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INFERNO:
CANTO XIV
 

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Poiché l’amore di patria  mi riempì di commozione, raccolsi le fronde disperse, e le restituii a quell’anima, che ormai  era muta.

Qui finisce il racconto delle cose vedute nella selva dei suicidi, cosicché questa terzina si lega idealmente, per quanto riguarda il contenuto, più che al canto che inizia, a quello precedente.
Quest'ultimo non poteva tuttavia terminare con una nota patetica e di raccoglimento (nel verbo strinse sono presenti le due connotazioni, quella affettuosa e quella che indica l'intensità, la concentrazione di questo affetto), senza contraddire il senso intimo del suo sviluppo. Il tredicesimo canto è infatti il canto dell'orrore, del paradosso divenuto realtà, del dolore che non può sfogarsi che per mezzo di un dolore momentaneamente più vivo (le piante si esprimono soltanto attraverso le " fenestre " che in esse aprono le Arpie; Pier delle Vigne è messo nella condizione di parlare dopo che Dante ha reciso un membro del suo corpo vegetale), del suicidio che assurge, nelle parole del fiorentino anonimo, a simbolo della rovina della sua città. D'altra parte questa terzina iniziale si isola, sia per l'argomento sia per il tono, anche dal canto di cui fa parte. Il tema della violenza (Capaneo) le è estraneo, come le è estraneo quello dell'universale corruzione da cui si origina il pianto della umanità peccatrice (Veglio di Creta). Lo Spitzer ha messo in rilievo il parallelismo tra i due gesti che Dante compie all'inizio e alla fine dell'episodio dei suicidi:  "Dante fa ammenda al suo atto involontario di aprire ferite, col suo atto, deliberato e compassionevole, di ristorarle; l'episodio giunge ad una conclusione con il suo gesto, che intende placare il turbamento che l'altro gesto aveva provocato".

Giungemmo quindi al confine dove il secondo girone si separa  dal terzo, e dove si contempla una spaventosa opera della giustizia.

Per spiegare bene le cose qui vedute per la prima volta, dico che arrivammo presso una pianura  che respinge dalla sua superficie ogni forma di vegetazione.

La triste foresta (dei suicidi) la circonda, come il fiume di sangue  circonda quest’ultima: qui ci arrestammo sul margine.

Il terreno  era una sabbia asciutta e compatta, non dissimile  da quella che fu calpestata  un tempo da Catone.

I critici hanno variamente notato l'andamento discorsivo di questa prima parte del canto. Dante indugia stranamente qui nella descrizione e nella precisazione. Come giustamente osserva il Varese, ivi "l'abbondanza delle pause, delle inflessioni di raccoglimento, d'indicazione, imprimono sin da principio un senso di chiarezza, direi di minuziosa logicità: sono punti di passaggio e d'obbligo, che ci danno tuttavia il segno della lucidità preoccupata della mente dantesca, nel suo bisogno di aiutare e non di confondere il lettore".
Per quello che riguarda l'accenno a Catone Uticense, occorre ricordare che Dante non aveva mai veduto un deserto. Il riferimento storico (la guerra combattuta in Libia tra Cesare e i Pompeiani guidati da Catone nel 45 a. C.) serve qui, come nei versi 31 -36, a suggerire per via indiretta il riferimento reale per uno spettacolo fantastico. Lo scrupolo della realtà non abbandona mai Dante; è questo un altro aspetto della serietà del suo impegno morale e, nello stesso tempo, un elemento indispensabile alla sua poesia, la quale, quanto più ritrae l'irreale, tanto più lo convalida attraverso l'oggettiva fermezza della cosa vista e documentabile. Il linguaggio, di Dante non è quello del sogno,  ma sempre, anche nel Paradiso, alle soglie dell'inesprimibile, quello delle distinzioni nette.

O castigo  di Dio, quanto devi essere temuto da chiunque legge ciò che apparve  ai miei occhi!

Vidi molte schiere  di dannati indifesi  che piangevano tutte con grande strazio, e appariva imposta  a ciascuna una diversa punizione.

Alcuni (i bestemmiatori) giacevano in terra in posizione supina; altri (gli usurai) sedevano tutti rannicchiati, altri ancora (i sodomiti) camminavano senza posa.

Quelli che camminavano girando intorno erano più numerosi, mentre quelli che sostenevano il castigo distesi  erano in minor numero, ma più pronti a manifestare il dolore.

Sulla distesa dì sabbia, per tutta la sua ampiezza, scendevano lentamente, larghe falde di fuoco, come (falde) di neve su una montagna senza vento.

L'idea della pioggia di fuoco è venuta a Dante probabilmente dalla Bibbia (distruzione di Sodoma, Genesi XIX, 24). Ma nuovo, e tipicamente dantesco, è l'accostamento di questa pioggia ignea ad una nevicata. La precisazione sanza vento suggerisce indirettamente la lentezza del fenomeno, come rilevava già un antico commentatore, il Buti:  "nevica la neve a falde nell'alpi quando non è vento; impero che quando è vento, la rompe, e nevica più minuta". Il verso come di neve in alpe sanza vento è la rielaborazione di un analogo verso di Guido Cavalcanti: "e bianca neve scender sanza venti". Ma, come ha mostrato il Sapegno, mentre nel Cavalcanti si afferma un gusto decorativo "da gotico fiorito", gusto che si manifesta attraverso una specificazione elegante, ma non necessaria, "bianca", in Dante tutto è ridotto all'essenziale, messo in rapporto con lo spettacolo innaturale che intende presentarci. Dove, come nell'inferno, la natura contraddice se stessa, anche l'arte deve saper trovare i mezzi per esprimere questa contraddizione.
La forza dell'immagine contenuta in questa terzina nasce dall'accostamento immediato, senza mezzi toni interposti, di due termini (foco, neve) che nella nostra comune percezione si escludono reciprocamente.

Come le fiamme che nelle calde regioni dell’India Alessandro vide cadere compatte  fino a terra sul suo esercito,

e perciò fece calpestare  il terreno dalle schiere, perché  il fuoco si spegneva meglio, finché era isolato,  

allo stesso modo, scendeva  il fuoco eterno; e perciò la sabbia si infiammava, come materia infiammabile  sotto l’acciarino, per raddoppiare la sofferenza.

Dante attinge le notizie riguardanti Alessandro Magno ad un passo del trattato sulle meteore di Sant'Alberto Magno, ma in questo passo appaiono fusi insieme due eventi descritti separatamente in una lettera attribuita ad Alessandro e diretta ad Aristotile: una abbondante nevicata, dopo la quale il re macedone ordinò ai suoi soldati di calpestare il suolo, e una pioggia di fuoco dalla quale si ripararono opponendo ad essa i loro indumenti.  

Il movimento frenetico  delle misere mani era incessante, nello scostare  dai corpi il fuoco appena caduto.

La tresca è, secondo la definizione del Buti, un "ballo saltereccio, ove sia grande e veloce movimento e di molti, inviluppato". Qui il termine è usato in senso figurato come l'analogo riddi del settimo canto (verso 24). Soltanto che mentre là riddi acquistava rilievo dallo stile volutamente " aspro " del brano in cui era inserito (lo preparava un crescendo di rime intenzionalmente disarmoniche) ed esprimeva un atteggiamento di sarcastica condanna, qui tresca, immesso in un contesto rispondente ad altre esigenze stilistiche, implica soprattutto un sentimento di commiserazione e di stupito orrore.

Cominciai a parlare:  “ Maestro, tu che superi ogni difficoltà, tranne i diavoli ostinati  che ci uscirono  incontro mentre stavamo per entrare attraverso la porta (di Dite),

chi è quel grande che non sembra tenere in considerazione  le fiamme e giace sprezzante e torvo, in modo che la pioggia (di fuoco) non sembra fiaccarlo ?”

E quello stesso accortosi che chiedevo di lui a Virgilio, gridò: “ Come fui da vìvo, così sono da morto.

Chi parla è Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe. Già nella Tebaide di Stazio (III, 602, 605, 661) appare come empio e disprezzatore degli dei. Il poeta latino narra che, dopo essere salito sulle mura di Tebe, osò sfidare Bacco ed Ercole, protettori della città, e infine lo stesso Giove, che, sdegnato, lo fulminò (Tebaide X, 845 sgg.).
Il par, due volte ripetuto in questa terzina (versi 46 e 48), è stato addotto da alcuni critici a conferma dell'interpretazione secondo la quale il tratto che contraddistinguerebbe il personaggio di Capaneo sarebbe la vanagloria; par starebbe così ad indicare una contraddizione tra apparenza e realtà, ostentazione di forza e intima debolezza. In realtà, come altrove in Dante, il termine ha qui soltanto il significato di " essere manifesto ", "essere visibile ". Del resto, la presentazione della figura di Farinata avviene in modo analogo: com'avesse l'inferno in gran dispitto.
La tesi che vede in Capaneo un personaggio privo di forza morale, compiaciuto di sé e vacuo, avanzata dal De Sanctis, è stata ripresa recentemente, tra gli altri, dall'Apollonio, che riduce il mitico bestemmiatore alla statura di un eroe da melodramma: "Intona il suo pezzo canoro, al primo pretesto che gli si presenta: dipana il suo dire senza sosta, in una unica cadenza di parola e di canto, d'un fiato... quando il periodo oratorio, metrico e musicale è al suo culmine, all'acuto, e accompagnato dal gesto mimico contratto con cui il protagonista istituisce