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Poiché l’amore di patria
mi riempì di commozione,
raccolsi le fronde disperse, e le
restituii a quell’anima, che ormai
era muta. Qui finisce il
racconto delle cose vedute nella selva
dei suicidi, cosicché questa terzina si
lega idealmente, per quanto riguarda il
contenuto, più che al canto che inizia,
a quello precedente. Giungemmo quindi al confine dove il secondo girone si separa
dal terzo, e dove si contempla
una spaventosa opera della giustizia. Per spiegare bene le cose qui vedute per la prima volta, dico
che arrivammo presso una pianura
che respinge dalla sua superficie
ogni forma di vegetazione. La triste foresta (dei suicidi) la circonda, come il fiume di
sangue
circonda quest’ultima: qui ci
arrestammo sul margine. Il terreno era
una sabbia asciutta e compatta, non
dissimile
da quella che fu calpestata
un tempo da Catone. I critici hanno
variamente notato l'andamento discorsivo
di questa prima parte del canto. Dante
indugia stranamente qui nella
descrizione e nella precisazione. Come
giustamente osserva il Varese, ivi
"l'abbondanza delle pause, delle
inflessioni di raccoglimento,
d'indicazione, imprimono sin da
principio un senso di chiarezza, direi
di minuziosa logicità: sono punti di
passaggio e d'obbligo, che ci danno
tuttavia il segno della lucidità
preoccupata della mente dantesca, nel
suo bisogno di aiutare e non di
confondere il lettore". O castigo di Dio,
quanto devi essere temuto da chiunque
legge ciò che apparve
ai miei occhi! Vidi molte schiere di
dannati indifesi
che piangevano tutte con grande
strazio, e appariva imposta
a ciascuna una diversa punizione. Alcuni (i bestemmiatori) giacevano in terra in posizione
supina; altri (gli usurai) sedevano
tutti rannicchiati, altri ancora (i
sodomiti) camminavano senza posa. Quelli che camminavano girando intorno erano più numerosi,
mentre quelli che sostenevano il castigo
distesi erano in minor numero, ma più pronti a manifestare il
dolore. Sulla distesa dì sabbia, per tutta la sua ampiezza,
scendevano lentamente, larghe falde di
fuoco, come (falde) di neve su una
montagna senza vento. L'idea della
pioggia di fuoco è venuta a Dante
probabilmente dalla Bibbia (distruzione
di Sodoma, Genesi XIX, 24). Ma nuovo, e
tipicamente dantesco, è l'accostamento
di questa pioggia ignea ad una nevicata.
La precisazione sanza vento suggerisce
indirettamente la lentezza del fenomeno,
come rilevava già un antico
commentatore, il Buti: "nevica la neve a falde nell'alpi quando non è vento;
impero che quando è vento, la rompe, e
nevica più minuta". Il verso come
di neve in alpe sanza vento è la
rielaborazione di un analogo verso di
Guido Cavalcanti: "e bianca neve
scender sanza venti". Ma, come ha
mostrato il Sapegno, mentre nel
Cavalcanti si afferma un gusto
decorativo "da gotico
fiorito", gusto che si manifesta
attraverso una specificazione elegante,
ma non necessaria, "bianca",
in Dante tutto è ridotto
all'essenziale, messo in rapporto con lo
spettacolo innaturale che intende
presentarci. Dove, come nell'inferno, la
natura contraddice se stessa, anche
l'arte deve saper trovare i mezzi per
esprimere questa contraddizione. Come le fiamme che nelle calde regioni dell’India Alessandro
vide cadere compatte
fino a terra sul suo esercito, e perciò fece calpestare
il terreno dalle schiere, perché
il fuoco si spegneva meglio,
finché era isolato, allo stesso modo, scendeva
il fuoco eterno; e perciò la
sabbia si infiammava, come materia
infiammabile
sotto l’acciarino, per
raddoppiare la sofferenza. Dante attinge le
notizie riguardanti Alessandro Magno ad
un passo del trattato sulle meteore di
Sant'Alberto Magno, ma in questo passo
appaiono fusi insieme due eventi
descritti separatamente in una lettera
attribuita ad Alessandro e diretta ad
Aristotile: una abbondante nevicata,
dopo la quale il re macedone ordinò ai
suoi soldati di calpestare il suolo, e
una pioggia di fuoco dalla quale si
ripararono opponendo ad essa i loro
indumenti. Il movimento frenetico delle
misere mani era incessante, nello
scostare
dai corpi il fuoco appena caduto. La tresca è,
secondo la definizione del Buti, un
"ballo saltereccio, ove sia grande
e veloce movimento e di molti,
inviluppato". Qui il termine è
usato in senso figurato come l'analogo
riddi del settimo canto (verso 24).
Soltanto che mentre là riddi acquistava
rilievo dallo stile volutamente "
aspro " del brano in cui era
inserito (lo preparava un crescendo di
rime intenzionalmente disarmoniche) ed
esprimeva un atteggiamento di sarcastica
condanna, qui tresca, immesso in un
contesto rispondente ad altre esigenze
stilistiche, implica soprattutto un
sentimento di commiserazione e di
stupito orrore. Cominciai a parlare: “
Maestro, tu che superi ogni difficoltà,
tranne i diavoli ostinati
che ci uscirono incontro mentre stavamo per entrare attraverso la porta (di
Dite), chi è quel grande che non sembra tenere in considerazione
le fiamme e giace sprezzante e
torvo, in modo che la pioggia (di fuoco)
non sembra fiaccarlo ?” E quello stesso accortosi che chiedevo di lui a Virgilio, gridò:
“ Come fui da vìvo, così sono da
morto. Chi parla è
Capaneo, uno dei sette re che
assediarono Tebe. Già nella Tebaide di
Stazio (III, 602, 605, 661) appare come
empio e disprezzatore degli dei. Il
poeta latino narra che, dopo essere
salito sulle mura di Tebe, osò sfidare
Bacco ed Ercole, protettori della città,
e infine lo stesso Giove, che, sdegnato,
lo fulminò (Tebaide X, 845 sgg.). |