Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi, 2000

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copertina"Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".

"... soltanto quando gli raccontai di quella storia dei falò nelle stoppie, alzò la testa.  ' Fanno bene sicuro ' saltò. '  Svegliano la terra. '
' Ma, Nuto '  dissi, '  non ci crede neanche Cinto. '
Eppure, disse lui, non sapeva cos'era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull'orlo si accendeva il falò davano un raccolto più succoso, più vivace.
'  Questa è nuova '  dissi. '  Allora credi anche nella luna? '
' La luna ' disse Nuto, ' bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano. ' "

Scritto quasi di getto in due mesi, fra il settembre e il novembre del 1949, La luna e i falò rappresenta l'opera della maturità dello scrittore piemontese. Con questo romanzo, nel giugno del 1950, Pavese vinse il premio Strega.

La vicenda, narrata in prima persona, è quella di Anguilla, un trovatello che, allevato in una casa di poveri contadini in cambio di un assegno dall'ospedale di Alessandria, in giovane età lascia le terre di origine per conoscere il mondo e far fortuna.

Quarantenne ricco, ma malinconico, Anguilla fa ritorno dall'America ai paesi in cui ha trascorso la sua infanzia, alle colline delle Langhe, alle cascine che lo hanno visto fanciullo e ragazzo. Dimora all'albergo dell'Angelo, si intrattiene a conversare coi notabili del paese, ha raggiunto quella rispettabilità e quell'agio borghesi sognati da ragazzo, ma non è felice.

Tutto il romanzo è un ripercorrere con la memoria le vicende della propria infanzia, un riscoprire luoghi, odori, sapori, abitudini, volti, nel tentativo di trovare un senso alla propria esistenza.
"Che cos'è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne, e tutto quello che per tanti anni ti sei portato dentro senza saperlo si sveglia adesso al tintinnìo di una martinicca, al colpo di coda di un bue, al gusto di una minestra, a una voce che senti sulla piazza di notte".

Fa da guida e da controcanto ad Anguilla, Nuto, un vecchio amico, che dalle colline non si è mai spostato, un falegname dedito al lavoro e ai ragionamenti filosofici, che in gioventù suonava il clarino in una banda e faceva musica nei paesi a feste e matrimoni.
Nuto è convinto della profonda ingiustizia del mondo e della necessità di un riscatto.

In fondo, nel libro non succede niente. Anguilla ci parla della sua famiglia adottiva, di Virgilia che gli ha fatto da madre e di Padrino, del sor Matteo, proprietario della grande fattoria della Mora, presso cui deve lavorare una volta che Padrino non può più tenerlo, e delle sue belle figlie Irene, Silvia e Santina, che il ragazzo, data la diversa estrazione sociale, si limita ad osservare da lontano.

Nelle sue visite alla Gaminella, al vecchio casolare un tempo abitato dai contadini che l'avevano adottato, Anguilla stringe amicizia con un bambino di dieci anni, Cinto, nel quale il protagonista rivede se stesso. Il bambino è zoppo e rachitico, ma pieno di curiosità e di ansia di vivere. La sua è una famiglia disgraziata, poverissima. Suo padre, il Valino, è un mezzadro vessato dai padroni, che sfoga la propria rabbia e la propria amarezza in una violenza insensata, battendo il figlio, le donne di casa e il cane senza motivo.
Un giorno il Valino, disperato, uccide Rosina, la sua convivente, brucia la casa e si impicca. Cinto riesce a scampare alla rabbia omicida del padre e raggiunge Nuto e Anguilla. Mosso a compassione, Anguilla decide di farsi carico dell'educazione del bambino, affidandolo perché impari un mestiere, alla tutela di Nuto.

Negli ultimi capitoli del romanzo Anguilla e Nuto rievocano le vicende esistenziali delle tre belle figlie del sor Matteo. Nonostante il fascino e le possibilità economiche, tutte e tre le ragazze fanno una tragica fine: la bionda Irene, così raffinata e abile nel suonare il pianoforte, finisce con uno spiantato, dedito al gioco, che la picchia; la sensuale Silvia, rimasta incinta di un dongiovanni di provincia che non ne vuole sapere di sposarla, muore in seguito a un aborto procuratole da una levatrice, compiuto nel tentativo di sbarazzarsi di una gravidanza indesiderata. Santina, la più giovane, vivace e indipendente, viene uccisa dal mitra dei partigiani, accusata di fare la spia. Nuto stesso è testimone dell'esecuzione; il cadavere della ragazza, considerato ancora troppo bello e appetibile, viene bruciato.

La nostalgia, i luoghi dell'infanzia e dell'adolescenza, la memoria, la solitudine, lo sradicamento, la malinconia, la Resistenza, la paternità mancata, la civiltà contadina con i propri rassicuranti riti, l'ingiustizia del mondo, l'amicizia, il rapporto con le donne sono alcuni dei temi principali affrontati da Pavese nel suo ultimo romanzo, intriso di autobiografia, carico di valenze simboliche, scritto poco tempo prima di suicidarsi.

La luna e i falò è forse anzitutto il romanzo del "mito", che Pavese lega all'infanzia, alla scoperta primordiale delle cose. "Potevo spiegare a qualcuno che quel che cercavo era soltanto di vedere quello che avevo già visto?"

Il personaggio di Nuto, deuteragonista e figura complementare, in ultima analisi, dello scrittore e di Anguilla, è ritagliata sulla persona reale di un amico d'infanzia, Pinolo Scaglione, che Pavese interpellerà più volte durante l'ideazione e la stesura del romanzo. Impersona l'impegno politico-sociale di Pavese. È  il rappresentante di quel mondo contadino vagheggiato da Anguilla, è lo storico della Resistenza locale.

Altro snodo fondamentale del romanzo è il rapporto di Anguilla col piccolo Cinto, per il quale il protagonista prova compassione e invidia, ma soprattutto un sentimento paterno. Cinto è per lui il figlio che non ha mai avuto. Attraverso il bambino, attraverso il suo sguardo ancora incantato, l'adulto cerca di ritrovare una nuova e fresca visione del mondo, a lui, ormai, altrimenti inaccessibile.
"Cos'avrei dato per vedere il mondo con gli occhi di Cinto, ricominciare in Gaminella come lui, con quello stesso padre, magari con quella gamba - adesso che sapevo tante cose e sapevo difendermi. Non era mica compassione che provavo per lui, certi momenti lo invidiavo".

Di grande intensità lirica, La luna e i falò, che consta di 32 capitoletti di tre-quattro pagine ciascuno, utilizza un linguaggio scarno, quasi privo di aggettivi (quelli impiegati sono sempre ben scelti), dei periodi e delle frasi brevi. Pavese preferisce l'uso delle coordinate a quello delle subordinate, per conferire semplicità e colloquialità alla sua prosa. Una lingua che, per avvicinarsi al parlato, ricorre a costruzioni e a modi di dire tipici del dialetto.
Sullo stile del romanzo incide la lezione degli americani, in particolare di Sherwood Anderson, così come l'America descritta da Pavese in alcuni memorabili capitoli è un'America totalmente immaginata, letteraria, ricavata dalla lettura dei narratori americani, che Pavese tradusse e fece conoscere in Italia.

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