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Non appena ebbe finito di parlare il ladro levò entrambi i pugni col pollice sporgente fra l’indice e il medio, gridando: « Prendi, Dio, poiché rivolgo a te questo gesto! » A proposito dello sconcio gesto di Vanni Fucci può essere
utile ricordare quanto scrive nella sua Cronaca (VI, 5) il Villani: sulla rocca
pistoiese di Carmignano “avea una torre alta settanta braccia, e ivi due
braccia di marmo che faceano con le mani le fiche a Firenze”. Nel suo commento
il Tommaseo dà notizia di una disposizione dello statuto di Prato, in base alla
quale chi avesse compiuto questo gesto verso un’immagine di Dio o della Vergine
doveva pagare “dieci lire per ogni volta; se no, frustato”. Da allora in poi i serpenti mi diventarono cari, poiché uno gli si attorcigliò in quello stesso istante al collo, come per dire “Non voglio che parli oltre”, ed un altro alle braccia, e lo legò nuovamente, congiungendo con tale forza capo e coda sul suo davanti, che (il dannato) non poteva con esse fare alcun movimento. Il significato del termine « amicizia » è in Dante assai
vicino a quello di «affetto», «amore». Più forte dell’istintivo orrore che
l’uomo prova alla vista del serpente è nel Poeta la riconoscenza per gli
strumenti della giustizia divina, che pongono fine al blasfemo rovesciamento di
ogni valore. Ahi Pistoia, Pistoia, perché non decidi di ridurti in cenere in modo da non esistere più, dal momento che superi nel fare il male i tuoi fondatori ? Secondo una leggenda assai diffusa nel Medioevo i fondatori
di Pistoia erano stati i soldati dell’esercito di Catilina, per cui, come
scrive il Villani, “non è da maravigliarsi se i Pistolesi sono stati e sono
gente di guerra, fieri, crudeli, intra loro e con altrui. essendo stratti dal
sangue di Catellina” (Cronaca 1, 32). Per quel che riguarda l’invettiva di
Dante contro questa città, essa, come fa notare il Tomaselli, appare
perfettamente legittimata nel quadro dei principii giuridici medievali, secondo
i quali tutti i cittadini di un comune erano ritenuti corresponsabili del reato
compiuto da uno di loro. Il tono di quest’apostrofe riecheggia quello dei
profeti dell’Antico Testamento: l’augurio espresso dal Poeta è una risposta indiretta
alla profezia di Vanni. In nessuno dei tenebrosi cerchi infernali vidi mai un dannato così superbo verso Dio, neppure colui (Capaneo) che precipitò dall’alto delle mura di Tebe. L’accenno a Capaneo, fatto attraverso una perifrasi che
richiama l’attenzione del lettore non sulla superbia di questo personaggio, ma
sul momento in cui questa superbia si dimostrò insufficientemente fondata (la
caduta dalle mura di Tebe), mette in luce il carattere assolutamente disumano,
non riducibile neppure alle proporzioni del mito, dell’empietà di Vanni Fucci.
“Capaneo spunta l’asprezza del proprio sarcasmo tra le pieghe della sua
magniloquenza; Lucifero è un vinto, un grande vinto, che nella coscienza della
propria impotenza goccia tutta l’amarezza del proprio dolore: Satana di
quell’inferno è Vanni.” (Cosmo) Molto persuasive le seguenti osservazioni del
Sapegno: “Proiettata su uno sfondo di vicende e di costumi moderni, ritratti
con immediatezza realistica; resa più torbida e insieme più intensa dalla
presenza di una feroce passione politica, che coinvolge anche lo stato d’animo
dello spettatore; la ribellione di Vanni Fucci si svolge secondo una linea di
tensione drammatica e di esasperato movimento, che nettamente si
contrappongono, sul piano artistico, alla costruzione immobile e
prevalentemente scultorea della figurazione di Capaneo”. Quello fuggì senza più dire parola; ed io scorsi un centauro gonfio d’ira avanzare gridando: « Dov’è, dov’è quel ribelle ? » Non credo che la Maremma abbia tante serpi, quante quello aveva sulla groppa fin dove cominciano le fattezze umane. Sopra le sue spalle, dietro la nuca, stava un drago con le ali aperte; e questo investiva col fuoco chiunque s’imbatteva in lui, Virgilio disse: « Costui è Caco, il quale nella spelonca sul monte Aventino molte volte fu autore di sanguinose stragi. Non percorre la medesima strada dei suoi simili (posti a guardia del primo girone dei violenti) a causa del furto che compì con l’inganno della grande mandria che ebbe a portata di mano; per questo le sue azioni scellerate ebbero termine sotto la clava di Ercole, il quale probabilmente gli assestò cento colpi, mentre egli non riuscì a sentirne nemmeno dieci ». Il centauro Caco, figlio di Vulcano, si servi della frode,
oltre che della violenza, come specifica Virgilio in un passo dell’Eneide
(VIII, verso 206), per derubare Ercole di alcune giovenche e di alcuni tori
facenti parte dell’armento che era stato di Gerione. Infatti per far perdere le
proprie tracce Caco trascinò il bestiame rubato per la coda, facendolo
camminare all’indietro fino alla propria spelonca. Questo è il motívo per il
quale non si trova insieme con gli altri centauri a guardia del girone in cui
sono puniti, insieme con gli omicidi, coloro che rubarono usando la sola
violenza. La figura semi-umana e semiferina descritta da Virgilio è deformata
da Dante, con la aggiunta del groviglio di serpi e del drago che vomita fuoco,
secondo un gusto tipicamente medievale. Essa risulta, rispetto all’originale
virgiliano, più terribile e più grottesca ad un tempo. La presentazione ironica
della sua morte ad opera di Ercole (l’ironia è in un avverbio - forse - e nella
simmetrica contrapposizione dei due emistichi del verso 33, per cui a diè
corrisponde sentì, a cento, diece) non si risolve in una semplice arguzia, al
livello di un malizioso, ma in fondo innocente, gioco di parole. Per V. Rossi
“c’è nella frase un pò d’arguzia irrisoria”; per il Torraca: “L’osservazione di
Virgilio ha dell’arguto, e fa sorridere con la chiusa che non si aspetterebbe”;
analogo è il punto di vista espresso nella loro monografia su questo canto dal
Ferrero e dal Chimenz. Più nel giusto appare il Momigliano allorché vede in
essa l’espressione di una “vitalità vigorosa”, di una “rudezza vichiana”. Mentre diceva queste cose, ecco che Caco passò oltre e tre ombre vennero sotto il luogo in cui ci trovavamo, delle quali né io né Virgilio ci accorgemmo, se non quando gridarono: «Chi siete?»: onde il nostro discorrere cessò, e da quel momento in poi facemmo attenzione soltanto a loro. Io non li riconoscevo; ma accadde, come suole accadere casualmente, che uno di loro dovesse fare il nome di un altro, dicendo: «Dove sarà rimasto Cianfa? »: per la qual cosa io, affinché Virgilio prestasse attenzione, gli feci segno di tacere. Del fiorentino Cianfa, appartenente alla famiglia dei
Donati, capi dei Neri, consígliere del capitano dei popolo per il sesto di
porta San Piero nel 1282, un antico commentatore scrive che “sempre si dilettò
di furare bestie e di robare bottiglie e votare cassette”; ma, a parte questa
caratterizzazione faceta che sa di leggenda, si conosce ben poco di questo
personaggio. Se tu ora, lettore, sei restio a credere ciò che dirò, non sarà cosa strana, dal momento che io, che ne fui spettatore, consento a malapena a me stesso di crederlo. Mentre tenevo gli occhi rivolti verso di loro, ecco che un serpente con sei piedi si scaglia contro uno di loro, e aderisce a lui interamente. Con i piedi centrali gli serrò il ventre, e con quelli anteriori gli afferrò le braccia; poi gli morsicò entrambe le guance; stese i piedi posteriori lungo le cosce, e fra queste infilò la coda, e la tese nuovamente su per il suo dorso. Edera non fu mai a tal punto stretta ad un albero, come il mostro spaventoso avvinse le sue membra a quelle dei dannato. In merito a questa prima metamorfosi del canto, nella quale
è stato veduto “il vertice poetico, la chiave di volta dell’episodio”
(Ferrero-Chimenz), acutamente osserva il Momigliano: “Sembra una presa di
possesso. Il serpe è lo strumento di Dio, della sua giustizia così illuminata
ed esatta: senza di questo la sua adesione al corpo del ladro non sarebbe così
geometrica, non ci sarebbe, pure in tanto impeto, tanta compostezza... Ogni
mossa è diretta ad ottenere la più completa compenetrazione dei due corpi: e
nulla potrebbe manifestar meglio del matematico combaciar dei due esseri,
l’intenzione divina di cancellare nella mostruosa fusione ogni traccia dello
spirito umano”. La violenta presa di possesso dell’uomo da parte del serpente è
“affermata e ribadita, con urgenza spietata, dai verbi che s’incalzano: si
lancia, s’appiglia, avvinse, prese, addentò, avviticchiò. Così gagliarda è
questa vitalità ferina, che qualcosa di essa, quasi una prepotenza animalesca,
pare trasmessa all’immagine affettuosa e familiare dell’edera che il Poeta
prende a paragone” (FerreroChimenz). Dopo che si fusero insieme come fossero stati di cera calda, e mescolarono i loro colori, né l’uno né l’altro sembrava più quello di prima, come sulla superficie della carta si muove, precedendo la fiamma, un colore scuro che non è ancora nero e non è più bianco. Dopo la violenta aggressione, nettamente scandita in
ciascuno dei suoi termini, per cui la distinzione tra agente e paziente si
ripropone, nelle terzine 52 e 55, in ciascun verso “I’ispirazione, secondando
il fatto, da plastica si fa pittorica” (Momigliano). Dopo la similitudine
dell’ellera che suggella, definendolo visivamente, l’impeto del serpente, le
distinzioni si attenuano, i due principii di individuazione si offuscano, i due
corpi si fondono, le due forme si perdono in un che d’indefinito e mai visto.
Questo secondo tempo della metamorfosi è espresso, sintatticamente, dal
sostituirsi della terza persona plurale nei versi 61-62, alla terza persona
singolare delle terzine 52 e 55. “Non c’è più né aggredito né aggressore; alla rapida, aspra, tagliente precisione di
principio del quadro succede una lentezza e una pietà nascosta”, per cui, ad
esempio, la similitudine del papiro, così riposata e mesta in confronto a
quella dell’ellera, termina con una parola - more - la quale, “più che al
quadro, ci fa pensare al sentimento, all’agonia di quelle due forme vive
invasate l’una nell’altra, all’angoscia inespressa dello spirito umano che
muore confuso colla bestia” (Momigliano). Gli altri due lo osservavano attentamente, e ciascuno gridava: « Ahimè, Agnolo, come, ti trasformi ! Vedi che ormai non sei né due figure né una sola ». Su Agnolo Brunelleschi, appartenente a nobìle famiglia
fiorentina passata dal partito ghibellino a quello dei Guelfi neri, non abbiamo
notizie precise, a parte quelle, umoristiche e poco attendibili, contenute in
una chiosa anonima: “infino picciolo votava la borsa al padre e alla madre, poi
votava la cassetta alla bottega, e imbolava; poi da grande entrava per le case
altrui, e vestiasi a modo di povero, e faciasi la barba di vecchio; e però il fa
Dante così trasformare per li morsi di quello serpente come fece per furare”. Le due teste erano già divenute una sola, allorché ci apparvero due aspetti fusi in un unico volto, nel quale erano due esseri che avevano smarrito la propria fisionomia. Il tema della tristezza e della pietà, implicito al di là
della perspicuità visiva dei termini nelle immagini della cera e del papiro, ed
esplicitamente denunziato dal verbo, more con il quale si chiude il verso 66,
riaffiora nell’espressione perduti alla fine del verso 72. Il suo significato
immediato è: “confusi in modo da non essere più riconoscibili”. Ma altri
significati, appartenenti non più alla sfera delle cose visibili, fondano
questa confusione che gli occhi registrano e della quale la mente prende atto
con terrore: la “perdizione” di questi due esseri, prima che fisica, è stata
metafisica e morale: solo in quanto morti e dannati (morti quindi due volte,
alla vita fisica e a quella dello spirito) essi possono perdere la propria
individualità confondendosi l’uno nell’altro. Dall’unione di quattro strisce (le braccia dell’uomo ed i piedi anteriori del serpente) ebbero origine le braccia; le cosce, le gambe, il ventre e il petto divennero membra mai vedute prima d’allora. Ogni sembianza precedente era li cancellata: la figura deforme aveva l’aspetto di due cose e di nessuna; e così se ne andò con lenta andatura. Come il ramarro sotto la grande sferza del sole nei giorni della Canicola (dal 21 luglio al 21 agosto), nel passare da una siepe all’altra, sembra un fulmine se attraversa la strada, così appariva, nel dirigersi verso i ventri degli altri due, un piccolo serpente infuriato, scuro e nero come un granello di pepe; e trafisse ad uno di loro quel punto del corpo attraverso il quale, quando siamo nel grembo materno, riceviamo il cibo; poi cadde disteso per terra davanti a quello. La rapidità del
serpentello (è il ladro Francesco Cavalcanti; cfr. nota ai versi 139-141 e
151), sottolineata dalla similitudine della terzina 79, contrasta fortemente
col passo torpido del mostro generatosi davanti agli occhi del Poeta attraverso
l’innaturale fusione di due esseri appartenenti a specie diverse. Per un attimo
“la malia sembra cessata, fugata l’aria immobile e stregata” (Momigliano). Da
notare il contrasto fra l’immobile luce solare (la gran fersa dei dì canicular)
e l’immagine della folgore, cui è ricondotto il movimento del ramarro: la stasi
sonnolenta della natura è percorsa come da un brivido, da un principio di
attività, di vita non rassegnata all’inerzia, da un essere mobilissimo, animato
da una volontà sicura. Il trafitto lo guardò, ma non disse nulla; anzi, con i piedi immobili, sbadigliava proprio come se fosse preso da sonno o febbre. Egli guardava il serpente, e questo (guardava) lui; l’uno attraverso la ferita, e l’altro attraverso la bocca emettevano un fumo denso, e i due fumi si mescolavano incontrandosi. Il fumo è il veicolo attraverso il quale si opera la
seconda metamorfosi di questo canto. Il Momigliano rileva che esso “è un
elemento comune nelle scene magiche: la sua forma indeterminata è come la
figurazione concreta della loro anima misteriosa”. Il “senso della
fascinazione” (durante tutte le fasi della loro reciproca trasformazione il
serpente e l’uomo non cessano di guardarsi negli occhi) è reso musicalmente,
nella terzina 91, dalla “simmetria tre volte ripetuta della prima parte del
verso colla seconda, che incanta lo spirito colla monotonia lievemente
sonnolenta del ritmo”. Più non si vanti Lucano per il passo in cui tratta dell’infelice Sabello e di Nassidio, e ascolti attentamente ciò che ora esce dalla mia fantasia. Più non si vanti Ovidio a proposito di Cadmo e di Aretusa; poiché se nei suoi versi trasforma quello in serpente e quella in fonte, io non lo invidio; mai infatti egli trasformò due esseri posti l’uno di fronte all’altro in modo che le forme di entrambi fossero in grado di scambiarsi la loro materia. Nella Farsaglia di Lucano (IX, versi 761-804) è descritta
la morte di due soldati romani nel deserto libico: Sabello, morso dal serpente
“seps”, divenne in brevissimo tempo cenere; Nassidio, morso dal serpente
“prester”, si dilatò fino al punto di scoppiare, trasformandosi così in una
massa informe. Ovidio narra, nelle Metamorfosi, la trasformazione di Cadmo, il
leggendario fondatore di Tebe. in serpente (IV, versi 563-603), e quella della
Nereide Aretusa, la quale, inseguita dal fiume Alfeo, fu da Diana mutata in
fonte (V, versi 572-641). (Le due nature) si corrisposero l’una all’altra secondo questa regola, il serpente divise la sua coda in forma di forca, e il trafitto unì insieme i suoi piedi. Le gambe, e nel medesimo tempo le cosce, si fusero insieme a tal punto, che in breve la linea d’unione non mostrava più alcun segno che fosse visibile. La coda divisa prendeva la forma che si perdeva nell’uomo, e la sua pelle diveniva morbida (come quella dell’uomo), mentre quell’altra s’induriva (come quella del serpente). Vidi le braccia ritirarsi attraverso le ascelle, e i due piedi della bestia, che erano corti, allungarsi tanto quanto quelle si accorciavano. Poi i piedi posteriori, attorcigliati l’uno all’altro, si trasformarono nel membro che l’uomo nasconde, e l’infelice dal suo membro aveva fatto uscire due piedi. Mentre il fumo ricopriva di nuovo colore sia l’uno che l’altro, e faceva spuntare il pelo sul serpente privandone l’uomo, uno si alzò (quello che era serpente) e l’altro (quello che era uomo) piombò a terra, senza che per questo l’uno distogliesse dall’altro gli occhi malvagi, sotto i quali ognuno mutava volto. Quello che era in piedi, ritirò il suo muso verso le tempie, e per l’eccessiva materia che in quella parte della testa si raccolse, vennero fuori dalle gote, che in precedenza ne erano prive, le orecchie: L’ultima delle metamorfosi dei ladri, seguita dal Poeta in
tutte le sue fasi e minuziosamente descritta, è quella che dà anche
l’impressione di maggior freddezza. Avverte tuttavia il Momigliano: “Che questa
descrizione sia molto precisa, non è che un’impressione superficiale; quella
più profonda, quella che toglie ogni apparenza di vano virtuosismo, è il vagare
affascinato dell’occhio fra l’una e l’altra figura”. Le mutazioni infatti
“procedono, a due a due, sicché noi rivediamo continuamente nella seconda quel
che nella prima s’era dileguato dinanzi al nostro occhio”. ciò che di quell’eccesso di materia non si ritirò e rimase dov’era, formò il naso per il volto, e ingrossò le labbra quanto fu necessario. Quello che stava disteso a terra, aguzzò il proprio volto, e ritirò le orecchie dentro la testa, come la lumaca fa con le sue corna; e la lingua, che in precedenza aveva avuto tutta d’un pezzo e pronta a parlare, si divise, mentre quella biforcuta nell’altro divenne unita; e il fumo cessò. Lo spirito che si era trasformato in serpente, fuggì sibilando per la bolgia, e l’altro parlando sputò dietro di lui. Quindi gli voltò le spalle formale da poco, e disse all’altro (al ladro che non ha subìto metamorfosi): «Voglio che Buoso corra carponi per questo sentiero, come ho fatto io». Il ladro che, ríacquistate le fattezze umane, parla e sputa
è Francesco Cavalcanti, quello divenuto serpente è Buoso Donati, o, secondo
altri commentatori, Buoso degli Abati, membri entrambi di famiglie nobili di
Firenze. L’atto dello sputare è messo dal Torraca in relazione con la “credenza
dell’antichità e del Medioevo che la saliva dell’uomo avesse virtù contro i
serpenti”. Vidi in tal modo i dannati della settima bolgia trasformarsI e scambiarsi le fattezze; e a questo proposito la straordinarietà dell’argomento valga a scusarmi, se il mio scrivere manca un poco di chiarezza. E sebbene i miei occhi fossero alquanto disorientati, e l’animo sgomento, quei due non poterono allontanarsi tanto di nascosto, che io non riuscissi a distinguere chiaramente Puccio Sciancato; ed era il solo, dei tre dannati che prima erano sopraggiuntí insieme, che non aveva subìto trasformazioni: l’altro era quello a causa del quale, tu, Gaville, ti lamenti. Del fiorentino Puccio Sciancato, appartenente alla famiglia
ghibellina dei Galigai, una chiosa trecentesca dice che fu autore di “belli
furti e leggiadri” e aggiunge che “fue cortese furo [ladro] a tempo, e però non
era trasmutato, overo perché li suoi furti erano di die e non di notte”. |
Copyright © 1999 Luigi De Bellis