L'ETA' DEL REALISMO
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I)
Nasce a Catania nel 1840 da una famiglia
di agiati proprietari terrieri.
Trascorre i primi anni in Sicilia,
scrivendo assai presto tre romanzi
storici, che risultano però poco
significativi e alquanto influenzati
dallo scrittore francese Alessandro
Dumas. Nel '58 si iscrive alla facoltà
di giurisprudenza, ma presto l'abbandona
per dedicarsi completamente alla
letteratura. Tra il '60 e il '64, dopo
aver prestato servizio nella Guardia
nazionale al tempo dell'impresa
garibaldina in Sicilia, si dedica al
giornalismo politico-patriottico,
dirigendo alcuni periodici che però
ebbero vita breve. II)
Fra il '65 e il '71 vive a Firenze, in
quegli anni capitale d'Italia, dove ebbe
i primi contatti letterari e dove
pubblicò con successo due romanzi: Una
peccatrice (1866) e Storia d'una
capinera (1871). Nel primo si narra
l'amore di una nobildonna con un giovane
scrittore, il quale, dopo aver suscitato
nell'amante una passione intensa e
tormentosa, la trascura spingendola al
suicidio. Nel secondo si narra la storia
di una ragazza, costretta dalla matrigna
a farsi novizia. Tornata per breve tempo
a casa in seguito a un'epidemia di
colera, la ragazza s'innamora del
fidanzato della sorellastra. Ma la
famiglia la obbliga a ritornare in
convento e a prendere i voti
definitivamente. La ragazza muore pazza. III)
Questi due romanzi sono il prodotto di
una sensibilità tardo-romantica
(l'amore passionale e travolgente che
porta alla disperazione o alla morte),
ma, soprattutto il secondo, presentano
anche uno studio dell'ambiente ben
documentato, la ricerca della verità e
dell'efficacia sociale o pedagogica del
loro contenuto. Il Verga mira qui a
trasferire nei protagonisti dei romanzi
i suoi stessi stati d'animo e sentimenti
(di qui il loro valore autobiografico).
Le avventure, benché non vissute ma
immaginate, vengono descritte con lo
scopo di criticare la falsità e
l'immoralità della società borghese e
aristocratica (specie quella elevata)
contemporanea allo stesso scrittore. In
particolare al Verga non piace la
concezione borghese individualistica e
raffinata che cerca nell'amore
passionale un diversivo per sfuggire
alla noia della vita quotidiana. IV)
Dal '72 al '93 Verga visse a Milano,
dove fu in stretto contatto con gli
ambienti letterari che facevano allora
di Milano la città più viva d'Italia
(si pensi p.es. al fenomeno della
Scapigliatura, che contestava su
posizioni bohémienne il falso pudore
borghese e l'aristocratico rigore della
lingua letteraria tradizionale). V)
A Milano Verga stringe amicizia con
Luigi Capuana, che è il teorico del
Verismo italiano. Caratteristiche
fondamentali del Verismo, di cui il
Verga diverrà l'artista più
rappresentativo, sono: 1) descrizione di
un fatto umano (realmente accaduto) che
doveva servire da documento e che
l'opera artistica avrebbe reso
stilisticamente bello; 2)
il procedimento scientifico nella
narrazione dell'ambiente sociale e
naturale in cui il fatto è accaduto
("far parlare le cose",
impedire che l'autore si serva dei fatti
come di un pretesto per esprimere se
stesso, e quindi
"impersonalità" dello
scrittore); 3)
linguaggio aderente ai fatti, cioè
vivo, immediato, spontaneo, senza
retorica né formalismi, disposto ad
accettare persino le espressioni
dialettali; 4)
regionalismo, cioè interesse prevalente
per i ceti più umili di quell'ambiente
popolare che lo scrittore deve
privilegiare. VI)
Il Verga non accetta subito
integralmente l'ideologia e la poetica
del Verismo. A Milano continua a
comporre romanzi in cui ancora polemizza
con la vita e il costume della media e
alta borghesia: amori travagliati,
impossibili, melodrammatici, che spesso
si concludono con la disperazione, la
morte per malattia, il suicidio, la
pazzia (in età matura egli rifiuterà
questa sua produzione). VII)
E' nel '74 che, con la pubblicazione di Nedda,
avviene il salto qualitativo. La novella
è diversa per argomento e per stile.
Narra la vicenda di una raccoglitrice di
olive siciliana che, rimasta orfana,
lavora a giornata presso varie fattorie
per mantenere la madre ammalata, che poi
morirà. Dal suo amore per un giovane
povero nasce una bambina, ma il ragazzo,
prima ancora di sposarla, muore di
malaria. Nedda viene respinta da tutti e
non trovando più lavoro vede morire di
stenti la propria bambina. Il racconto
è significativo perchè il Verga
polemizza non più con le contraddizioni
interne alla vita borghese, ma con
quelle che questa vita produce
esternamente, nelle classi più umili.
Non gli interessa più l'alta società
milanese e fiorentina, ma la Sicilia dei
poveri. VIII)
Come mai questa svolta? Quattro fattori
lo influenzarono più o meno
decisamente: 1)
la società amorale, ipocrita e frivola
dell'alta borghesia gli era venuta a
noia, per cui sentiva la necessità di
ritrovare la semplicità, la
spontaneità e la durezza della vita
quotidiana della gente povera; 2)
la teoria dell'evoluzione naturale di
Darwin, dalla quale egli ricavò il
concetto della lotta per l'esistenza
come base dello sviluppo della storia
umana: in questa lotta sono soprattutto
i ceti marginali a pagare le maggiori
conseguenze; 3)
gli studi, le inchieste e le discussioni
sulla questione meridionale che lo
guidavano alla scoperta della miseria
del Sud (si pensi ai fenomeni
dell'emigrazione, del brigantaggio,
dell'abbandono delle terre...); 4)
il Naturalismo di Emilio Zola, Flaubert
e di altri naturalisti francesi, mediato
in Italia dal Verismo di Capuana, gli
permise di eliminare la sua sensibilità
tardo-romantica, il suo soggettivismo
autobiografico, accettando invece la
poetica dell'obiettività e della
rappresentazione scientifica della
realtà, oltre che l'esigenza di
denunciare le contraddizioni prodotte
dalla società borghese. IX)
Nell'80 il Verga compone una raccolta di
sette novelle che intitola Vita dei
campi; nell'83 pubblica Novelle
rusticane e progetta un ciclo di cinque
romanzi, I vinti, di cui però scrive
solo i primi due: I Malavoglia
nell'81 e Mastro don Gesualdo
nell'88, che sono i suoi capolavori,
riconosciuti a livello europeo. Tutte
queste opere hanno come sfondo la
Sicilia intorno a Catania, e come
protagonisti uomini e donne delle classi
subalterne: contadini, pastori,
pescatori, artigiani, braccianti... Dura
è la critica nei confronti
dell'aristocrazia nobiliare. X)
Nel progetto originario, I vinti
dovevano rappresentare gli sconfitti
nella lotta per il progresso, in cinque
fasi diverse: I Malavoglia sono
la storia di una famiglia di pescatori
che esce sconfitta dal suo tentativo di
conquistarsi migliori condizioni di
vita; Mastro don Gesualdo è la
sconfitta di un povero muratore che,
divenuto ricco, vuole ottenere una
promozione sociale sposando una
nobildonna decaduta, che però non lo
ama, né lo ama la figlia, che gli
rinfaccia la sua origine umile. Mastro
don Gesualdo morirà di cancro,
abbandonato da tutti, con il patrimonio
intaccato dal genero. I
"galantuomini" del paese,
invidiosi e preoccupati della sua
fortuna, gli erano sempre rimasti
ostili. Gli altri tre romanzi non
scritti dovevano narrare la sconfitta
dei sentimenti negli alti ambienti
sociali, la sconfitta delle ambizioni
politiche tese alla conquista del
potere, la sconfitta dell'artista che
mira alla gloria. XI)
In questi romanzi, che pur possono
sembrare molto pessimisti, vi sono degli
aspetti positivi: 1)
il rifiuto di ogni paternalismo bonario
nei riguardi degli oppressi, i quali
hanno bisogno di giustizia e non
soltanto di comprensione; 2)
la scoperta dell'umanità/dignità dei
ceti marginali, i quali cercano di
affermare, per quanto sia loro possibile
(cioè concesso dal destino), valori
come l'amore, l'onestà, l'onore, la
fedeltà; 3)
l'analisi del risvolto negativo del
progresso scientifico e industriale
tanto esaltato dalla borghesia; 4) la
polemica contro i miti sentimentali (ad
es. l'unità della famiglia) o
intellettuali (ad es. la libertà delle
istituzioni parlamentari e civili,
l'unità d'Italia, l'unità nazionale
della lingua...) tipici della società
borghese. XII)
Senonché nell'ultimo Verga il
pessimismo tende a prevalere su ogni
considerazione positiva nei riguardi
degli oppressi. Dopo aver capito che le
conquiste risorgimentali per l'unità
d'Italia erano state strumentalizzate
dalla borghesia per affermare il proprio
dominio a livello nazionale; dopo aver
capito che la borghesia non era disposta
a redistribuire le terre dei
latifondisti ai contadini (vedi ad es.
la repressione garibaldina dei contadini
di Bronte in Sicilia); infine, dopo aver
capito che il nuovo Stato unitario era
diventato lo strumento nelle mani della
borghesia al nord e dei latifondisti al
sud, strettamente alleati -- il Verga è
altresì convinto sia che le classi
disagiate del sud, vittime della loro
stessa ignoranza e arretratezza, non
saranno capaci di modificare questo
stato di cose, sia che il giovane
movimento di orientamento socialista,
cresciuto nelle progredite e
"lontane" regioni
settentrionali, non abbia intenzione di
lasciarsi coinvolgere attivamente nelle
preoccupazioni del Mezzogiorno. XIII)
Agli inizi del '900 il pessimismo del
Verga diventa così cupo ch'egli
praticamente smette di scrivere. Dal
1893 sino al 1922, anno della morte,
egli si ritira a Catania, dove vive in
un silenzio pressoché totale,
amareggiato dall'incomprensione che
circondava la sua opera (e che
continuerà per tutto il ventennio
fascista). L'ultimo romanzo, Dal tuo
al mio, del 1905, attesta questa sua
involuzione politica: esso infatti
descrive il voltafaccia di un
sindacalista operaio che, il giorno in
cui sposa la figlia del padrone, si
rende conto di essere passato dall'altra
parte della "barricata", e lo
dimostra difendendo con le armi la
miniera di zolfo che i solfatari
minacciavano di far saltare. IDEOLOGIA
E POETICA I)
L'opera del Verga è una rivalutazione
della serietà morale degli oppressi, ma
senza paternalismi. Egli rifiuta di
dipingere con tinte idilliache la vita
dei campi o delle officine. La sua
letteratura è tragica, la sua filosofia
della vita è profondamente
pessimistica. Dio è assente nei suoi
romanzi e lo è pure l'idea di
provvidenza. Verga non crede nemmeno in
un avvenire migliore conquistato, sulla
terra, con le forze degli uomini, né
crede alle lotte politico-sindacali del
"quarto stato" (i poveri). A
lui interessano solo i
"vinti", cioè quelli che
"cadono lungo la strada" con
eroica rassegnazione, con la dignità
umile e austera di chi sa di non poter
modificare il corso degli eventi. Chi
cerca di deviare da questo corso viene
sempre sconfitto da chi detiene il
potere. Quindi, piuttosto che illudersi,
è meglio rassegnarsi coscientemente. II)
Per quanto riguarda lo stile, egli ha
cercato di rendere più viva la lingua
del Manzoni, liberandola da ogni residuo
letterario e accademico. La prosa dei
Promessi sposi, così corretta, classica
e tradizionale, è assai diversa dalla
sua, che è più diretta, più
immediata, più coinvolgente il lettore.
Gli stessi sentimenti, le reazioni
psicologiche dei protagonisti dei suoi
romanzi, il loro modo di vedere le cose
sono semplici ed elementari. Questa
prosa discorsiva accentua il realismo
degli avvenimenti e nasconde meglio la
presenza dello scrittore, tanto che le
parti connettive dei suoi romanzi
sembrano essere narrate da un
personaggio del luogo. Il Verga insomma
non voleva creare una prosa nazionale
lavorando "a tavolino" sui
migliori dialetti italiani, ma voleva
creare una "prosa parlata", di
cui il dialetto siciliano doveva restare
parte integrante. Il tempo avrebbe detto
-a suo giudizio- se questa prosa
"popolare" meritava una
rilevanza a livello nazionale. Ma la
borghesia al potere non poteva accettare
una letteratura che la criticava così
duramente. L'anomalia
del Verga I) Di
fatto il Verga proviene socialmente da
un ambiente aristocratico benestante e
soprattutto egli s'è formato
intellettualmente negli ambienti
borghesi medio-alti di Firenze e di
Milano. Solo quando questi ambienti gli
sono venuti a noia, egli ha deciso di
ritornare a Catania, cominciando ad
interessarsi delle condizioni miserevoli
dei meridionali. Verga
è stato uno dei pochi grandi romanzieri
in Italia a comprendere il tradimento
della borghesia post-unitaria, ma, nello
stesso tempo, egli è stato anche uno
dei pochi romanzieri che, nonostante una
tale consapevolezza politica e sociale,
non ha saputo intravedere nell'emergente
movimento socialista una risposta alle
contraddizioni del Sud. Persino la
borghesia non rimase indifferente a tale
movimento. Ma
il suo merito maggiore non sta solo
nell'aver evidenziato la miseria del Sud
come "prodotto" dell'opulenza
del Nord (vedi il "blocco"
della borghesia con gli agrari); sta
anche nell'aver creato un modo nuovo di
"fare letteratura", cioè
nell'aver elaborato uno stile popolare,
più diretto e immediato, che meritava
sicuramente, da parte della critica e
delle commissioni che redigono i
programmi ministeriali, un'attenzione
maggiore. Verga,
in realtà, è stato il primo a
dimostrare che una letteratura nazionale
non può essere il frutto di un lavoro
"a tavolino" sui migliori (o
sul migliore dei) dialetti regionali, ma
è anzitutto il frutto di una
letteratura popolare che, per esser
tale, deve per forza essere regionale e
che può aspirare a diventare nazionale
solo se i valori che esprime vengono
accolti positivamente dai lettori di
altre regioni. Una letteratura nazionale
può essere riconosciuta solo a
posteriori, mettendo radici in modo
lento e graduale. Essa non può imporsi
né per il genio dell'autore, né per la
compiacenza della critica, ma solo per
il suo contenuto autenticamente umano e
popolare. I
governi borghesi, che fino ad oggi si
sono succeduti, hanno voluto fare dei
Promessi sposi il modello della
letteratura nazional-popolare, ma i
Malavoglia o Mastro don Gesualdo non
rientrano forse in questo stesso
modello? E' bene comunque intendersi,
poiché anche il Verga presenta dei
limiti che vanno superati: una vera
alternativa al Manzoni può essere
costituita non tanto da una letteratura
"per" il popolo, dove il
popolo è sì protagonista ma chi ne
parla non ne fa parte, quanto piuttosto
da una letteratura in cui il popolo sia
portavoce di se stesso, cioè soggetto
protagonista di storia. Una letteratura
di questo genere è ancora tutta da
costruire. II) A
partire dal romanzo Nedda, il Verga ha
cominciato a guardare con rassegnazione
le sofferenze della gente povera, come
prima guardava con disgusto, anche se
con altrettanta rassegnazione, i limiti
della borghesia e dell'aristocrazia. La
differenza tra le due rassegnazioni sta
nel "disgusto", che, a partire
da Nedda, egli non può più provare,
essendo mutato l'oggetto dei suoi
interessi sociali. Il proletariato
infatti merita comprensione e pietà,
non disgusto, pur senza paternalismi di
sorta. Se
il Verga fosse stato un autentico
realista avrebbe saputo trovare nello
sviluppo borghese dell'economia un
fattore di progresso rispetto alla
stagnazione dell'economia
precapitalistica degli agrari del Sud.
Il suo pessimismo radicale forse è
dipeso dal fatto ch'egli si aspettava
dall'unificazione nazionale, ovvero
dalla rivoluzione borghese, un mutamento
immediato, positivo, della situazione
meridionale. Egli cioè ingenuamente
aveva creduto che l'unificazione avrebbe
potuto comportare per i meridionali una
sorta di rivoluzione democratica
"dall'alto", senza
un'effettiva partecipazione delle masse
popolari. Sarebbe di grande interesse,
in questo senso, esaminare gli articoli
ch'egli scriveva quand'era giornalista a
Catania. http://scuolaitalia.com/zibaldone/
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