo pure i bambini destinati allo sfruttamento del lavoro
minorile nelle vetrerie francesi o di Pittsburgh, nell'industria
tessile di San Paolo del Brasile, nell'edilizia svizzera. Oppure
impiegati come musicanti, spazzacamini in Olanda o strilloni in
Argentina. Sottoposti comunque, ad ogni latitudine, ad un'esistenza
miserevole.
Ricordandoci di quello che fummo e delle ingiustizie e persecuzioni
patite, Gian Antonio Stella ci richiama nel suo libro a una maggiore
indulgenza e tolleranza verso i cittadini stranieri, che vengono in
Italia a cercare fortuna.
Tuttavia rimarcando, secondo me giustamente, che:
"Detto questo, per carità: alla larga dal buonismo,
dall'apertura totale delle frontiere, dall'esaltazione scriteriata del
'melting pot', dal rispetto politicamente corretto ma a volte suicida
di tutte le culture [...].
Certo, un paese è di chi lo abita, lo ha costruito, lo ha modellato
su misura della sua storia, dei suoi costumi, delle sue convinzioni
politiche e religiose. Di più: ogni popolo ha il diritto, in linea di
principio ed entro certi limiti, di essere padrone in casa propria. E
dunque di decidere, per mantenere l'equilibrio a suo parere corretto,
se far entrare nuovi ospiti e quanti. Di più ancora: in nome di
questo equilibrio e di valori condivisi (la democrazia, il rispetto
della donna, la laicità dello stato, l'uguaglianza di tutti gli
uomini...) può arrivare perfino a decidere una politica delle quote
che privilegi (laicamente) questa o quella componente. In un mondo di
diffusa illegalità come il nostro, possono essere invocate anche le
impronte digitali, i registri degli arrivi, la sorveglianza assidua
delle minoranze a rischio, l'espulsione dei delinquenti, la mano
pesante con chi sbaglia.
La xenofobia, però, è un'altra cosa".
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