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INFERNO:
CANTO XII
 

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Il luogo in cui giungemmo per scendere lungo il dirupo  era scosceso e, per di più a causa di ciò che in esso si trovava (il Minotauro), tale, che ogni sguardo  lo avrebbe evitato.

Quale è la frana  che a valle di  Trento colpì in una delle sue rive  l’Adige, o a causa di un terremoto o per l’erosione del terreno sottostante,

in modo che il pendio  dalla vetta della montagna, dalla quale la frana si staccò, alla pianura è così inclinato, da offrire una via di discesa a chi si trovasse in alto,

Dante precisa le forme del paesaggio infernale mediante riferimenti a luoghi della terra. Questi riferimenti sono, condotti a volte con uno scrupolo che può apparire scientifico, come qui, dove è indicato non solo il risultato, di un fenomeno (la particolare configurazione del terreno: è sì la roccia discoscesa), ma il  fenomeno stesso (la ruina che percosse l'Adige) e le sue più probabili cause (terremoto o erosione del terreno).
Come giustamente osserva Montanari, occorreva vedere "in queste insistenze descrittive più ancora che la mentaIità realistica, esatta, scientifica di Dante, l'impegno verso il suo  tema sentito come cosa assolutamente seria e più che poetica". Diversamente infatti che nelle altre visioni medievali dell'oltretomba, dove l'elemento immaginativo prevale sempre su quello reale, nella Commedia, più la situazione è irreale, fantastica, più appare convalidata , dall'assoluta serietà con cui il Poeta la descrive. In perfetto accordo con il pensiero cristiano, per Dante la vera realtà è l'oltretomba; essa, appunto perché reale, appare dotato di leggi proprie e intimamente coerente con se stesso. Di qui la scìentíflcità di cui spesso l'elemento fantastico si colora in Dante.
La frana a sud di Trento, alla quale è paragonato il dirupo che porta dal sesto al settimo cerchio, va probabilmente identificata negli Slavini di Marco, dei quali una esatta descrizione è in un passo del trattato Sulle meteore di Alberto Magno.

tale era la discesa di quel burrone; e nella parte superiore della Costa franata  giaceva distesa la vergogna, dei Cretesi

che fu concepita nella finta vacca; e quando ci vide, morse se stesso, come colui che è sopraffatto internamente dall’ira.

Il Minotauro, che per gli antichi era un uomo con la testa di toro, ma che Dante, equivocando forse un'espressione di Ovidio ("uomo per metà bovino, bove per metà umano"), immagina come toro con la testa di uomo, è definito infamia in quanto rappresenta la testimonianza vivente del degradarsi dell'umano nel bestiale. Sua madre Pasifae, moglie del re di Creta Minosse, presa d'amore per un toro, si fece rinchiudere in una vacca dì legno. Nato che fu, il Minotauro venne imprigionato in un luogo da cui era impossibile uscire: il Labìrinto. Nel Minotauro dantesco i richiami mitologici si fondono con il realismo della scena colta dal vivo. Il simbolo (l'infamia) non resta confinato nell'ambito del riferimento dotto (la leggenda di Parsifae), ma acquista concretezza, esprime una vitalìtà disperata nella descrizione del mostro che prima morde se stesso, poi, quando l'ira è al culmine (versi 22-24), saltella come il toro morente.

Il mio saggio maestro gli si rivolse gridando: “ Pensi forse di trovarti in presenza del signore  d’Atene, che sulla terra ti diede la morte?

Allontanati, bestia: costui non giunge infatti guidato da tua sorella, ma si reca  a vedere i vostri tormenti”.

Osserva giustamente il Sapegno come le parole che Virgilio rivolge al Minotauro, mentre sembrano volerlo rassicurare, in realtà, richiamandogli alla memoria la sua cruenta uccisione e il tradimento della sorellastra Arianna, figlia di Minosse, ne accrescono l'ira e "la portano a sfogarsi in gesti dissennati e bestiali, sui quali facilmente. anche questa volta, avrà il sopravvento l'astuta ragione dell'uomo"
Secondo una leggenda, Arianna aìutò Teseo a raggiungere il Minotauro perché lo uccidesse; e, affinché l'eroe non si smarrisse nell'intrico del Labirinto, gli diede un gomitolo da dipanare lungo il suo cammino.

Come fa il toro che si scioglie dai nodi che lo legano nell’istante  in cui, mortalmente colpito, non è più capace di camminare, ma barcolla qua e là,

tale io vidi diventare il Minotauro; e il sagace Virgilio  gridò:  “ Corri al punto di discesa; è bene che tu scenda, mentre è infuriato ”.

L'immagine del toro colpito a morte è già in Seneca e Virgilio. Questi autori, nel descrivere l'uccisione dell'animale in occasione di un sacriflcìo agli dei, sanno infondere a tutta la scena un senso di nobile pietà. In Dante il quadro sembra ritrarre piuttosto la scena di un macello, e si concretizza in una accentuazione dei tratti più crudi e realistici. Come Cerbero, il Minotauro è anch'esso animalità allo stato puro, forza cieca che l'umana ragione non può non disprezzare e deridere.

Così ci avviammo  attraverso l’ammasso di quelle pietre, che si muovevano spesso sotto i miei piedi per l’insolito peso.

Dante ravviva sovente la narrazìone del suo viaggio nell'al di là con osservazioni, come questa, solo in apparenza insignificanti; in realtà esse hanno tutte la funzione di insistere sulla singolarità della sua esperienza nel mondo dei morti. Egli è il vivo, dotato di consistenza e peso, nel regno degli spettri, egli ha il potere, come osserverà in questo stesso canto il centauro Chirone, di muovere ciò che tocca. Questo motivo si ripresenterà diverse volte nel corso del poema e darà luogo, soprattutto nella seconda cantica, a momenti di delicata poesia.

Procedevo meditabondo; e Virgilio disse:  “Tu pensi forse a questa frana custodita  da quella belva irosa che ora ho reso inoffensiva.

Voglio dunque che tu sappia che la volta precedente, allorché scesi nella parte inferiore dell’inferno, questo pendio non era ancora franato.  

Ma, se non mi inganno, senza dubbio poco prima della venuta di colui che tolse a Satana il glorioso bottino del limbo,